NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 17 marzo 2024

18 marzo 2024





di Emilio del Bel Belluz

In questo periodo mi capita spesso di pensare a quelle persone che avrei voluto conoscere nella mia vita e che per vari motivi non ho potuto farlo. Un mio sogno era quello di poter andare a Cascais a trovare Re Umberto II, Re d’Italia Questo mio desiderio rimase sempre nel cassetto come quegli amori impossibili che non si possono realizzare perché, non avevo i mezzi per andare a trovarlo, il denaro non mi scorreva tra le mani con molta facilità. La figura del Re Umberto II mi era entrata nel cuore nel momento in cui venni a sapere a scuola cosa fosse l’esilio. Quante volte mi ero rivolto alla maestra delle elementari che si spiegasse cosa fosse questo termine che non apparteneva al vocabolario di un giovane di 10 anni. Questa parola mi faceva soffrire solo a pronunciarla, era una parola intrisa d’ingiustizia. La mia maestra aveva capito una cosa molto importante, cioè che ero una persona che non tollerava nessun torto. La maestra mi aveva spiegato che il Re Umberto II aveva scelto di andare in esilio per rinunciare ad una guerra civile che ci sarebbe di sicuro stata. Il Re che aveva un cuore generoso non aveva permesso che questo si verificasse.  L’insegnante era rimasta colpita dal susseguirsi di domande che gli avevo rivolto, e mi aveva donato un vecchio libro che parlava della monarchia e che mostrava il Re d’Italia in una foto assieme alla sua famiglia. Rimasi colpito nel vedere il volto sorridente del Re e della diletta moglie assieme ai figli; la foto li ritraeva vicino alla loro abitazione. Per quella famiglia così bella non c’era più posto in Italia. La maestra, che a mio giudizio aveva una certa simpatia per Casa Savoia, mi aveva fatto ritagliare quella foto perché la mettessi nel mio quaderno di storia. Avevo frequentato la quinta elementare a Villanova di Motta dove la mia famiglia possedeva una vecchia osteria e un negozio di alimentari. Allora la vita era molto diversa da quella di adesso. Il mondo sembrava più normale e si viveva cullati dalle piccole cose, che per me erano rappresentate anche dai libri di storia. Sono stato anche elogiato davanti ai miei compagni di classe per la mia passione per la storia. L’insegnante mi consigliò di fare una vera e propria ricerca su Casa Savoia, prendendo come fonte coloro che avevano avuto modo di conoscere qualche rappresentante di questa dinastia. Allora decisi di rivolgere delle domande ad uno zio, che era fratello di mio nonno, e che viveva con noi. Il suo nome era Gaetano e aveva combattuto durante la Grande Guerra. Era un bersagliere, ed era stato nello stesso battaglione di Mussolini, Nella sua stanza aveva una foto con il cappello con le piume di cui andava fiero. Nella stessa foto c’era sua moglie Rosa che lo aveva lasciato molti anni prima. Quella foto la posseggo ancora adesso. Il vecchio Gaetano disse che in guerra aveva avuto modo di vedere in più occasioni il Re Vittorio Emanuele III, e il figlio, l’allora principe Umberto che ispezionavano le trincee, intrattenendosi a parlare con i soldati. Non avevano timore di mostrarsi in prima linea, pur di confortare e sollevare l’umore dei fanti. Lo stesso giorno mi mostrò una medaglia che si era guadagnato in guerra per un’azione pericolosa che gli era stata affidata. Lo zio Gaetano aveva sofferto per la morte in esilio del Re soldato e di sua moglie, la Regina Elena, una donna che aveva aiutato i poveri, e che si era sempre prodigata per gli ultimi. Il vecchio zio, all’epoca dei suoi racconti, aveva quasi novant’ anni. Passava le sue giornate a fumare il sigaro e a guardare la televisione. Di Re Umberto II disse che era stato una persona saggia, che aveva un cuore d’oro e, sicuramente, sarebbe stato un buon Re. Il vecchio Gaetano aveva pure amato la figura di Giovannino Guareschi che aveva scritto dei libri e che si era sempre dichiarato fedele verso la monarchia, denunciando i brogli che vi erano stati durante il referendum. Mi parlò di un film dove una vecchia maestra rimproverava il sindaco del paese e i rossi di aver mandato via il Re e la sua famiglia in un’isola. Quella vecchia maestra che morendo aveva chiesto che sulla sua bara fosse posta la bandiera del Re. Quel film lo aveva molto commosso, a tal punto, che una lacrima gli era scesa dal volto. Avevo trascritto in un quaderno tutte le risposte avute dallo zio, come pure vi avevo incollato delle foto inerenti ai reali di Casa Savoia, trovate in un vecchio libro donatomi dal parroco del paese. La maestra rimase molto soddisfatta della mia ricerca e mi premiò con un voto altissimo.  Da grande sognavo di scrivere anch’io un libro che potesse dare luce sull’operato di Casa Savoia, caduta nell’oblio. Dopo la licenza elementare mi portai dietro quel quaderno e continuai ad incollare quei pochi articoli sui Savoia che trovavo nei giornali che venivano recapitati a casa mia. La fedeltà a Casa Savoia durerà per tutta la vita. Quante volte avrei voluto mettermi su un treno e raggiungere Re Umberto II, a Cascais. Mi sarei presentato davanti alla sua Villa Italia chiedendogli di stringergli la mano, e di poter avere da lui una foto con dedica, o magari un libro. Questo sogno lo cullai per sempre. Quello che realizzai in questi anni fu una fedeltà assoluta al suo ricordo. Quando morì non ebbi nessun dubbio. Dovevo andare ai sui funerali, e ci riuscii, anche se con molte traversie. Raggiunsi la Francia con la morte nel cuore, e da quel momento non lo dimenticai mai. Ogni anno e per quarantun anni ho scritto un ricordo per l’anniversario della sua morte che ho pubblicato nei giornali amici, quelli che ti hanno dato spazio, esprimendo la mia fedeltà e devozione al Sovrano. Quest’anno ho scritto questo articolo.  Il 18 marzo del 1983 moriva il Re d’Italia S.M. Umberto II, in terra d’esilio, all’ospedale di Ginevra. Ero tra coloro che presenziarono ai suoi funerali, in una giornata in cui il cielo aveva deciso di piangere come quelle migliaia di italiani che avevano sfidato ogni difficoltà pur di esserci.  Il sovrano che era morto dopo una lunga malattia era considerato un grande uomo, una persona che aveva come priorità assoluta il bene del suo Paese. Durante la lunga malattia che lo aveva colpito, e che faceva presagire nessuna possibilità di guarigione, aveva chiesto di poter far ritorno alla sua amata patria che gli aveva dato i natali il 15 settembre 1904. Questa richiesta rimase inevasa, la repubblica non ebbe nessun rispetto per il Re, per una persona che era stata 37 anni in esilio: una condanna che nessuna ragione politica poteva giustificare. Il giorno delle esequie, in terra straniera, si distribuì un volantino che conservo nel mio studio vicino alla foto del Re Umberto II. Questo foglio scritto da quel galantuomo di Sergio Boschiero, allora segretario dell’U.M.I. diceva: “Il Re è morto: Viva il Re! S.M. il Re Umberto II è morto. Voleva rivedere l’Italia ma anche la morte ha stroncato il più grande desiderio della Sua vita. È morto da italiano e da Re come da italiano e da Re era vissuto. Ha sempre e solo parlato di fratellanza, di giustizia, di pace: per questo è stato condannato all’esilio”. Quelle parole riassumevano la vita di un uomo che aveva provato tutto, sopportato tutto, provato nel male, ma non si era mai arreso. Quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo non possono che tesserne le lodi, e quelli che hanno letto la sua biografia non possono che apprezzare il suo modo di agire e l’amore che aveva per la sua terra. In esilio visse in Portogallo, a Cascais, allora un piccolo paese di pescatori dove tutti lo stimavano e lo conoscevano. Era sua abitudine intrattenersi con quelli che lo cercavano, con coloro che bussavano alla sua porta e gli chiedevano aiuto. Alla domenica si recava alla messa nella piccola chiesetta del paese, e all’uscita molti poveri lo circondavano e gli chiedevano aiuto, e per tutti aveva qualcosa da dare. La sua generosità era risaputa da molti e a quella messa si davano convegno quelli che il destino non aveva reso felici. La sua fama tra quelle genti non conoscerà mai tramonto. Quello che si fa con il cuore rimane.  Sono trascorsi 41 anni dalla sua morte e non si è fatto nulla di concreto per farlo riposare in Italia, al Pantheon, assieme a sua moglie, la regina Maria José nonostante sia stato un Re mandato in esilio per evitare una guerra civile e abbia fatto parte di una dinastia che ha scritto mille anni di storia italiana. Il nostro Paese sembra aver scordato la sua storia, e le sue radici. Anche quest’anno molti italiani andranno in Francia a rendergli omaggio, con una tristezza maggiore, perché lo scorso anno a quella commemorazione vi stava anche il figlio S.A.R. Vittorio Emanuele IV, che il buon Dio ha chiamato a sé. Dopo i funerali del Re Umberto II, nel suo scrittoio di Cascais, trovarono due citazioni che aveva scritto di proprio pugno. La prima faceva riferimento alla Lettera di San Paolo ai Corinzi:”

