NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 15 aprile 2024

“Umberto I, Il Re buono”, il secondo sovrano d’Italia, a cura di Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola

  



“Umberto I, Il Re buono”, a cura di Edoardo Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola con prefazione di Maria Pia di Savoia, primogenita del re Umberto II, si sarebbe potuto intitolare “l’Italia al tempo di Umberto I”, il Re ucciso il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci: tre o forse quattro i colpi di pistola che, come scrive Sacchi, “posero la parola fine alla bella favola risorgimentale che era stata il motivo conduttore della vita del Re Umberto I”. QUi una sintesi della presentazione di Gianni Torre per il blog Un sogno italiano.

 

Secondo in ordine di successione, dopo il padre Vittorio Emanuele, Umberto fu effettivamente il primo Re d’Italia, nel senso che la trovò unita e visse stabilmente a Roma, dove la consorte, la Regina Margherita, con la sua spiccata personalità, divenne presto molto popolare, per le sue opere di carità e perché raccolse attorno a sé personalità della cultura provenienti da tutto il Regno, in tal modo costituendo, accanto alla Corte tradizionale, un ristretto salotto intellettuale (quasi un “Circolo della Regina”), di cui scrivono Rossella Pace ed Edoardo Pezzoni Mauri (“Il mito della Regina!), frequentato assiduamente da artisti, letterati, filosofi e politici, da Marco Minghetti a Terenzio Mamiani, al Premio Nobel per la poesia Giosuè Carducci.

 

È l’Italia che, finalmente unita, anche se mancano ancora Trento e Trieste, ha l’ambizione di diventare “un grande Stato”, come aveva auspicato Cavour all’atto della costituzione del Regno, e intraprende la strada delle riforme amministrative, economiche e sociali con le quali il Paese, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sarà all’avanguardia in Europa. Basta ricordare il Codice Zanardelli del 1889 che abolisce la pena di morte che rimarrà, invece, nella legislazione di molti paesi europei fino al ventesimo secolo, una riforma sulla quale ha scritto pagine di straordinario interesse il Professor Nicola Pisani.

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“Umberto I, Il Re buono” un libro sul secondo sovrano d'Italia (blitzquotidiano.it)

Visita al Museo dell'Ara Pacis


 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

 Invito MUSEO ARA PACIS AUGUSTAE





L’Incontro, occasionato dal Natale di Roma,

illustrerà l’analogia tra l’Ara Pacis e l’Altare della Patria,
mettendo in luce un nesso essenziale
tra la Pax Augustea e l’Unificazione Nazionale.
DOMENICA  POMERIGGIO  21  APRILE  2024  ORE 16
LUNGOTEVERE  IN AUGUSTA  (Entrata in alto)  ROMA
L’INGRESSO E’ GRATUITO     La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

mercoledì 10 aprile 2024

Saggi Storici sulla sulla Tradizione Monarchica - VII

 


2) LA DECADENZA DELL'IMPERO

La creazione di questi nuovi stati e l'organizzazione dei comuni, avevano fortemente scosso l'autorità imperiale a cui era pur sempre connessa, titolarmente, anche la corona d'Italia e questa situazione di decadenza dell'Impero era in pieno sviluppo quando sali sul trono di Germania l'Imperatore Federico I Barbarossa (1152). Questi dapprima si alleò con il Papa promettendo di aiutarlo nella resistenza contro i romani che erettisi a comune venivano spesso a contrasto con l'autorità pontificia, e contro i normanni il cui vassallaggio era sempre alquanto pesante e pericoloso, ricevendo in cambio dal Papa Adriano IV la corona imperiale in San Pietro. Ma il Barba-rossa se respinse in effetti bruscamente le pretese del comune di Roma, che avrebbe voluto essere lui ad offrirgli la corona imperiale, desistette però dall'attaccare il regno normanno, retto allora da Guglielmo I perdendo un momento eccezionalmente favorevole, giacché l'imperatore bizantino Manuele I Comneno stava tentando di riconquistare i possessi italiani giungendo a mettere piede a Bari e a Trani, spingendosi sino ad Ancona. I bizantini, non aiutati dai tedeschi, finirono però col soccombere e furono costretti a concludere con i normanni la pace nel 1158, mentre fin da prima Adriano IV si era riconciliato con Guglielmo I accordandogli l'investitura del regno, comprese Capua e Napoli.

La politica del Barbarossa si volse soprattutto al tentativo di schiacciare la potenza dei comuni dell'Italia settentrionale; nella sua seconda discesa in Italia, convocò nel 1158 la dieta di Roncaglia onde stabilire definitivamente i rapporti fra i comuni e i suoi imperiali diritti e rivendicò all'impero la nomina dei magistrati, la coniazione della moneta, l'amministrazione della giustizia, la riscossione dei pedaggi e la disposizione dei feudi. Quando però tentò di inviare i suoi rappresentanti nelle città, Milano cacciò i messi imperiali mettendosi a capo delle città ribelli. Federico assediò Crema che fu rasa al suolo dopo sei mesi d'assedio, dopo oltre due anni di difesa disperatissima Milano abbandonata dalle altre città dovette arrendersi a discrezione e per ordine imperiale fu distrutta dai cittadini di Como, Novara, Pavia e Cremona, città inimicissime della capitale lombarda; sembrò per un momento che la potenza comunale fosse distrutta per sempre (1162).

La potenza smisurata del Barbarossa provocò però una coalizione contro di lui, egli tentò alla morte di Adriano IV di contrapporre al successore canonicamente eletto, Alessandro III, un antipapa suo 'pa­rente che si chiamò Vittore IV; mentre la Germania e parte dell'alta Italia riconobbero l'antipapa, intorno ad Alessandro III si strinsero i comuni antimperiali, la Sicilia, la Francia e l'Inghilterra. Il Papa scomunicò l'imperatore, tentando di deporlo, ma fu costretto a rifu­giarsi prima a Genova e poi in Francia.

Le città della Marca veronese, Verona, Vicenza, Padova e Treviso strinsero una lega antimperiale: la lega veronese, che ebbe l'appog­gio di Venezia ed anche dell'imperatore bizantino, ancora padrone di Ancona, che sperava di riunire sul suo capo le due corone imperiali; la rivolta di Cremona e Mantova, Bergamo e Brescia che con i mila­nesi strinsero il patto di Pontida, furono il primo nucleo della Lega Lom­barda (aprile 1167). Federico tornò in Italia, sottomise Ancona e Ro­ma in cui installò il suo antipapa, ma la lega lombarda, ormai forte e compatta, lo costrinse a fuggire in Germania travestito nei primi giorni del 1168; egli rientrò in Italia dopo sei anni, ricominciando le ostilità; dopo assedi, lotte e tentativi di pace falliti, fu ancora battuto dalla lega a Legnano il 29 maggio e si piegò a riconoscere in Alessandro III il vero Papa. La potenza imperiale nell'Italia setten­trionale era tramontata per sempre e nuovamente prendevano vita le istituzioni comunali riconosciute dal Barbarossa nella pace di Co­stanza il 25 giugno 1183.

Al Barbarossa successe il figlio Enrico VI che sposando l'ultima degli Altavilla, Costanza, riuscì ad impadronirsi della corona normanna con breve lotta contro Tancredi conte di Lecce, rampollo illegit­timo della Casa. Così l'impero che aveva perduto gran parte del suo potere nel settentrione veniva a costituirsi una base potente nel capo opposto della penisola, minacciando i territori pontifici e comunali che si trovarono stretti come in una morsa nei territori imperiali, ma Enrico VI morì improvvisamente a Messina nel 1197 mentre prepa­rava una spedizione contro l'impero d'oriente e la moglie Costanza, seguendolo nella tomba l'anno dopo, lasciò il Papa Innocenzo III come reggente durante la minorità del figlio Federico.