 

«Poco importa a me d’essere giudicato da voi, da un tribunale umano; anzi, non mi giudico neppure da me stesso. Infatti non ho coscienza di alcuna colpa; non per questo però sono giustificato; mio giudice è il Signore». La seconda riportava le parole di Pietro I, Valica del Montenegro: «lo mi avanzo pieno di speranza alle soglie del / Tuo Divino Santuario / la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato / dai miei passi mortali. / Alla Tua chiamata io vengo tranquillo …»

17 Marzo

 


venerdì 15 marzo 2024

Con colpevole ritardo

Alla Regina Elena nel giorno dell'8 Marzo



Quante volte avevo guardato

quel volto misericordioso,

Elena Regina, sposa

e madre, di tanti figli

di questa Italia amata

abbracciata, vissuta e sentita

fino ad esserne pagina

di storia, Vita e Amore.

L'azzurro degli occhi

è lo specchio di un mare

che non contiene la Tua bontà

e tracima nel bene che sgorga dalle vette

e attraversa le valli,

corre lungo le pianure

scintilla come la gemma

di una corona d'eternità

che adorna la Tua anima

alla quale ci rivolgiamo con Fede.

Il Tuo spirito vive

nella fertile eredità che si estende

lungo arenili illuminati

da una tenera aurora,

dove Tu vivesti e ora ascolti

parole che nel silenzio

congiungono per sempre

i nostri respiri alla Tua Misericordia.

L''azzurro ascolta preghiere,

il vento raccoglie suppliche

il viso della Regina Elena è una rosa

che si apre al mattino

e fa di un'alba screziata di speranza

un mattino florido

di miracoli tinti di gioia profonda.

Di nobiltà è ricco il giardino,

i cuori si congiungono in una nota

che esprime l'armonia dell'essere,

qui sento Elena, Regina e donna,

è la forza di una gemma

che scuote l'anima nostra

per implorarci di rinascere,

per invitarci a rifiorire

profumando l'Italia

di un Risorgimento

d'anima e cuore e spirito

sotto l'egida del Suo Amore.

 

Monia Pin

08 marzo 2024

martedì 5 marzo 2024

Trigesimo della morte del Principe Vittorio Emanuele

 di Emilio del Bel Belluz


 C’è una frase che spesso mi capita di citare, scritta da J. Wasermann, che esprime verità” …. Non ti posso descrivere come mi sento quando mi trovo di fronte all’ingiustizia, non importa se fatta a me o ad altri. Mi passa da parte a parte; mi dolgono il corpo e l’anima; mi pare che mi si colmi la bocca di sabbia e che io debba soffocare lì per lì”. 

Questo è quello che ho provato in questi giorni. Infatti sono rimasto tristemente colpito per come i rappresentanti politici del mio Paese abbiano accolto la notizia della morte del figlio di Re Umberto II: solo qualche espressione di vicinanza alla famiglia è stata fatta. Per non parlare della stampa italiana che non ha ritenuto doveroso riservargli il titolo di Principe, anche la stampa cattolica ha relegato la notizia nelle ultime pagine. E pensare che fu Re Umberto II a donare alla Chiesa la Sacre Sindone. 

La televisione ha fatto vedere delle immagini di S.A.R. con le manette ai polsi per reati di cui è stato dichiarato innocente. È venuto a mancare un atteggiamento di rispetto sia verso Casa Savoia, sia verso tutti i monarchici e, non sono pochi, che sono rimasti fedeli alla dinastia che ha scritto un millennio di storia italiana. Nel referendum del 1946 quasi la metà degli italiani aveva votato per la monarchia, lo scarto era stato minimo, senza tener conto dei brogli elettorali. 

Re Umberto II fu costretto all’esilio per evitare una guerra civile. Piero Nenni disse: “O la Repubblica o il caos”. 

Tanto era l’odio verso la monarchia e, precisamente, verso i discendenti di Casa Savoia. Re Umberto quando veniva attaccato da commenti negativi e pieni di livore nei suoi confronti amava citare lo scrittore americano, James Baldwin, che così scriveva: “Una delle ragioni per cui la gente si aggrappa così tenacemente all’odio è che sembrano avere la sensazione che una volta svanito l’odio gli resterà solo il vuoto e la pena”.   

 

 

  In questi giorni di dolore mi sono sentito vicino a Emanuele Filiberto come se fosse mio figlio. Avrei voluto dirgli che ogni padre avrebbe voluto avere un figlio come lui. Non potrò mai dimenticare le parole affettuose che il principe Emanuele Filiberto ha espresso nei confronti del suo genitore: lo considerava una persona cara, un amico, un maestro, un confidente a cui rivolgersi nelle avversità della vita. Si sentiva che questi sentimenti sgorgavano dal cuore, da una fonte pulita. Qualcuno scrisse che ai genitori e ai maestri non si deve mai abbastanza. Ai funerali mi ha colpito il figlio Principe Emanuele Filiberto, il suo volto scolpito dal dolore, le lacrime trattenute nel suo cuore e la dignità con cui ha dato l’ultimo saluto al feretro avvolto dalla bandiera sabauda. Anche la consorte era affranta dal dolore, ora rimasta sola dopo un lungo percorso trascorso assieme alla persona amata. Nessun rappresentante del governo italiano è stato presente alle esequie: troppa indifferenza che ha fatto male a molti. Un capitolo di storia è stato chiuso, ma sono certo che il principe Emanuele Filiberto continuerà nelle varie opere di beneficenza, iniziate dai suoi predecessori, come uomo di buon cuore che egli è.

ATTUALITÀ DI LUIGI EINAUDI

 


150° di Luigi Einaudi

(il Presidente che votò Monarchia)

 

di Aldo A. Mola

 

Taluno vorrebbe giustapporre i poteri del presidente del Consiglio dei ministri a quelli che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato. Nel 150° della nascita di Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) ricordiamo il suo esempio di primo Presidente effettivo della Repubblica italiana: monarchico, liberale ed europeista.

 

   Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, rievocò Luigi Einaudi nel 70° del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica italiana. Guidato dal nipote Roberto, architetto, ne visitò la tomba nel cimitero di Carrù (Cuneo) e la villa in Dogliani, dalla celebre biblioteca. Nella sala del consiglio municipale ricordò che a lui, liberale, e al democristiano Alcide De Gasperi toccò «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata».

   Accolta in spirito di servizio la proposta di elezione alla suprema carica dello Stato, recatagli da Giulio Andreotti su incarico di De Gasperi (in alternativa al divisivo Carlo Sforza e in contrapposizione a Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre), pur privilegiando l'esercizio della “moral suasion” anche con lettere private, Einaudi unì discrezione e fermezza nella rivendicazione delle prerogative di Presidente, «a partire dall'esercizio del potere previsto dall'art.87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa». Rinviò al Parlamento due leggi «perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell'art. 81 della Costituzione». Erano somme modeste, ma contava il principio.

   Dopo le elezioni del 1953, Einaudi rifiutò il successore di De Gasperi indicatogli dalla Democrazia Cristiana, all'epoca partito di maggioranza, e nominò Giuseppe Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che guidò un governo tripartito (DC, repubblicani e socialdemocratici), con Mario Scelba all'Interno. A futura memoria, il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, la “nota verbale” sulla corretta interpretazione dell'art. 92 della Carta («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio»), motivata dal «dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». È un dovere anche oggi incombente.

   Strenuo avversario dell'“assemblearismo” («il governo di assemblea vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza») e del “mandato imperativo” (escluso dall'art. 67 della Costituzione), da senatore del Regno osteggiò la legislazione liberticida: come nel 1928, quando fu conferita al Gran consiglio del fascismo la compilazione della lista dei deputati alla Camera, e nel 1938, quando respinse le leggi razziali. Fu «un patriota – disse Mattarella – consapevole di contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al consolidamento della Repubblica democratica».

   Un passo dell'intervento presidenziale rimarrà memorabile perché, attraverso le parole di Einaudi Sergio Mattarella ha fatto intendere la propria missione. Riferendosi all'azione di Vittorio Emanuele III per portare l'Italia al di fuori della catastrofe nell'estate 1943, Einaudi osservò che la prerogativa sovrana «può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza». Nell'ora decisiva, il 25 luglio 1943, il Re esercitò i poteri statutari revocando Benito Mussolini da capo del governo. Fu l'inizio del nuovo corso storico.

 

Un profilo dello Statista

Luigi Einaudi fu eletto presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto scrutinio l'11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale, monarchico e piemontese, prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti liberale, monarchico, “presidente della Vittoria”.

   Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre, crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Allievo dei Padri Scolopi a Savona, fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri. Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente ma a tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti eranoaiuta te stesso” e “volere è potere”, divulgati  dal naturalista Michele Lessona.

   Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896 Einaudi collaborò al quotidiano “La Stampa”. Professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino, divenne il maggiore economista liberale del Novecento. Autore di opere prestigiose (Un principe mercante. Studi sull'espansione coloniale italiana e saggi sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte), scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves e nella “Riforma sociale” diretta a Torino da Salvatore Cognetti de' Martiis. Collaboratore dal 1903 del quotidiano“Corriere della Sera” diretto da Luigi Albertini e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a vantaggio di troppi “clienti” e di opportunisti. Docente di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino, ove poi ebbe cattedra ad vitam.

   Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III su proposta del presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Rievocò le sue esperienze alla Camera Alta in un saggio del 1956 pubblicato nella “Nuova Antologia”. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che ventilò il proposito di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi (imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari). Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, vittima del regime. All'indomani della morte del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), aggredito da una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”.

   Le sue opere erano note ormai anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 egli aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Da altro versante ne scrisse in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con Benedetto Croce. Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca «l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga». Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: «la scienza economica è subordinata alla legge morale».

   Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933) e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936). Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della razza italiana”. Avversò l'antisemitismo e l'incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare di Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici dipendenti, a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure”, con apporti di altre genti nel corso del tempo.

   Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza, condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano, fu «il più grande demitizzatore» italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma anche nella vita sociale: abolizione di maiuscole, titoli vanesi e formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.

 

La Ricostruzione

Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due” (formula di Croce), appreso di essere ricercato riparò in Svizzera. Vi collaborò a “L'Italia e il Secondo Risorgimento” (Lugano) e pubblicò, tra altro, I problemi economici della Federazione europea. Chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L'amministrazione locale era a sua volta subordinata ai governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle “Am-Lire”. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentati nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel consiglio dei ministri erano divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni, paralizzando il Parlamento, bicamerale; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore della Banca d'Italia dovette quindi valersi di cariche e di poteri ulteriori per risalire la china.

   Nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente, Einaudi fu eletto alla Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) tra i deputati del Partito liberale italiano. Nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti d'America, De Gasperi lo volle vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione. Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato da Antonio d'Aroma, suo fido segretario particolare. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate: la burocrazia. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Lasciò che il tempo facesse tramontare propositi irrealistici, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. In un paio d'anni le speculazioni si esaurirono e l'inflazione si ridusse a indici accettabili, con la ripresa della produzione e del mercato, favorita dai giganteschi prestiti americani senza oneri (Piano Marshall).

   Contrario a imposte straordinarie e contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà, mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria) e alla valorizzazione di quanti servivano lo Stato con dedizione . Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia.

   Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che, presieduta da Meuccio Ruini, redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che recita: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.»

 

L'eredità di un Capo dello Stato europeista

Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato. Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che al quarto scrutinio De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, già tre volte invano sostenuto dalla Democrazia cristiana. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III: poco marziale, ma “Re Soldato”.

   Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e in Prediche inutili. Improntò l'esercizio del ruolo a discrezione e continuità. Istituì il Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa e all'insegna dell’austerità. All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del liberalismo: «Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno costretti dall'imposta a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.»

   Qual è l'eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora da persone “vicine”) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch'egli auspicò riforme mai attuate ma sempre attuali, a cominciare dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio.

    Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione nel V governo presieduto da Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente dell’Associazione dei piemontesi a Roma nel 1961 promosse i due poderosi volumi della Storia del Piemonte (ed. Casanova). Alla rievocazione del passato quale alimento irrinunciabile per la costruzione della Nuova Europa dedicò saggi memorabili, quali Andiamo in Piemonte! (pubblicato nel 1949 da “Il Ponte”, diretto da Piero Calamandrei) e Piccolo mondo antico, affidato a “Nuova Antologia”, la rivista che lo ebbe collaboratore sin dal 1900 e nella quale raccolse le finissime riflessioni Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica (agosto 1956).

   Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa, ancora lontanissima da una vera unità d'intenti, va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base dello studio storico, della scienza della finanze e dell'economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.

 

DIDASCALIA: Luigi Einaudi.

Su di lui si vedano Riccardo Faucci, Einaudi, Torino, Utet, 1986; Francesco Forte-Paolo Silvestri, “Einaudi”, in Dizionario del Liberalismo Italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015 e Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, Roma, Herald, 2024 (1^ ed. 2022).

 

venerdì 23 febbraio 2024

IL “CANTO NAZIONALE” CATTOLICI E RISORGIMENTO ITALIANO

 

Dopo la “finzione” Rai su Mameli

 

di Aldo A. Mola

 

Più luce sui Padri Scolopi chiede da Carcare il sindaco Mirri

Il “Canto nazionale”, noto anche come “Inno di Mameli”, rientra fra i tabù. Vietato scriverne per non incappare in “scomuniche”. Gradito o meno, esso deve piacere e va cantato perché “è così che si deve fare”. Il suo culto rientra tra i “precetti della Repubblica”. Viene sorbito come i medicinali, senza porsi domande.“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole / e più non dimandare...” scriveva padre Dante Alighieri, principe di liberi pensatori, esuli, perseguitati e (come lui) condannati al rogo in contumacia. Sulla sua traccia, lo storico scevro da preconcetti ricerca documenti, li contestualizza e li propone al lettore affinché costui possa formare la sua valutazione senza pregiudizi dogmatici, con la “ragione”, che ignora gli “idola tribus”.

   Di quando in quando la genesi del Canto nazionale è stata messa in connessione con il Collegio casalanziano di Carcare (Savona), ove, come inoppugnabilmente documentato, Goffredo Mameli fu ospite nel settembre 1846. Poiché, però, qualcuno ha ipotizzato che i suoi versi siano debitori nei confronti dello scolopio Atanasio Canata, sia le biografie sia le evocazioni filmiche di Mameli hanno ritenuto prudente tacitare ogni curiosità facendo calare il più compatto silenzio sulla sua presenza nel Collegio scolopico di Carcare, il quale è invece giustamente fiero di aver formato nelle sue aule tanti insigni patrioti di metà Ottocento. Esso non fu l'unico, ben inteso. Da secoli le Scuole Pie fondate dallo spagnolo san Giuseppe Casalanzio (1557-1648) svolgevano anche in Italia un ruolo educativo d'avanguardia e di eccellenza. Fra i tanti spiccarono nel collegio San Giovannino di Firenze due docenti di Giosue Carducci, maestro e vate della Terza Italia: Eugenio Barsanti (inventore del motore a scoppio) e Francesco Donati, il “Cecco Frate” reiteratamente visitato dall'“allievo”, massone mai pentito, campione dell'anticlericalismo ma al tempo stesso rispettoso della fede verace, come emerse dal suo muto dialogo con Giuseppe Verdi a Palazzo Doria in Genova. Secondo Annie Vivanti, testimone oculare, dopo lungo silenzio Carducci confidò sommesso: «Io credo in Dio». «E Verdi fece sì, solennemente, con la candida testa.»

    Per evitare il rischio di fare i conti con la verità dei fatti, la “finzione” su Goffredo Mameli recentemente proposta da un canale televisivo della RAI si è attenuta alla regola: “quieta non movere”. Però, come noto, si pecca di pensieri, parole, opere e omissioni. Non si può certo pretendere che uno “sceneggiato” sia un documentario. Ma non può neppure essere troppo o del tutto lontano dalla verità, per non mancare alla sua “missio”: informare, proponendo allo spettatore la complessità degli eventi e dei personaggi evocati e così assolvere, almeno a grandi linee, al proposito “pedagogico”, vanto della televisione italiana dai suoi esordi agli Anni Sessanta. In quella lunga e rimpianta stagione, nella trasposizione di classici della letteratura, di vicende e di protagonisti della storia essa non si prese le licenze poi divenute comuni nei film, quali il famoso “Nell'anno del Signore” di Luigi Magni (1969), che dipinse il cardinale Agostino Rivarola più feroce e iniquo di quanto fu ed erroneamente addebitò a lui la condanna alla ghigliottina dei carbonari Leonida Targhini e Angelo Montanari, accusati senza prove di un “fatto di sangue” (tema di una pièce teatrale di Valeria Magrini, in programma a Ravenna per iniziativa della Fondazione Ravenna Risorgimento, presieduta da Eugenio Fusignani, nel centenario del loro supplizio).

   Veduta la “fiction”, il sindaco di Carcare, Rodolfo Mirri, non l'ha presa bene. Fedele alla sua formazione professionale di arbitro calcistico (con tanto di “Fischietto d'oro”) e fautore del giusto equilibrio, da tempo rivendica al suo Comune il rango di “città del Canto Nazionale” al pari di Genova che, con mezzi di gran lunga più possenti, ne pretende il monopolio. Per cogliere le sue buone ragioni è opportuno ricordare in sintesi chi fu Goffredo Mameli, i suoi rapporti con il Collegio scolopico di Carcare e i riferimenti storici presenti nel “Canto”, fondamentali per fissarne in maniera attendibile la datazione.

 

Goffredo Mameli. Chi era costui? Come nacque un eroe.

 

Nato a Genova nel 1827 da Giorgio Mameli, nobile cagliaritano, capitano di vascello, valoroso combattente contro i pirati nordafricani e fedelissimo dei sovrani sabaudi, e da Adele Zoagli, di cui si dice fosse invaghito Giuseppe Mazzini, sui dieci anni Goffredo fu iscritto alle Scuole Pie di Genova. Il 29 giugno 1843, all’Università, il giovane Mameli ebbe un alterco col diciottenne Giuseppe Lullin e venne punito con un anno di allontanamento dai corsi. Nell'agosto 1846, diciannovenne, fu ammesso al primo anno di legge. In settembre lo scolopio Raffaele Ameri lo condusse con sé in “vacanza di riflessione” da Genova al Collegio di Carcare, ove era già stato allievo un suo fratello. Del viaggio Goffredo dette conto in lettere assai sgrammaticate. A Carcare conobbe il focoso padre Atanasio Canata (Lerici, 1811 - Carcare, 1867), drammaturgo e poeta apprezzato da Alessandro Manzoni, ispiratore di prestigiosi discepoli, quali Pietro Sbarbaro, deputato, massone, autore di libelli famosi, Anton Giulio Barrili e il celebre Giuseppe Cesare Abba, garibaldino e futuro senatore del Regno, che lo ricorda con affetto nelle celebri “Noterelle di uno dei Mille”.