 

Innocenzo, non volendo che le corone dell'Impero e di Sicilia fos¬sero riunite, incoronò imperatore nel 1209 il duca Ottone di Brunswick, vincendo le opposizioni di un partito tedesco ad esso contrario; il nuovo imperatore si mostrò però ben presto avido di potere e dispo¬tico, invadendo il patrimonio di S. Pietro e la parte continentale del regno di Sicilia; allora Innocenzo III lo scomunicò, eccitò contro di lui la lega toscana e i sovrani di Francia e Inghilterra, infine lo depose riconoscendo come imperatore Federico II di Sicilia, dietro promessa di questi di rinunciare ai domini italiani e di riconoscere l'alta so¬vranità pontificia sulla Corsica e la Sardegna.

Federico II condusse una politica quasi esclusivamente italiana, risiedendo quasi sempre nella penisola, soprattutto a Palermo, e curandosi poco delle vicende della Germania. La sua grande intelligenza e la sua formazione lo portarono a rendere il regno e la sua corte palermitana un centro importantissimo di cultura ove brillarono i migliori ingegni dell'epoca, fra i quali il suo ministro prediletto Pier delle Vigne, che fu anche squisito poeta, Giacomo da Lentini e Jacopo Mostacci.

La sua politica assolutista ed il suo indugio a mantenere la pro­messa di partecipare alla crociata per la liberazione della Terra santa, lo portarono però a contrastare sia con i Papi che con i comuni. Gre­gorio IX papa lo scomunicò e dopo che Federico II ebbe sconfitto l'eser­cito della lega comunale a Cortenuova, presso Bergamo, nel 1237 di­venne il protettore delle libertà comunali contro l'imperatore eretico e scomunicato. La lotta si inasprì al punto che il Concilio di Lione, alla presenza di Papa Innocenzo IV, depose Federico, nel 1245, quale spergiuro, sacrilego e sospetto di eresia; ma i Re eletti in Germania contro di lui, Enrico Raspe e poi Guglielmo d'Olanda, non riuscirono a prevalere sul figlio di lui, Corrado, per il quale si schierò gran parte della nobiltà laica dell'Impero. La lotta terminò solo con la morte di Federico avvenuta nel castello di Fiorentino, il 13 dicembre 1250

Poiché Federico II aveva ordinato che l'unione delle corone di Germania e di Sicilia durasse in perpetuo, la reggenza in Sicilia in nome di Corrado imperatore, fu assunta da Manfredi principe di Ta­ranto, suo fratello naturale; morto Corrado poco dopo, nel 1254, la­sciando un solo figlio, Corradino, Manfredi si fece incoronare Re e-la sua potenza si accrebbe fino a farne il capo della fazione imperiale in Italia, già detta dei Ghibellini, tanto che egli sognò per un momen­to di cingere la corona di un regno italico.

La sua potenza preoccupò però il Pontefice, che conservava sempre i diritti di alto patrono del regno di Sicilia e questi offrì la corona a Carlo d'Angiò fratello del Re di Francia e signore di Provenza e di Nizza. Carlo scese in Italia, fu incoronato da papa Clemente IV, Re di Sicilia e sconfitto Manfredi nel 1266 presso Benevento si impadronì del territorio.

Un ultimo tentativo degli Svevi di rioccupare il trono siciliano, fu quello di Corradino che, sconfitto a Tagliagozzo il 23 agosto 1268, fu imprigionato e decapitato per ordine di Carlo d'Angiò a Napoli il 29 ottobre.

 

 

martedì 9 aprile 2024

LIBERTÀ SOTTOTERRA? LA TROVÒ IL VECCHIO PIEMONTE COL TRAFORO DEL FREJUS

 



 

di Aldo A. Mola

 

 

Aldo A. Mola Le vie imperiali...

    Sconfitto a Waterloo a metà giugno 1815, Napoleone “passò”. Ma lasciò molto più di una labile “orma”. A parte i Codici, rimasti modello per tanti Paesi, consegnò ai posteri le strade che ancora ne portano il nome, le migliori d'Europa dal tempo dei romani. Come narrò Hermann Schreiber in “Le vie della Civiltà. Strade e percorsi storici” (Edizioni Odoya), il declino dei “Cesari” portò con sé quello della rete viaria estesa dalla Città Eterna alle più remote province dell'impero. Assediata da erbacce, essa affondò sotto la polvere dei secoli. Anche la civiltà classica finì tra le sepolte.

   Con il repentino disfacimento del Sacro romano impero agli insediamenti sulle coste, fiorenti in età romana, furono preferiti borghi arroccati in posizioni più difendibili in caso di scorrerie ma poveri di collegamenti. Il nemico era ovunque. Quando iniziarono a riaversi, le comunità investirono in mura e chiese fortificate molto più che in strade. Sotto l'avanzata araba e quella, successiva, turco-ottomana l'Europa si restrinse. La svolta giunse con Napoleone. La rete stradale serviva ai fulminei spostamenti delle sue armate, come quella romana per le legioni, e per vivificare il commercio all'interno del “blocco continentale”. Affrontò d'impeto gli ostacoli naturali, a cominciare dalle Alpi, aggredite dalla Costa Azzurra al confine italo-elvetico.

   Nel decennio 1839-1847 i Congressi degli scienziati italiani ideati Carlo Luciano Bonaparte, nipote dell'imperatore e principe di Canino, proposero di abbattere le barriere doganali e di potenziare la rete viaria sull'esempio di Gran Bretagna e Francia. Vaganti dall'una all'altra città storica (ma con esclusione del diffidente Stato pontificio) gli scienziati sapevano quanto fosse arduo viaggiare e trovare albergo per una sosta prolungata e bisognosa non solo di un'aula per svolgere i lavori assembleari ma di ampi spazi per scambiarsi informazioni riservate. Lasciati da parte i pugnali carbonari e mazziniani, essi mirarono a formare l'“opinione nazionale”. Erano “i fatti” a parlare. L'incremento della produzione agricola e manifatturiera esigeva una concezione delle vie di comunicazione non soffocata da controlli di polizia e dazi doganali.

...e quelle ferrate: primato del Vecchio Piemonte

   A differenza degli altri Stati d'Italia, il “Piemonte” albertino aveva dinanzi a sé una sfida: le Alpi. La raccolse proprio sulla traccia di Napoleone. Con le patenti del 18 luglio 1844 Carlo Alberto di Savoia impostò lo schema della rete ferroviaria da realizzare nel regno, con priorità per la Torino-Alessandria-Genova con la diramazione da Alessandria a Novara e al Lago Maggiore. Ma, come bene documentano Marco Albera ed Enrico Cavallo in “L'altro Risorgimento. Cronache del traforo del Fréjus” (Centro Studi Piemontesi), il progetto generale concepito da Bartolomeo Bona, capo dell'Azienda generale delle strade ferrate, su impulso di Des Ambrois de Nevache, comprese anche l'ardita impresa del Fréjus.