   A Carcare Goffredo si ambientò bene, come padre Ameri scrisse al confratello Agostino  Muraglia. Goffredo stesso il 9 settembre 1846 lo confermò a Giuseppe Canale. Arrivato stanco morto, “dopo cena mi posi a letto, che sogno che avevo non potea più tener gli occhi aperti. Del resto faccio di tutto per passare il tempo senza anoiarmi, mi provo a giocar al pallone alla palla, così comincio così finisco il giorno... qui ogni momento si prega, cosa buonissima ma che guasta le ginochia”. Forse per la stanchezza, forse per la fretta, all’epoca scriveva così.

   Com’è, come non è, il 10 novembre 1847, tramite l'amico Ulisse Borzino, Goffredo mandò un Canto al musicista Michele Novaro, che in quel momento, a Torino, era  in casa di Lorenzo Valerio, capofila della Sinistra democratica. Quando glielo consegnò, Borzino disse: “Te lo manda Mameli”, senza riferimenti al suo autore. “Col cuore in tumulto”, narrò molti anni dopo, Novaro corse a casa e, cappello in testa, scrisse freneticamente le note di quello che dovrebbe quindi esser detto l’“Inno di Novaro”, poiché di solito i canti sono ricordati dal nome del compositore e non da quello del paroliere, per quanto prestigioso. È il caso, tra i molti, dell'Inno alla gioia, che tutti ricordano dal nome di Ludwig van Beethoven mentre rimane in ombra quello, pur famoso, di Schiller, autore del testo. Nella concitazione Novaro rovesciò la lucerna sul foglio mandatogli da Mameli, sicché il  manoscritto originale andò irrimediabilmente perduto.

   Del Canto abbiamo un paio di copie. La prima, conservata al Museo del Risorgimento di Genova, inizia: “Evviva l’Italia / l’Italia s’è desta...”. Nella seconda (Museo del Risorgimento di Torino) si legge invece “Fratelli d’Italia...”, ma anche “Evviva l’Italia / dal sonno s’è desta...”. Fra le copie a stampa pubblicate nel 1848, quella della tipografia Andrea Rossi di Modena precisa: “Parole di Mammelli, musica del Maestro Novella (Piemontesi)”.

   In attesa della visita di leva, da Novi Ligure il 15 ottobre 1847, cioè proprio pochi mesi prima di inviare il Canto a Novaro, Goffredo espose il suo ideale di vita in una lettera alla madre: “Io qui me la passo benissimo, mangio per quattro, dormo molto, non faccio nulla, penso meno e questo è l'ideale del mio Paradiso, credo che voialtri farete altrettanto”. Rifiutò l’arruolamento nelle file dell'esercito sardo e, contro l'esborso concordato, si fece surrogare. All'epoca era consentito. Il benestante pagava e si liberava dalla noia del “servizio” e dal rischio della mobilitazione. Il meno abbiente si accollava l'una e l'altro, ma controvoglia. Perciò, come documentano Piero Pieri nella storia militare del Risorgimento e il generale Oreste Bovio in quella dell'esercito italiano i “dispersi in battaglia” erano quasi sempre più numerosi di morti e feriti. Semplicemente, prendevano il largo.

   Nel dicembre 1848, dopo rapida maturazione politica, Mameli accorse volontario a Roma per difendere la Repubblica proclamata il 9 febbraio 1849 su proposta di Giuseppe Garibaldi e di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, già promotore dei Congressi degli scienziati Italiani che tra il 1838 e il 1847 furono il volano dell'idea di Italia e gettarono le basi dell'unione culturale partendo dalle “scienze esatte”, meno compromettenti, per arrivare passo dopo passo a questioni scolastiche, pedagogiche e politiche. Il 3 giugno 1849, durante una sortita, un commilitone inferse un colpo di baionetta nella gamba sinistra di Mameli. Tra cure troppo sommarie e la calura estiva, la ferita  suppurò e andò in cancrena. Mazzini, triumviro della Repubblica con Carlo Armellini e Aurelio Saffi, gli scrisse che doveva rassegnarsi all'amputazione per salvare la vita e continuare la sua missione. Confortato da padre Ameri e dal barnabita Alessandro Giavazzi, Goffredo affrontò la terribile prova. Il 2 luglio Garibaldi decise di uscire da Roma alla volta di Venezia alla testa di duemila volontari, cui promise lacrime e sangue. Il 3 l'Assemblea suggellò la Costituzione della Repubblica Romana: un testo limpido ed esemplare, solennemente letto in Piazza del Campidoglio quale eredità della lunga resistenza dei volontari accorsi in aiuto della Repubblica contro i 30.000 uomini inviati da Luigi Napoleone, principe-presidente della repubblica francese, a restaurare Pio IX, di concerto con gli austriaci e i borbonici del Regno delle Due Sicilie. Il 4 luglio i francesi entrarono in Roma. Goffredo morì il 6. Padre Ameri gl’impartì il viatico e ne curò la sepoltura. Il Risorgimento era e rimaneva cristiano.

   In Inferno, Purgatorio e Paradiso d’Italia  scitto negli anni seguenti padre Canata lamentò un duplice disinganno: la rottura dell’unità d’azione di cattolici e patrioti e il furto di una poesia. Parlando di sé egli scrisse: “A destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto;/ ma venali menestrelli/ si rapian dell’arpe il vanto: / sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto, / e aspettando nel suo cuore/ si rinchiuse il pio cantore”. Secondo una tradizione mai spenta a Carcare si riferiva al Canto nazionale da lui dato o dettato a Mameli. Ma perché né lui né altri docenti lo indicarono nominativamente? Come spiegato dallo scolopio Luciano Giacobbe, lo fecero per pietà cristiana nei confronti di un giovane che aveva pagato con la vita i suoi generosi ideali e che, contro la verità dei fatti, veniva dipinto come mangiapreti. Da una parte vi era e vi è la matrice cattolica del Risorgimento, dall’altra la deformazione della storia, che ne fece un’impresa genericamente anticlericale, a tutto vantaggio di chi lo dipinge come complotto massonico.

   Del resto, chiunque ne sia l'autore, la genesi e il contenuto del Canto parlano da sé. Esprimono un pensiero adulto e profondamente  religioso: “Uniamoci, amiamoci;/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore”. Parole di un Maestro. Nella versione dell'inno conservata alla Società economica di Chiavari, il canto inizia “Oh Figli d’Italia...”. Non è la voce di un ventenne, ma di un docente che dalla cattedra si rivolge ai discepoli, di un sacerdote che parla da un pulpito ideale ai “fratelli”: un termine, codesto, tipico delle congregazioni religiose e in specie dei francescani in tutte le loro articolazioni, molto prima che fosse assunto dagli iniziati a logge massoniche e a vendite carbonare.

 

Storia e poesia nel Canto degli Italiani

 

Per datare la genesi del Canto, particolare attenzione meritano i suoi cenni a fatti storici: pochi, ma tutti molto allusivi. Alcuni si riferiscono alla storia antica e moderna. Il primo è quell'“elmo di Scipio” che suscitò il commento sarcastico di Giosue Carducci e che, tuttavia, è meno banale e retorico di quanto paia. Rinvia, infatti, alla riscossa di Roma contro il cartaginese Annibale, vittorioso al Ticino, alla Trebbia, al lago Trasimeno e a Canne, la sconfitta più cocente subita dalla Roma dei consoli. Per reagire alla sequenza di rovesci i Romani si spinsero a invocare gli Spiriti Ctoni praticando sacrifici umani. Seppellirono vivi due Greci e due Galli. La Roma evocata dall'inno è quella dei condottieri, cantata da Virgilio nell'Eneide: “parcere subiectis” e “debellare superbos”, monda dall'addebito (che le venne mosso nell'Agrippa da Publio Cornelio Tacito) di vantarsi portatrice di pace dove faceva il deserto: uno scambio di ruoli possibile solo elevando la storia a missione universale, divina, come nella visione apocalittica dei Quattro Imperi. In secondo luogo il Canto invoca la fusione dell'“italia gente da le molte vite” (Carducci) in un unico popolo, ridestato dal torpore e dalla servitù. Con parole pressoché identiche lo aveva già spiegato il criptogiansenista Alessandro Manzoni nel famoso coro dell'“Adelchi”. L'ispirazione è manifestamente ecclesiastica. È il pensiero di Vincenzo Gioberti (Torino, 1801 - Parigi, 1852), presbitero e cospiratore nei Cavalieri della Libertà, poi autore del “Primato morale e civile degli italiani” (1843), un'opera scritta di getto, caotica, alimentata dalla passione più che dalla ragione e nondimeno fondamentale per la diffusione dell'idea di Italia. Su suo impulso uscirono decine di migliaia di poesie, canti, manifesti, fogli volanti e opuscoli inneggianti agli italiani, non più “volgo disperso che nome non ha” (parole di Manzoni) ma avviati a una “unione”, confederazione o “lega” (almeno doganale, come proponeva il principe di Canino) presieduta dal papa.

   In una lettera scritta all'autore di questa “noterella” vent'anni addietro da Cornigliano (Genova), padre Luciano Giacobbo sintetizzò così il percorso dei padri di Carcare e più in generale della provincia religiosa scolopica della Liguria: «Esso affondava le sue origini nella seconda metà del Settecento, quando buona parte dei padri italiani avevano abbracciata la teologia giansenista. Agli inizi dell'Ottocento questa era sfociata in un atteggiamento morale rigoristico e in una posizione concreta antigesuitica, antitemporale e democratica, che nel corso del secolo poi si andò strutturando in ideologia patriottica caratterizzata dall'adesione sincera al giobertismo.» Quello, appunto, espresso da padre Canata nelle sue opere e che prorompe dal Canto degli italiani. La cui penultima strofa, densa di richiami storici, è la più suggestiva. Promette la vittoria dei “vinti” sull'Aquila imperiale dell'Austria, che nel tempo, in combutta con i russi (“cosacchi”), aveva bevuto il sangue degli italiani come quello dei polacchi. Quando? Nel 1799-1800, allorché gli austro-russi irruppero nell'Italia settentrionale e vi abbatterono le precarie repubbliche instaurate su impulso di Napoleone e del Direttorio di Parigi, e ancora nel 1830, con la repressione dell'insorgenza polacca. Nel febbraio-marzo 1846 la Galizia polacca visse un'altra stagione di disordini, oscura e contraddittoria, sostanziata nel massacro di circa duemila “nobili” da parte dei contadini polacchi, rapidamente schiacciati dagli asburgici, che occuparono Cracovia con il consenso di tutta l'Europa liberal-moderata. L'ultima strofa del Canto, infine, mescola i “liberi comuni” in lotta contro Federico Barbarossa (Legnano: un mito rinfrescato da Luigi Tosti, abate di Montecassino), il fiorentino Francesco Ferrucci, celebrato da Massimo d'Azeglio, e il genovese Giovanni Battista Perasso, detto  “Balilla”, il “ragazzo di Portoria” che, secondo la tradizione, il 5 dicembre 1746 scatenò la rivolta della Superba contro gli austriaci scagliando il sasso contro la testa di un armigero arrogante, in quel momento alleato di Carlo Emanuele III di Savoia (ma il testo si guarda bene dal dirlo).

   I quattro assenti dal Canto sono Carlo Alberto di Savoia, l'“italo Amleto” il cui orientamento “italiano” nel 1846 era ancora tutto da decifrare, mentre divenne trasparente nel 1847; Pio IX, che fu eletto papa il 16 giugno 1846; Mazzini, con buona pace di quanti ritengono che il cosiddetto Inno di Mameli sia pregno del suo magistero; e la “repubblica”, di cui invano vi si cercherebbe l'eco. Quanto ai Vespri siciliani, va ricordato che nel 1282 essi quelli furono un'insorgenza contro i Francesi, ma non per la fondazione di un regno indipendente, bensì a favore degli Aragonesi (“padrone lontano, briglia sciolta”).

   Una domanda attende risposta: perché nel Canto si parla di “fatti” del 1846 ma non v'è traccia alcuna del 1847? Questo fu un anno denso di eventi drammatici e di cambiamenti: l'occupazione austriaca di Ferrara, la sanguinosa guerra in Svizzera tra i cantoni cattolici e quelli protestanti, conclusa con la vittoria dei secondi e la trasformazione, a nome immutato, della confederazione elvetica in federazione, il varo di riforme da parte di Pio IX e la svolta di Carlo Alberto a sostegno della causa italica. Se davvero l'Inno fu scritto alla vigilia del pellegrinaggio a Oregina del dicembre 1847 (come ripetuto dalla “finzione” televisiva) com'è che di quei “fatti” così numerosi e importanti nulla si dice , mentre il mitico “ Balilla” venne evocato nel 1846, in coincidenza con il Congresso degli scienziati italiani celebrato in Genova?

   Ha dunque ragione il sindaco di Carcare Rodolfo Mirri a volerci vedere più chiaro. Allo scopo, dopo aver esposto le ragioni del suo Comune al Presidente Sergio Mattarella, per la mattina del 13 aprile l'Arbitro ha in progetto un convegno di studi per approfondire i legami tra Mameli e Carcare, che vuol anche dire tra il giovane patriota e gli Scolopi, da padre Ameri ad Atanasio Canata. Sono previsti interventi del Comune di Lerici e della saggista Bruna Magi: non per togliere a Mameli e all'Inno la meritata gloria, ma per dare “unicuique suum”, in nome della verità dei fatti.

 

Aldo A. Mola

 

 

DIDASCALIA: Il Collegio di Carcare, ove Goffredo Mameli fu ospite dei padri Scolopi e conobbe il poeta e drammaturgo Atanasio Canata.