   Le strade erano molto. Lo sapeva bene Cavour, che conosceva le difficoltà e il costo aggiunto per il trasporto del suo vino dalle Langhe a Torino. Ma ormai non erano più tutto. Proprio mentre ferveva il loro potenziamento si affacciò dirompente la “strada ferrata”, sull'esempio di quanto avveniva nei Paesi di seconda industrializzazione come Gran Bretagna, Belgio e Francia, avvantaggiati dalle caratteristiche orografiche dei loro territori. Le ferrovie richiesero maggior lungimiranza politica e convergenza tra vertici dello Stato, amministrazioni locali, concorso finanziario pubblico e privato e apertura a imprenditoria estera, attratta da opportunità e da generose “concessioni” di lunga durata. Nel suo insieme l'Italia arrivò tardi a dotarsi di una rete ferroviaria. In quell'ambito il Vecchio Piemonte svettò. Nella primavera del 1859, alla vigilia della guerra franco-piemontese contro l'impero d'Austria, metà delle linee ferroviarie dell'intera penisola erano sue. I numeri parlano da soli: il “Piemonte” contava 802 chilometri di ferrovie contro i 298 del Veneto, i 202 della Lombardia, i 256 della Toscana, i 101 dello Stato Pontificio e i 98 del regno delle Due Sicilie, che era il più ampio tra gli Stati italiani. Alla proclamazione del regno d'Italia (14 marzo 1861) intere regioni dell'Italia centro-meridionale erano ancora povere o del tutto prive di strade ferrate. Sicilia, Puglia, Basilicata, Abruzzo non ne avevano neppure un chilometro. Torino aveva capito prima di Napoli che l'Italia era la scorciatoia dal Canale della Manica a quello di Suez, la cui apertura procedeva rapidamente, e quindi per le Indie e l'Estremo Oriente, ove l'Inghilterra conduceva la spietata “guerra dell'oppio”. La radice della “questione meridionale”, oggi pressoché scomparsa dai riflettori della storiografia, è tutta lì: nell'incapacità dei Borbone delle Due Sicilie di pensare in europeo o almeno “in mediterraneo”. Si ritenevano invulnerabili tra l'acqua salata e l'Acqua Santa. Nell'ottobre 1860 Vittorio Emanuele II di Savoia varcò il passo del Macerone, invase il regno e, in raccordo con Garibaldi, giunto a Napoli dalla Sicilia, lo soggiogò senza neppure dichiarare guerra.

 

Il Traforo de Fréjus, prima che l'Italia venisse

   Quelle scelte politiche fecero la differenza e si proiettarono sul secolo successivo. Altrettanto vale per la legge che il 15 agosto 1857 decise l'apertura del traforo ferroviario del Fréjus: un'impresa ciclopica da molti considerata impossibile o comunque al di sopra delle risorse del regno di Sardegna. A distanza di un oltre un secolo e mezzo merita riflettere sul fatto che essa venne deliberata quando nessuno aveva in cantiere la futura cessione della Savoia alla Francia di Napoleone III. Fu dunque una decisione maturata all'interno e per l'interno del regno, ma al tempo stesso per farne il “ponte” tra l'Italia settentrionale e l'industre e pingue Europa centro-occidentale. Il colloquio tra Napoleone III e Cavour a Plombières del 21 luglio dell'anno seguente, al netto delle leggende, non contenne né lo sbarco dei Mille a Marsala, né l'annessone di Venezia, né, meno ancora, l'irruzione di Porta Pia del 20 settembre 1870. Prevedeva certamente Milano, per secoli agognata da Casa Savoia, premessa del futuro triangolo industriale ligure-piemontese-lombardo proiettato ad assorbire i Ducati padani, l'Emilia e la Romagna, eliminandovi le Legazioni. Ma quelli erano i “confini” del ragionamento e delle speranze: un regno sabaudo dell'“Alta Italia”, senza pregiudizio per il controllo dei valichi orientali da parte dell'impero d’Austria.

   Anche dopo la proclamazione del regno d'Italia, quando furono celebrati i congressi straordinari di Firenze (1861) e di Siena (1862), le comunicazioni stradali e le strade ferrate rimasero nominalmente estranee agli interessi degli scienziati italiani, che si occupavano di fisica e matematica, chimica e farmaceutica, botanica e zoologia, medicina e chirurgia, agronomia e veterinaria, archeologia e storia, filologia e linguistica, economia politica e statistica, filosofia e legislazione, pedagogia.

   La svolta maturò dopo l'annessione di Roma e del Lazio. Per l'XI congresso, presieduto da Terenzio Mamiani, massone di lungo corso, venne pubblicato il volume L'Italia economica nel 1873 (Roma, Tip. Barbera). Imponente per i tempi, esso calcò il modello dei censimenti: meteorologia, idrografia, popolazione, istruzione pubblica (con speciale attenzione per quella industriale e professionale), giustizia penale e civile, carceri, opere pie, esercito, marina, lavori pubblici, finanze dello Stato, delle provincie e dei comuni e statistica elettorale. Nella sezione dei lavori pubblici al penultimo posto comparvero le strade ferrate: appena dieci pagine contro le ventidue dedicate alle strade ordinarie, non per sottovalutazione ma perché queste erano di gran lunga più sedimentate nell'attenzione dei governi. Tuttavia l'Italia economica scrisse che la costruzione di ferrovie stava procedendo “con non minore alacrità” e vantò con orgoglio “il gran tunnel del Cenisio, aperto al pubblico il 16 ottobre 1871, opera gigantesca e ritenuta chimerica fino a questi ultimi anni”. Ne descrisse i requisiti, ne elogiò gli artefici e ne indicò il “costo totale”.

   Quella galleria era motivo di vanto, ma bisognava guardare al futuro. Erano in costruzione altri 1118 chilometri di strade ferrate, 674 dei quali a totale carico dello Stato. Le loro “condizioni eccezionali”, per le “difficoltà tecniche” opposte dal territorio (basti pensare alla costiera ligure e agli Appennini), imponevano qualche comprensibile ritardo. Ma la Nuova Italia non rinunciava all'obiettivo: fare delle linee ferroviarie le arterie per unificare davvero il Paese.

   Non bastasse, lungi dal ripiegarsi sul territorio nazionale, “dopo maturi studi e lunghe trattative”, il Governo italiano il 15 novembre 1869 aveva stipulato con la Confederazione Elvetica una convenzione, con adesione del governo germanico, per la costrizione di una ferrovia attraverso il San Gottardo: altra impresa audacissima, ammirata da tutti i paesi civili, accennata con poche sobrie parole.

   Strateghi del processo economico in corso, innervato sul ministero della Pubblica istruzione retto da Cesare Correnti, erano statisti quali Giovanni Lanza e Quintino Sella, titolare delle Finanze e successore di Correnti alla Minerva.

   A chi si rivolgevano progettisti e fautori delle strade ferrate? La risposta va cercata nella struttura della monarchia rappresentativa fondata da Carlo Alberto con lo Statuto del 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 resero elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali e mobilitarono migliaia e migliaia di cittadini chiamati a concorrere alla vita pubblica di concerto con l'amministrazione e gli “uffici”. La Carta albertina fissò la cornice dello Stato: il Re, il “suo” governo (l'esecutivo) e il Parlamento (il legislativo), formato da una Camera di nomina regia e vitalizia e da una elettiva. Quest'ultima era e sarebbe rimasta il luogo proprio delle deliberazione delle leggi di bilancio, con priorità rispetto al Senato. L'elettività propiziò l'avvento di una dirigenza rappresentativa degli interessi superiori dello Stato, perché da un canto liberò gli eletti da ogni mandato da parte dei votanti, dall'altro esortò implicitamente gli elettori ad affidarsi a rappresentanti effettivamente competenti. Se insoddisfatti, al prossimo turno elettorale se ne sarebbero disfatti. La costruzione di una ferrovia non era però cosa di breve durata, come i quattro-cinque anni (a volte anche meno) di una legislatura. Si verificò dunque un miracolo nel miracolo. Mentre la Nuova Italia s’impegnava nella realizzazione di opere gigantesche, gli elettori confermarono reiteratamente la loro fiducia a deputati di sicura capacità, tra i quali spicca un cenacolo di “ingegneri ferroviari” vocati a spiegare nelle Aule parlamentari quanto occorreva per modernizzare l'Italia.

   Andavano dove portavano i binari ancora da gettare, le stazioni da edificare, la complessa ricerca di soluzione dei tanti conflitti tra amministrazioni comunali, circondariali, provinciali e interessi d'ogni classe. Eletto deputato dai collegi di Taninges, Aosta e di Susa Germano Sommeiller fu il meno longevo dei tre ingegneri ferroviari istoriati nella ghiotta opera di Albera e Cavallo. Severino Grattoni rappresentò i collegi di Varzi, Ceva e Voghera. Più giovane di tutti fu Luigi Ranco, che vagò dalla sua nativa Asti a Francavilla e a Borgo San Dalmazzo, la terra di Sebastiano Grandis, altro pioniere delle strade ferrate, per riprenderne la linea Cuneo-Nizza. Dal suo maestro, Pietro Paleocapa, Ranco aveva appreso la non facile arte di ottenere i finanziamenti per la costruzione di ferrovie e la solidarietà della miriade di mediatori necessari per rimuovere le opposizioni al tracciato man mano che esso prendeva corpo. Quando la strada ferrata, talora modificando i progetti originari, arrivava in prossimità di uno dei tanti paesini del percorso in programma ogni suo chilometro diveniva oggetto di dispute animate giacché mutava dall'oggi al domani il valore delle aree contigue. Perciò fu bersaglio di riserve e persino di accuse di collusione con notabili che ottennero altrimenti inspiegabili deviazioni dal tracciato originario. Ma tutto era possibile all'epoca. Anche illudere vaste cerchie di elettori con progetti venturosi, come una ferrovia dalla Valle Maira a Marsiglia, come narra l'anonimo volume Saluzzo. Un'antica capitale (pref. di Gianni Rabbia, Roma, Newton & Compton, 2001), con tunnel e ponti irrealizzabili e dal profitto irrilevante.

Giolitti postino campestre

   Nel 1882 Ranco (1813-1887) chiuse un'epoca. Lasciò il seggio deputatizio per il laticlavio senatoriale. E liberò il collegio di Borgo San Dalmazzo a beneficio di Luigi Roux, direttore-proprietario di “La Stampa” di Torino, bisognoso di un seggio per meglio influire sull'opinione pubblica, come aveva fatto il suo “predecessore” Vittorio Bersezio. Roux si candidò alla Camera per il Collegio di Cuneo I, in una “terna” comprendente Sebastiano Turbiglio, massone e docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e il quarantenne consigliere di Stato Giovanni Giolitti, alle sue prime armi come politico e allocato a Cavour, un comune all'epoca privo di collegamenti ferroviari e tramviari, talché a volte andava a piedi da casa a Pinerolo per “prendere il treno” verso Torino e Roma. Da “postino campestre”, come si definiva, nel lungo tragitto meditava sulle impellenti necessità per “fare lo Stato” ed educare gli italiani al senso civico. “Fatta l'Italia”, lunga e impervia, urgeva dotare di servizi minimi le terre che non ne avevano da secoli. Quindi il governo dirottò le sue risorse verso terre lontane dal Vecchio Piemonte. Paradossalmente la Francia divenne più remota proprio quando il traforo del Fréjus giunse a compimento. Travolto Napoleone III a Sedan a inizio settembre 1870, la “sorella latina” si mostrò sempre più arcigna nei confronti dell'Italia, malgrado gli appelli dei democratici (garibaldini, protoradicali...) alla Francia di Victor Hugo e Léon Gambetta, sino alla guerra doganale del 1886, al tragico episodio di Aigues-Mortes e alle contese per gli spazi coloniali, aperte con il protettorato di Parigi sulla Tunisia e proseguite con l'aiuto della Francia a Menelik per tarpare le ali all'avanzata dell'Italia dalla costa eritrea all'interno del Continente Nero.

   Le opere in stallo sul confine italo-francese tali rimasero per decenni, a cominciare dalla ferrovia Cuneo-Nizza, intrapresa sin dall'età di Cavour ma completata solo nel 1929, poi interrotta per danni bellici, riattata ma sempre ansimante, riscoperta e promessa a ogni turno elettorale, ma sempre più trascurata con malcelata ironia nei confronti di quanti la proposero e ancora la promuovono come la Berna-Marsiglia passando per Cuneo...

   La storia della rete ferroviaria e in particolare di un'opera come il traforo del Fréjus pone interrogativi di qualche attualità. Anzitutto, come si formano i cittadini e come scelgono da chi farsi rappresentare? In secondo luogo, quali sono le “vie di comunicazione” oggi a loro disposizione? Un tempo pedibus calcantibus, a cavallo o in carrozza essi percorrevano strade; poi salirono sui vagoni ferroviari. Vedevano quel che facevano e bene o male controllavano i conduttori. Ma ora? Chi veglia sulle nuove vie di comunicazioni, nell’incipiente età della misteriosa Intelligenza Artificiale?

   «A che tante facelle?», si domandava angosciato Giacomo Leopardi quando in Italia le ferrovie mossero i primi… binari.

 

giovedì 28 marzo 2024

ANORESSIA PER LE URNE?

 




di Aldo A. Mola

 

Ansia da prestazione

   In lista di attesa. È il quadro politico-istituzionale italiano a tre mesi dalle elezioni dei deputati al parlamento europeo, passando per il rinnovo di un paio di consigli regionali dopo quelli, contrastati e contrastanti, della Sardegna e dell'Abruzzo. L'Italia “politica” sospende il fiato, come attendesse una verifica del suo stato di salute. Un referto che apre alla speranza o un verdetto nefasto? Incombono sull'orizzonte le percentuali di consensi per i singoli partiti, che si presenteranno nell'ordine sparso dettato dal metodo proporzionale con sbarramento per le liste che non raggiungeranno il 4% dei voti validi: una tagliola, questa. che, forse, entro pochi giorni ridurrà il loro numero ai blocchi di partenza. La loro contrazione costringerà “obtorto collo” ad accorpamenti e (forse) semplificherà il panorama futuro, mettendo alle corde vanità e supponenze individuali.

   Da tempo in allarme, alcuni partiti di maggior peso hanno già fatto sapere che l'esito delle imminenti “europee” non inciderà sugli equilibri di governo, quasi riguardassero un altro Paese. È l'ennesima prova dell’auto-referenzialità della classe politica e della sua spocchiosa indifferenza verso il pronunciamento dei cittadini.

   Un dato che nessuna delle liste in campo (ma nemmeno le “forze” che per i più disparati motivi rinunciassero alla corsa) dovrebbe sottovalutare è la percentuale dei votanti rispetto all'insieme degli elettori. Se essa si attestasse intorno o persino sotto il 50% degli aventi diritto (com’è avvenuto alle recenti regionali, in molti comuni e nei collegi parlamentari vacanti) non potrebbe più essere eluso l'“esame di coscienza” dell'attuale rapporto tra partiti e cittadini, cioè tra elettori e Istituzioni. Lo ha fatto capire più volte il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

   Qualcuno tenterà di spacciare il declino dell'affluenza alle urne come dimostrazione di favore verso la maggioranza di governo e/o di chi la guida. Secondo questa bizzarra e auto-consolatoria lettura dell'astensionismo, chi non vota lo fa perché è appagato dallo “status quo”. Si riserverà qualche mugugno, ma di fatto si astrae dai “ludi cartacei”, considerati superflui. Per lui tutto continuerà com'è. Questa interpretazione, che sentiremo ripetere con convinto calore, è la più condivisa da chi governa, perché lo illude di avere mani libere per perpetuarsi al controllo del potere. In aggiunta a questa lettura minimalistica della diserzione dalle urne vi sarà il rinvio della verifica dei consensi a successivi appuntamenti elettorali. Il più vicino sono le elezioni politiche del 2027: anni luce dall'Italia che dal giugno di quest'anno, se non prima, dovrà fare i conti con gli esiti di altre votazioni di qua e di là dell'Atlantico, con le tensioni, sempre meno controllabili, dei tre principali conflitti in corso (Ucraina, Vicino Oriente, Mar Rosso) e, per stare alle cose di casa, con il macigno del debito pubblico galoppante, la futura legge di bilancio e la possibile nuova impennata dell’inflazione: variabile dipendente da fattori esterni incontrollabili da un singolo Paese, per quanto a vocazione sovranista o populista, in un'Europa che sta smarrendo la bussola, come dimostrano le sortite bellicistiche del presidente francese Emmanuel Macron.