  Per un sintetico profilo di Mameli v. Marco Albera e Manlio Collino,  Saecularia sexta Album. Studenti e Università a Torino.  Sei secoli di storia, Torino, Elede, 2005. 

sabato 10 febbraio 2024

La scomparsa di S.A.R. il Principe Vittorio Emanuele

di Emilio del Bel Belluz




La notizia della morte di S.A.R. Vittorio Emanuele IV, Principe di Napoli mi colse all’improvviso, mi trovavo in un ufficio postale a chiedere se il libro che gli avevo spedito fosse arrivato. Improvvisamente squillò il telefono, e il mio amico Ado mi comunicava la scomparsa di S.A.R. Vittorio Emanuele di Savoia. Pensai subito alla strana coincidenza. Il libro è un romanzo che ho scritto e che riguarda la fedeltà di un giovane italiano verso i valori di riferimento di un tempo. Il volume è stato dedicato al Principe. Da qualche giorno avevo saputo che era ricoverato in ospedale a Ginevra. Nel mio cuore avevo deciso di fargli una sorpresa per il suo Genetliaco e quello della moglie, la principessa Marina di Savoia. La mia speranza era quella che il libro potesse arrivare a destinazione per questo evento. All’interno vi avevo posto degli articoli scritti sul “ Piave “, e dedicati a Casa Savoia. Alcuni mesi fa gli avevo mandato un santino che un caro amico aveva stampato: era dedicato a San Leopoldo Mandic’ e alla Regina Elena. Avevo saputo che lo aveva ricevuto, e mi sembrava d’aver fatto una cosa bella. Nella parte dedicata a San Leopoldo vi avevo riportato delle parole a lui tanto care: “ Fede abbiate fede. Dio è medico e medicina.”. Speravo che leggendole, la malattia che stava affrontando, venisse alleviata. Nel mio cuore nutrivo il pensiero che il santino di San Leopoldo e della Regina Elena gli fosse di compagnia e che lo avesse collocato sul comodino. Con la tristezza nel cuore volli recitare una preghiera, come di solito si fa per le persone care che ci vengono a mancare. Seppi che aveva vicino a sé la moglie e il figlio S.A.R. Principe Emanuele Filiberto di Savoia. La morte è più dolce per le persone che hanno la fortuna d’avere vicino la famiglia. Quarantuno anni fa moriva sempre a Ginevra, il Re d’Italia suo padre, e il dolore che provai, lo ricordo come se fosse oggi. Il destino volle che il cielo sotto cui morirono, fosse svizzero.  La notizia della morte del figlio di Re Umberto II fu data alla televisione e mi aspettavo dei commenti consoni ad una persona la cui famiglia fece l’unità d’Italia, e la cui storia fu millenaria. Quello che vidi invece mi fece male, da italiano e da monarchico: il Principe fu fatto vedere con le manette ai polsi, nonostante fosse stata dimostrata la sua innocenza per i reati a lui imputati e per cui lo Stato italiano aveva pagato migliaia d’euro di risarcimento. Tale somma fu poi devoluta in beneficenza, a dimostrazione del suo cuore buono. Un’ altra cosa che mi rattristò è che non si facesse cenno al suo titolo di Principe. Constatai che la parola rispetto non apparteneva più a questo Paese. Il mancato riconoscimento del suo titolo l’ho considerato una grande offesa fatta a quelli che hanno mantenuto la fedeltà a Casa Savoia negli anni. Uno dei più grandi maestri del Diritto, l’avvocato e giurista Francesco Carnelutti diceva che: “ L’Italia è la culla del diritto, e la tomba delle giustizia”. Dai media, invece, risultò che l’Italia fosse diventata la culla dell’odio e del fango. La morte di un Savoia non poteva essere trattata in questo modo ignominioso. Anche i giornali che si considerano conservatori, quali il Giornale diede a un suo articolo il titolo: “ L’ultimo “non Re d’Italia” e il quotidiano Libero s’è espresso così: “ La nuova erede al trono che non c’è” . Quello che mi fece più male è essere stati feriti dal fuoco che si intendeva amico. Il mio pensiero andò ai grandi giornalisti di una volta e a cosa avrebbero scritto. Credo che il grande Indro Montanelli non avrebbe mai permesso una cosa simile, come pure i compianti scrittori Mario Cervi e Giorgio Torelli. Pensai allo scrittore Giovannino Guareschi che avrebbe preso la sua penna e si sarebbe scagliato contro quello che è accaduto. La vita di Giovannino Guareschi fu sempre fedele e leale a Casa di Casa Savoia. Di sicuro si sarebbe battuto a spada tratta. I tempi cambiano in peggio, e tutti siamo diventati dei giudici irriverenti ed irrispettosi. Successivamente pensai al periodo storico che cambiò la vita di Sua Maestà Vittorio Emanuele IV. L’Italia aveva appena ultimato il referendum che doveva scegliere tra la repubblica e la Monarchia. Vinse la repubblica con uno scarto minimo, ma come si venne a conoscenza ci furono dei brogli elettorali. Il Re Umberto II decise che non si spargesse del sangue per Casa Savoia, si pensi che a Napoli ci furono ben 9 morti tra i monarchici. Pertanto il Principe, da bambino, dovette imbarcasi da Napoli con la sua mamma e le sue sorelle, nel 1946. Quel bambino che fin poco prima aveva giocato con i suoi amici, ignaro di quello che stava accadendo, se ne andava in esilio. Una parola che il suo vocabolario non contemplava, ma che era come un sigillo che lo avrebbe segnato per sempre. Da quel giorno rimase in esilio per 57 anni, un periodo che segnò tutta la sua esistenza. L’esilio fu una delle pene più terribili imposta dalla repubblica democratica italiana a tutti i discendenti maschi di Casa Savoia che cessò solo nel 2003. Ma i mezzi di comunicazione non hanno mai sottolineato questo aspetto della sua vita. La Chiesa non ha mosso un dito per omaggiare il Re Umberto II che donò la Sacra Sindone al Papa. Il Principe Emanuele Filiberto, dopo la morte del padre, è stato intervistato alla televisione e ha pronunciato delle parole molto commoventi sulla figura del genitore che lasciavano trasparire il grande affetto che lo univa a Lui. Lo considerava come la persona più importante, come un maestro, come un confidente al quale rivolgersi nei momenti difficili della sua vita. Era una quercia alla quale ci si aggrappa nelle tante tempeste dell’esistenza. Ma ora sarebbe rimasto solo, senza un timone che indirizzasse il suo percorso umano. La vita di S.A.R. Vittorio Emanuele Filiberto è stata come quella del padre, vissuta nell’impossibilità di poter andare nella terra dei propri avi. Il cielo dove era nato non aveva gli stessi colori della patria, dove la sua famiglia era nata e vissuta. Ricordo che lo vidi in Francia durante una commemorazione della morte del nonno Re Umberto II. Era vicino al padre e salutava dando la mano a tutte le persone che erano venute. Un’ immagine che mi fece capire l’amore e la pazienza che aveva per il suo Paese. Quella volta mi sarebbe piaciuto dirgli di salire con noi in pullman e venire in Italia. Quel suo volto così sereno non l’ho mai dimenticato. La morte di S.A.R. Vittorio Emanuele di Savoia mi ha fatto veramente male. Dal terrazzo della mia casa ho esposto la bandiera dei Savoia a mezz’asta: volevo ricordare la mia immutata fedeltà verso Casa Savoia. Garriva al vento: un saluto a chi se n’é andato. L’altra sera mi venne in mente un quadro che ho nella mia casa. Ritrae dei filari di meravigliosi pioppi che costeggiano il fiume, donando ombra al viandante. In questa terra così bella è raffigurato anche un vecchio pescatore che aveva adagiato la lenza nel corso d’acqua, speranzoso di catturare qualche preda. La scena è molto emozionante e mi fece pensare alla passione per la pesca che aveva la regina Elena. Da cattolico pensai che il Principe avrà raggiunto la sua famiglia, abbracciato suo padre e sua mamma, ma si sarà visto anche con la Regina Elena che gli avrà proposto di accompagnarla a pescare tra la quiete dei pioppi e il mormorio del fluire delle acque. Con la morte di S.A.R. Vittorio Emanuele IV si chiude un capitolo importante della storia italiana e grande ed impegnativa è l’eredità spirituale che rimarrà a suo figlio S.A.R. il Principe Emanuele Filiberto Duca di Savoia e Principe di Venezia.