   Dopo il voto probabilmente si prospetterà la tentazione dei partiti di moltiplicare l'iscrizione a sempre nuove “liste di attesa”, nella speranza di chissà quale medicina per una “cura da cavallo” del regime parlamentare agonizzante. O di un nuovo “miracolo”. In fondo siamo tra i Paesi più inclini ad “apparizioni” salvifiche. Molti si candidano a commentare a tempo indeterminato la sfera di cristallo della “politica” e dei suoi riti (comizi elettorali, spoglio delle schede, assegnazione dei seggi, pubblici scambi di fatue cortesie tra i contendenti...) slittando di votazione in votazione. Di regione in regione. Di stagione in stagione. Con gli animi sempre più sospesi, eludendo la risposta al quesito incombente: l'anoressia per le urne è passeggera o patologica?

 

1848-1849. Due costituzioni, una certezza: le elezioni.

   Per una risposta non evasiva, giova un rapido panorama storico dell'affluenza elettorale da quando con lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel regno di Sardegna (4 marzo 1848) e con la Costituzione della repubblica romana ( 3 luglio 1849) fu introdotta l'elezione della Camera dei deputati o dell'Assemblea dei rappresentanti. Le due costituzioni erano quanto di più diverso si possa immaginare. Però il “re per grazia di Dio” varò la “monarchia rappresentativa”, mentre Giuseppe Mazzini (un anno dopo il “Manifesto” di Marx ed Engels, febbraio 1848) volle, a sua volta, che la repubblica si fondasse sul binomio “Dio e popolo”. Lo Statuto rimise al Parlamento la formulazione della legge elettorale; Mazzini proclamò in costituzione il voto universale (maschile). Entrambe quelle Carte ebbero in comune l'elettività dei rappresentanti dei cittadini. La Repubblica Romana crollò per l’intervento militare straniero, francesi in testa. Nel “Piemonte” sconfitto dall'impero d'Austria lo Statuto invece resse. E nulla fu più come prima.

   Vedersi riconoscere il diritto di voto costituì motivo di orgoglio, di vanto e di impegno civico e morale a rappresentare anche gli astenuti e quanti erano esclusi dalle urne perché analfabeti o non abbienti. Chi non compartecipava a sostenere lo Stato con la contribuzione diretta non aveva titolo di concorrere a deciderne le sorti con l'elezione dei deputati. A tale riguardo l'Italia non stava peggio dei Paesi dell'Europa centro-occidentale e degli Stati Uniti d'America (l'impero russo e il turco-ottomano erano ancora mondi a parte).

 

1848-1939. Un secolo di affluenza alle urne

   Ma quale fu l'affluenza dei cittadini alle urne nella Nuova Italia?

   Tante primavere fa, i manuali di storia (quasi tutti ideologicamente schierati) ripetevano in coro che dalla nascita l'Italia fu perennemente in crisi adolescenziale per la modesta affluenza degli elettori, tanto più perché questi erano un’esigua minoranza della popolazione. Nel 1861, all'elezione della VIII Legislatura del regno di Sardegna, che si tramutò in I Legislatura di quello d'Italia ma conservo l'ordinale vigente – così come Vittorio Emanuele rimase “II”, benché fosse il primo sovrano del nuovo regno – la percentuale dei votanti si fermò al 57,2%. Poi via via scese sino al 45,5% registrato nelle elezioni del novembre 1870, convocate per festeggiare l'annessione di Roma e del Lazio e la debellatio del papa-re. Molti cattolici, classificati come incorreggibili clericali, non andavano alle urne perché sconsigliati dalla Sacra Penitenzieria: “Non oportet”. Non conveniva né candidarsi né votare. Lo Stato d'Italia era “scomunicato” da Pio IX. I cattolici fedeli alla Chiesa dovevano essere “né eletti, né elettori”. Ma già nel 1874 la partecipazione al voto salì al 55%. Nel 1880 raggiunse il 59,4%. Nel 1882, quando gli elettori crebbero da 620.000 a 2.018.000 e i collegi uninominali, croce e delizia dell'Italia liberale, vennero sostituiti da quelli plurinominali con scrutinio di lista, i votanti risultarono il 60,75%: un record sfiorato nuovamente nel 1895 quando alle urne andò il 59% degli aventi diritto. Ma questi erano stati drasticamente ridotti di numero perché il presidente del Consiglio, Francesco Crispi, riformatore illuminato ma insofferente di opposizioni e pessimo amministratore di se stesso, fece dimagrire il corpo elettorale cancellando democratici, protosocialisti e liberali progressisti, a vantaggio dei suoi seguaci.

   Solo a inizio Novecento, con l'ascesa al trono del trentunenne Vittorio Emanuele III, la percentuale dei votanti salì costantemente sino al 65 netto del 1909. Nel 1913, con la riforma voluta da Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio di lunga esperienza, gli elettori balzarono da 2.930.000 a 8.443.000. Il conferimento del diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni alfabeti, e anche agli analfabeti se avessero prestato servizio militare o avessero compiuto trent'anni (che per l'epoca era già una bella età, raggiunta a stento dalla metà dei nati), fu bollato come “un pranzo alle otto di mattina” da un giolittofago prevenuto come Gaetano Salvemini. Invece Giolitti vinse la scommessa. Alle urne andò il 60,4% degli aventi diritto, a conferma che la riforma era attesa e i cittadini se ne valsero per scegliere i propri rappresentanti.

   Lo prevedeva lo Statuto. L'Italia era una “monarchia rappresentativa”. Il re era il capo supremo dello Stato; ma il potere legislativo apparteneva a lui e alle Camere, una delle quali elettiva, con il sistema più collaudato e costruttivo, il collegio uninominale con ballottaggio: l'unico in grado di propiziare l'avvento di una classe dirigente preparata e lungimirante. I deputati potevano essere rieletti senza alcuna limitazione. Più rimanevano in esercizio, più risultavano capaci e meritevoli. Nel primo quindicennio del Novecento i presidenti del Consiglio dei ministri furono tutti deputati letti e rieletti da decenni. Il democratico e massone bresciano Giuseppe Zanardelli sedette alla Camera dalla VII Legislatura alla morte (1903) in rappresentanza dei collegi di Gardone, Iseo e Brescia; il suo confratello Sandrino Fortis fu deputato di Forlì e Mirteto dalla XIV alla XXIII Legislatura; il barone Sidney Sonnino, due volte presidente del Consiglio, rappresentò San Casciano e il IV collegio di Firenze dalla XIV alla XXIV Legislatura. Giolitti fu eletto la prima volta nel 1882 e rimase deputato 46 anni, sino alla morte. Il decano della Camera risultò Luigi Luzzatti, presidente del governo dal 1910 al 1911, deputato di Oderzo dall'XI Legislatura, poi di Padova, Treviso, Abano Bagni e nuovamente Treviso sino alla XXV. Israelita, promotore delle banche popolari, esperto di finanza, presidente della lega bancaria latina, fautore della moneta unica europea e uomo di vastissima cultura fu uno dei padri della Patria.

   Quel Parlamento, salutato all'avvento del regno come il migliore possibile e al tempo stesso bersagliato da critiche impietose da nazionalisti come Luigi Federzoni, socialisti quali Orazio Raimondo e sindacal-confusionari come Arturo Labriola, quando venne l'ora si rivelò il meno capace di rappresentare gli italiani e di dare voce in Aula alla maggioranza dei cittadini, contrari all'ingresso dell'Italia nella fornace ardente della Grande Guerra. Anche chi era avverso (fu il caso del socialista Filippo Turati) o consigliava di intervenire solo quando si fosse certi di vincere senza rischiare (era il pensiero di Giolitti) fu succubo del governo, a sua volta prono alla sfida della piazza, finanziata da agenti stranieri: “Guerra o rivoluzione”.

   Nel dopoguerra ci volle del bello e del buono per recuperare la percentuale di votanti del 1913. Nel novembre 1919, quando vinsero i partiti “di massa” (socialisti e popolari, appena fondati da don Luigi Sturzo), votò appena il 56,6% degli lettori. Nel maggio 1921 il diritto di voto fu esteso alle “terre liberate” (Trentino e Alto Adige, Venezia Giulia e Istria) annesse prudentemente senza plebiscito confermativo. La percentuale salì al 58,4%, come nel 1886. Il conferimento del diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni (e ancora più giovani se avessero prestato servizio militare) e l'introduzione della “maledetta proporzionale” (formula di Giolitti) determinò l'“Occasione perduta”, come Gianpaolo Romanato intitola i saggi raccolti nel 4° Quaderno della Casa Museo “Giacomo Matteotti” di Fratta Polesine (ed. Cierre).

   Le votazioni più partecipate furono poi quelle del 6 aprile 1924 (63,8%), dopo diciotto mesi di governo Mussolini, che le vinse con il 66% dei voti validi a favore della sua Lista nazionale, infarcita di nazionalfascisti, cattolici, liberali, democratici ed ex socialisti in trasferta: opportunisti o convinti che il Paese avesse bisogno di requie? Subito dopo l'inaugurazione della legislatura avvenne l'imprevisto. Giacomo Matteotti, pugnace e indomito segretario del partito socialista, fu rapito dalla squadraccia capitanata da Amerigo Dùmini e morì nell'agguato. Lo scandalo fu enorme. Travalicò i confini. Mussolini vacillò. Ma invece di incalzarlo in Aula l'opposizione si arroccò su un illusorio “Aventino” e perse l'occasione storica: offrire al re un voto parlamentare di sfiducia o almeno di critica severa e documentata che gli consentisse di esercitare le sue prerogative. Il sovrano fece riservatamente sapere che su quella base avrebbe revocato Mussolini e varato un nuovo governo “di garanzia”, forse con alta presenza di militari e di tecnici, come si attendevano molti liberali. Tra gli avversari del fascismo i più si illudevano che i giornali fossero una “terza Camera”, come oggi certi programmi televisivi e i “social”.

   Consolidato il “duce” al potere, anche grazie alle leggi “fascistissime” che risposero ai quattro attentati alla sua vita in due anni, spazzate via le opposizioni e messi a segno i Patti Lateranensi con la Chiesa cattolica, alle elezioni del 24 marzo 1929 i 400 candidati selezionati dal Gran Consiglio del Fascismo ottennero il consenso del 98,3% dei votanti. Nel 1934 i voti favorevoli al governo salirono al 98,8%. Nel marzo 1939 la Camera dei fasci e delle corporazioni non ebbe neppure bisogno di votazioni: fu composta da “nominati”. Forse l'Italia stava meglio quando alle urne andava appena il 60% degli elettori. Eppure secondo Alberto Aquarone, uno tra i massimi storici italiani, se non fosse intervenuto nella nuova guerra generale il regime sarebbe durato a tempo indeterminato, come accadde a Francisco Franco in Spagna e ad Antonio de Salazar in Portogallo.

 

Il voto: un “dovere civico” sempre più eluso. Perché?

   L'Italia del dopoguerra non partì dal modello antefascista ma da quello del regime. Al partito unico subentrarono quelli rappresentati nei Comitati di liberazione nazionale. Nel Comitato Centrale e in molti Cln del Mezzogiorno ve ne erano sei. In quelli dell'Alta Italia (con sede a Milano) e delle regioni centro-settentrionali solo cinque (non vi compariva la Democrazia del lavoro). In nessun Cln figurava il Partito repubblicano italiano, che però non era affatto un fantasma. Nel II governo presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi sedette alla Difesa il repubblicano Cipriano Facchinetti, massone, al quale si deve, fra altro, la sostituzione della Marcia Reale con il Canto Nazionale musicato da Michele Novaro per le cerimonie solenni, a cominciare dal IV novembre 1946, ricorrenza della Vittoria del 1918.

   All’elezione dell'Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) parteciparono quasi 25 dei 28 milioni di elettori (maschi e femmine), tre milioni dei quali furono esclusi: ancora prigionieri di guerra, sospesi dal voto per ragioni politiche, non raggiunti dagli uffici elettorali comunali o residenti in province ancora “sub judice” in attesa del Trattato di pace (10 febbraio 1947). Dalle urne uscirono un milione e mezzo di schede bianche e un mare di schede nulle, annullate e contestate. Non se ne venne mai a capo. Comunque, con 51 liste in gara, la partecipazione fu rilevante.

   Per decenni la percentuale dei votanti rimase stabilmente attestata oltre il 90% degli elettori. Proprio il massiccio afflusso alle urne confortò l'egemonia della Democrazia cristiana al governo nazionale, nella maggior parte dei comuni e, quando finalmente vennero ricostituiti (1951), nei consigli provinciali. Comunisti e socialisti, alleati anche dopo il fiasco del Fronte popolare – che ancor oggi qualche cosa dovrebbe insegnare ai cantori di “campi” (pessimo lemma, evocativo di recinzioni e di steccati) – non potevano inneggiare alla partecipazione e sconfessarne i risultati o attribuirli al “destino cinico e baro”.

   Nel titolo IV della Carta (Rapporti politici) i costituenti scissero gli articoli 48 e 49 (45 e 47 della bozza approvata dalla Commissione dei Settantacinque) di fondamentale importanza per definire la democrazia, in armonia con il secondo comma dell'articolo 1. L’art. 48 recita: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età», all'epoca fissata al compimento di anni 21 e ora portata ai 18 (qualcuno propose di abbassarla a 16 anni). E aggiunge: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.» Dopo ampio dibattito venne respinta la proposta di dichiararlo obbligatorio (avrebbe saputo di regime; e d'altro canto molti ne erano privati per motivi politici) e “dovere morale”, valutato eccessivo perché avrebbe costretto a recarsi alle urne anche tanti monarchici, perplessi all'indomani della proclamazione della repubblica, prevalsa col favore di un magro 42% degli elettori.

   L’art. 49 afferma che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi (la bozza recitava “organizzarsi”) liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». La discussione verté sul “metodo democratico”: doveva valere per l'azione dei partiti verso l'esterno o anche al loro interno? Con la sua nota scaltrezza Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista italiano, assecondato dal classicista Concetto Marchesi in nome della libertà respinse la pretesa di sondare la democrazia interna dei partiti. Se un cittadino si riconosce in un’associazione che ne limita la libertà – egli spiegò – nessuno può interferire sulla sua auto-limitazione. L'importante (come convennero tutti) era che i partiti non fossero associazioni terroristiche.