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domenica 4 febbraio 2024

Addio a S.A.R Vittorio Emanuele IV di Savoia, figlio di Re Umberto II


di Emilio Del Bel Belluz


Ieri, 3 febbraio 2024, è venuto a mancare S.A.R Vittorio Emanuele IV di Savoia, figlio di Re Umberto II.

In tutti questi anni ho sempre nutrito nei Suoi confronti una grande devozione e fedeltà. Il figlio del Re d’Italia Umberto II, dovette lasciare il Paese con la famiglia dopo il referendum. Vide per l’ultima volta l’Italia, al tramonto, quando la nave costeggiò la Sardegna. Rimase in coperta ad osservarla, assieme alla madre ed ai fratelli, quando la lontananza che aumentava sempre di più, fece scomparire il profilo della costa. 

Il principe di Casa Savoia aveva solo pochi anni, essendo nato nel 1937, e credo che mai avesse pensato di non tornare nel Paese dove era nato, il cui ricordo rimane per sempre. Il destino del Principe lo si conosce bene, dovette star lontano per 57 anni, poté rientrare in Italia nel 2003, assieme a S.A.R Emanuele Filiberto. Questa decisione fu davvero molto dura verso Casa Savoia. Nulla riuscirono a fare i tanti governi che si succedettero, come nessun rispetto fu riservato al Re Umberto II, morto in esilio e esiliato anche dopo la morte. Nella mia famiglia avevamo sempre avuto molto rispetto per Casa Savoia, per generazioni. Il bisnonno, il nonno e mio padre servirono con fedeltà questo casato. Nella mia infanzia ricordo che mia nonna per anni apparecchiava la tavola, lasciando un posto per mio padre che era partito in guerra e, poi, fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Prussia. Al paese era giunta la notizia che era morto e il prete del paese fece suonare le campane per annunciare la sua scomparsa. Ma a quasi due anni dalla fine della guerra tornò, stanco ma felice. Quel posto a tavola fu occupato. 

Fin da ragazzo avevo saputo che il mio Paese aveva riservato l’esilio per Casa Savoia, e non riuscivo a farmene una ragione: non capivo cosa avesse fatto di tanto male il Re Umberto II. Ho sofferto molto per non poter vedere i discendenti di Casa Savoia, un casato che ha contribuito a scrivere un secolo della storia italiana. Mi sarebbe piaciuto porgergli gli auguri per il suo 87° genetliaco, ma il Buon Dio ha voluto diversamente. Solo pochi giorni fa gli avevo inviato l’ultimo mio romanzo che avevo a Lui dedicato.

Emilio Del Bel Belluz

La scomparsa di SAR il Principe di Napoli , rassegna stampa III parte







È morto Vittorio Emanuele di Savoia - Notizie - Ansa.it

ANSA

È morto Vittorio Emanuele di Savoia, figlio di Umberto II, l'ultimo re d'Italia, e di Maria José. Avrebbe compiuto 87 anni il 12 febbraio.

Agenzia ANSA on X: "FLASH | È morto Vittorio Emanuele di Savoia" / X - twitter.com

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Vittorio Emanuele di Savoia è morto a Ginevra nella mattinata del 3 febbraio 2024: l'annuncio del decesso del figlio dell'ultimo re d'Italia.

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È morto Vittorio Emanuele di Savoia, aveva 86 anni - La Stampa

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Il principe Vittorio Emanuele di Savoia, nato a Napoli il 12 febbraio 1937, era figlio dell'ultimo re d'Italia Umberto II e di Maria José. Era sposato ...

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È morto Vittorio Emanuele di Savoia - Il Post

Il Post

Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria di Savoia era nato a Napoli il 12 febbraio 1937.

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Quando gli italiani voltarono le spalle alla monarchia - ilGiornale.it

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Con il referendum del 2 e 3 giugno 1946 gli italiani voltarono le spalle alla monarchia e abbracciarono la repubblica.

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In lutto il mondo monarchico - Valledaostaglocal.it

Valledaostaglocal.it

Vittorio Emanuele di Savoia è intimamente legato alla storia della monarchia italiana. Figlio di Umberto II, l'ultimo re d'Italia, e di Maria José ...

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Vittorio Emanuele, l'ultimo messaggio prima della morte: "Cosa deve fare la Monarchia"

Libero Quotidiano

Vittorio Emanuele è morto a 86 anni. E dopo la scomparsa dell'erede al trono di Casa Savoia c'è chi ricorda il suo ultimo mes...

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Vittoria di Savoia, chi è l'erede al trono (che non c'è) nominata da Vittorio Emanuele - Il Gazzettino

Il Gazzettino

Il suo bisnonno, il re Umberto II, fu l'ultimo re d'Italia prima che la monarchia fosse abolita con un referendum del 1946 . La sua bisnonna era ...

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Morto Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell'ultimo re d'Italia: fotostoria dall'esilio ai guai giudiziari

Virgilio Notizie

Il passaggio da monarchia a Repubblica e l'esilio. 3 di 7. Fonte: ANSA. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il passaggio dalla monarchia alla ...

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Addio a Vittorio Emanuele, ultimo erede al trono d'Italia - Avvenire

Avvenire

Suo padre, Umberto II era stato re nel maggio 1946 prima che il referendum del 2 giugno spazzasse via la monarchia che, con il nonno, Vittorio ...

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È morto Vittorio Emanuele di Savoia, l'ultimo erede al trono - ilGiornale.it

ilGiornale.it

Una breve parentesi a fronte di quasi 60 anni d'esilio trascorsi in Svizzera dove i Savoia trovano rifugio dopo la sconfitta della monarchia al ...

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È morto Vittorio Emanuele di Savoia, il figlio dell'ultimo re d'Italia - MonzaToday

MonzaToday

La storia della monarchia è legata a quella della città di Monza: qui fu assassinato. Avrebbe compiuto 87 anni il 12 febbraio.

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Vittorio Emanuele di Savoia età, cause morte, moglie, figli, patrimonio, figlio Emanuele

GalleriaBorghese.it

Vittorio Emanuele di Savoia è morto all'età di 87 anni, lasciando un vuoto nella storia della monarchia italiana. Ecco chi era.

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