   E oggi? Come tanti constatano, i partiti (o movimenti) sono organizzazioni numericamente sempre meno rilevanti e tuttavia decidono candidati all'Europarlamento, alle Camere, ai consigli regionali, i sindaci e i titolari delle cariche più svariate. Agli elettori non rimane che votare. La loro opinione conta pressoché nulla. Di lì l'ampia e crescente astensione. La monarchia rappresentativa poté permettersi il lusso di un corpo elettorale ridotto e del 60% di votanti. La repubblica può fare altrettanto? La “capo-crazia” è conciliabile con la democrazia o ne è la negazione? Oltre quale soglia di astensione dal voto le istituzioni cessano di essere rappresentative? Sono domande niente affatto retoriche soprattutto mentre dall'esterno tante lugubri ombre si allungano sullo Stato d'Italia e sulla sempre più labile “Unione Europea”.

 

Aldo A. Mola

Saggi Storici sulla sulla Tradizione Monarchica - VI

 


 

I PRIMI ALBORI NAZIONALI

 

SOMMARIO: L'Italia comunale e la formazione degli Stati in Piemonte e in Sicilia - La decadenza dell'Impero - La fine del Medioevo - il Rinasci­mento - Le dominazioni straniere - Rivoluzione e restaurazione.

 

1) L'ITALIA COMUNALE E LA FORMAZIONE DEGLI STATI IN PIEMONTE E IN SICILIA

 

L'XI secolo è caratterizzato soprattutto dalla lotta titanica fra Papato e Impero per la difesa della Chiesa dall'ingerenza del potere civile. Tale lotta i cui presupposti sono da ricercare in quell'uso instaurato da Carlo Magno e seguito dai suoi successori, di servirsi dei vesco­vi e degli abati come di altissimi funzionari del potere civile, rag­giunse il suo acme nello scontro fra papa Gregorio VII e l'imperatore Enrico IV e terminò con l'episodio famoso di Canossa dove l'impera­tore, colpito dalla scomunica papale e minacciato di deposizione, fece ammenda dei suoi torti di fronte 9.1 Pontefice ricevendone in cambio l'assoluzione dalle censure ecclesiastiche. Tale pentimento non si di­mostrò sincero, perché poco dopo Enrico IV assediava Roma, costrin­gendo Gregorio VII a rifugiarsi a Salerno ove moriva profugo e in balia dei Normanni, suoi protettori e custodi, ma lo scontro ebbe poi definitiva composizione con il Trattato di Worms, firmato nel 1122 fra il papa Callisto II e l'imperatore Enrico V.

 

Mentre in Italia l'autorità imperiale diminuiva, un nuovo ordinamento cominciava a delinearsi con la creazione dei Comuni, nati soprattutto come tentativo della piccola nobiltà cittadina e dei ceti ricchi, dediti ai commerci, di sottrarsi alla giurisdizione della grande nobiltà feudale. Il comune, che è retto da magistrature elettive, ha come trama principale della sua vita, la lotta delle fazioni per la par­tecipazione al governo della città; di queste lotte sono protagoniste le consorterie nobiliari e le corporazioni delle singole professioni che cercano ognuna di prevalere sulle altre; accanto alle corporazioni eco­nomiche, vi sono compagnie d'armi, spesso basate sulla divisione della città in rioni, quartieri o contrade, che riuniscono sotto appositi capi i cittadini, sia per il servizio di polizia che per la difesa contro i nemici esterni.

 

A capo dei comuni, stanno spesso due consoli; ne troviamo infatti a Pavia nel 1084, a Milano nel 1097, a Bologna nel 1123, a Piacenza nel 1126. Più tardi il supremo magistrato fu il Podestà, scelto fra i cittadini di un altro comune, per assicurare la sua imparzialità nei confronti dei partiti cittadini.

 

A Genova e a Pisa le istituzioni comunali furono anche più pre­coci ed ebbero uno svolgimento diverso a causa della struttura mari­nara di quelle repubbliche; altre invece non attraversarono neppure lo stadio feudale come Venezia, che dopo un lungo periodo di dipenden­za dall'impero bizantino puramente formale, e governata di fatto dai suoi dogi, ebbe uno sviluppo navale notevolissimo strettamente con­nesso al potenziamento dei suoi commerci e all'ingrandimento dei suoi territori, che compresero le terre adriatiche a cominciare dal­l'Istria, la cui conquista ebbe inizio nella prima metà del IX secolo. An­zi per questa sua particolare posizione, Venezia divenne presto il punto d'incontro dell'Oriente con l'Occidente.

 

Il Comune aveva però nella stessa struttura i germi della signoria ed ebbe minore durata dei due potenti stati di carattere feudale che si erano intanto formati in Italia, il primo nel settentrione, il secondo nel meridione. Lo stato sabaudo ebbe origine nei primissimi anni dell'XI secolo nelle terre che si estendono fra le contee di Moriana e di Ginevra e quelle di Vienna nel Delfinato e di Aosta; il nocciolo di questi domini furono il Chiablese, il Vallese ed altre terre concesse dall'imperatore Corrado II il Salico ad Umberto Biancamano o dalle bianche mani, pare verso il 1034, in premio di una vittoria da questi riportata contro i borgognoni di Ottone di Champagna.

 

Infinite sono state le ipotesi sugli ascendenti di Umberto Bianca-mano, chi lo avrebbe voluto figlio di Beroldo, discendente da Vitichindo duca di Sassonia, chi da Ottone Guglielmo conte di Borgogna. Luigi Cibrario, il più autorevole degli storici sabaudi, parla anche di un Ma-nasse di Savoia e Noyon, possibile padre di ~erta, ma si resta sem­pre nel campo delle ipotesi, non comprovate da alcun argomento di carattere risolutivo.

 

 Il feudo sabaudo si ingrandì rapidamente, specie per il matrimonio di Oddone con Adelaide di Susa che portò al marito le contee di To­rino, di Susa e del Chisone, ed il titolo di Marchese d'Italia. Successori di Oddone, morto intorno al 1060, furono i figli Pietro I e Amedeo II (*), Umberto II e Amedeo III che mori di peste a Nicosia di Cipro, al ritorno dalla II crociata contro gli infedeli; egli primo fra i principi della sua casa, ottenne dall'imperatore Enrico V, suo cugino, il titolo di Vicario perpetuo dell'impero in Italia, che diede ai conti sabaudi un grande prestigio nel quadro politico dell'epoca.

 

Contemporaneamente all'altro estremo della penisola un altro stato si andava formando sulle rovine degli antichi possedimenti bizan­tini, il regno normanno. I normanni, guerrieri di provenienza nordica, cominciarono ad infiltrarsi nell'Italia meridionale, approfittando del­le lotte fra greci e longobardi, ponendo la loro prima sede ad Aversa, di cui divenne conte il normanno Rainolfo; da questa città divenuta centro di raccolta delle bande provenienti dalla terra francese da essi detta Normandia, la conquista si irradiò progressivamente approfit­tando delle propizie condizioni politiche. I fratelli Altavilla condottieri normanni furono arruolati dal principe di Salerno e successivamente chiamati in Puglia da quelle popolazioni per combattere contro i bi­zantini, riuscirono a sconfiggerli formando nel territorio una serie di contee. Prevalsero su tutti Guglielmo d'Altavilla e il suo successore Roberto il Guiscardo; questi penetrò in Calabria, invano osteggiato

 

da Papa Leone IX che il 18 giugno 1053 fu sconfitto a Civita, continuò poi le conquiste aiutato dal fratello Ruggero, assumendo il titolo di Duca di Puglia e di Calabria. I greci furono completamente espulsi dalla penisola e l'ultimo principato longobardo, Salerno, cadde nel 1077 nelle mani dei Normanni. Il conte Ruggero, fratello di Roberto, riuscì poi a conquistare la Sicilia scacciandone i Saraceni, completando così la conquista normanna del meridione.

 

L'unificazione dei due regni estintasi la discendenza di Roberto, avvenne sotto il figlio di Ruggero, Ruggero II nel 1127 e fu conferma­ta dall'investitura che questi ottenne dall'antipapa Anacleto II. Il vero Papa Innocenzo II e l'imperatore Lotario II tentarono di opporsi, ma invano; il Papa sconfitto e fatto prigioniero, si rassegnò con il trattato di Mignano nel 1139 ad investire Ruggero II del regno di Biella, come vassallo della Santa Sede, ottenendo la restituzione di Benevento.

 

(*) Amedeo II, che mori intorno al 1080, ebbe parte nel più importante av­venimento dell'epoca, la famosa visita dell'Imperatore Enrico IV a Canossa dove si trovava Papa Gregorio VII, ospite della contessa Matilde di Toscana; l'imperatore fu accompagnato in quella difficile circostanza dalla suocera Ade­laide vedova di Oddone di Savoia e dal cognato Amedeo II che sembra interce­dessero per lui presso il Pontefice.


sabato 23 marzo 2024

18 Marzo 1983

 1983 (41 anni fa): muore, a Ginevra (Svizzera), Umberto di Savoia, ultimo Re d’Italia. Nato, a Racconigi (Cuneo) il 15 settembre 1904, figlio di Vittorio Emanuele III, è stato comandante del gruppo di armate disposte sul fronte occidentale (1940), nel 1942 comandò le armate del sud e assunse la carica di maresciallo d’Italia. Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma, fu nominato luogotenente del regno; salì al trono il 9 maggio 1946 in seguito all’abdicazione del padre, e vi rimase solo fino al referendum del 2 giugno 1946, che istituì la Repubblica; di qui l’appellativo di “Re di Maggio”, datogli polemicamente dai repubblicani. Il 13 giugno abbandonò l’Italia e prese dimora a Cascais, presso Lisbona, sotto il nome di conte di Sarre. L’ultimo Re del Regno d’Italia non sapeva che non avrebbe rimesso più piede nel Paese. Pensava, infatti, si trattasse di un allontanamento temporaneo, com’era stato per altri regnanti europei, che dopo un breve esilio avevano fatto poi ritorno nei rispettivi paesi. Non poteva immaginare che nel 1947 sarebbe stato pubblicato un articolo della Costituzione che recitava: “I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno sul territorio nazionale“. Nel suo quasi quarantennale esilio, Umberto II svolse opera di aiuto e sostegno verso gli italiani indiscriminatamente, in occasione di bisogni personali o di eventi drammatici. Si impegnò particolarmente per la causa della Venezia Giulia e dell’Istria indirizzando numerosi messaggi di vicinanza agli istriani e ai giuliani e criticando il trattato di Osimo. Tramite suoi rappresentanti fu presente, anche come sponsor, a manifestazioni culturali, patriottiche o sociali. A Cascais, ricevette decine di migliaia di italiani in visita e a tutti coloro che gli scrivevano rispondeva.

 Il tempo dei ricordi | La Riviera online (rivieraweb.it)

domenica 17 marzo 2024

18 marzo 2024





di Emilio del Bel Belluz

In questo periodo mi capita spesso di pensare a quelle persone che avrei voluto conoscere nella mia vita e che per vari motivi non ho potuto farlo. Un mio sogno era quello di poter andare a Cascais a trovare Re Umberto II, Re d’Italia Questo mio desiderio rimase sempre nel cassetto come quegli amori impossibili che non si possono realizzare perché, non avevo i mezzi per andare a trovarlo, il denaro non mi scorreva tra le mani con molta facilità. La figura del Re Umberto II mi era entrata nel cuore nel momento in cui venni a sapere a scuola cosa fosse l’esilio. Quante volte mi ero rivolto alla maestra delle elementari che si spiegasse cosa fosse questo termine che non apparteneva al vocabolario di un giovane di 10 anni. Questa parola mi faceva soffrire solo a pronunciarla, era una parola intrisa d’ingiustizia. La mia maestra aveva capito una cosa molto importante, cioè che ero una persona che non tollerava nessun torto. La maestra mi aveva spiegato che il Re Umberto II aveva scelto di andare in esilio per rinunciare ad una guerra civile che ci sarebbe di sicuro stata. Il Re che aveva un cuore generoso non aveva permesso che questo si verificasse.  L’insegnante era rimasta colpita dal susseguirsi di domande che gli avevo rivolto, e mi aveva donato un vecchio libro che parlava della monarchia e che mostrava il Re d’Italia in una foto assieme alla sua famiglia. Rimasi colpito nel vedere il volto sorridente del Re e della diletta moglie assieme ai figli; la foto li ritraeva vicino alla loro abitazione. Per quella famiglia così bella non c’era più posto in Italia. La maestra, che a mio giudizio aveva una certa simpatia per Casa Savoia, mi aveva fatto ritagliare quella foto perché la mettessi nel mio quaderno di storia. Avevo frequentato la quinta elementare a Villanova di Motta dove la mia famiglia possedeva una vecchia osteria e un negozio di alimentari. Allora la vita era molto diversa da quella di adesso. Il mondo sembrava più normale e si viveva cullati dalle piccole cose, che per me erano rappresentate anche dai libri di storia. Sono stato anche elogiato davanti ai miei compagni di classe per la mia passione per la storia. L’insegnante mi consigliò di fare una vera e propria ricerca su Casa Savoia, prendendo come fonte coloro che avevano avuto modo di conoscere qualche rappresentante di questa dinastia. Allora decisi di rivolgere delle domande ad uno zio, che era fratello di mio nonno, e che viveva con noi. Il suo nome era Gaetano e aveva combattuto durante la Grande Guerra. Era un bersagliere, ed era stato nello stesso battaglione di Mussolini, Nella sua stanza aveva una foto con il cappello con le piume di cui andava fiero. Nella stessa foto c’era sua moglie Rosa che lo aveva lasciato molti anni prima. Quella foto la posseggo ancora adesso. Il vecchio Gaetano disse che in guerra aveva avuto modo di vedere in più occasioni il Re Vittorio Emanuele III, e il figlio, l’allora principe Umberto che ispezionavano le trincee, intrattenendosi a parlare con i soldati. Non avevano timore di mostrarsi in prima linea, pur di confortare e sollevare l’umore dei fanti. Lo stesso giorno mi mostrò una medaglia che si era guadagnato in guerra per un’azione pericolosa che gli era stata affidata. Lo zio Gaetano aveva sofferto per la morte in esilio del Re soldato e di sua moglie, la Regina Elena, una donna che aveva aiutato i poveri, e che si era sempre prodigata per gli ultimi. Il vecchio zio, all’epoca dei suoi racconti, aveva quasi novant’ anni. Passava le sue giornate a fumare il sigaro e a guardare la televisione. Di Re Umberto II disse che era stato una persona saggia, che aveva un cuore d’oro e, sicuramente, sarebbe stato un buon Re. Il vecchio Gaetano aveva pure amato la figura di Giovannino Guareschi che aveva scritto dei libri e che si era sempre dichiarato fedele verso la monarchia, denunciando i brogli che vi erano stati durante il referendum. Mi parlò di un film dove una vecchia maestra rimproverava il sindaco del paese e i rossi di aver mandato via il Re e la sua famiglia in un’isola. Quella vecchia maestra che morendo aveva chiesto che sulla sua bara fosse posta la bandiera del Re. Quel film lo aveva molto commosso, a tal punto, che una lacrima gli era scesa dal volto. Avevo trascritto in un quaderno tutte le risposte avute dallo zio, come pure vi avevo incollato delle foto inerenti ai reali di Casa Savoia, trovate in un vecchio libro donatomi dal parroco del paese. La maestra rimase molto soddisfatta della mia ricerca e mi premiò con un voto altissimo.  Da grande sognavo di scrivere anch’io un libro che potesse dare luce sull’operato di Casa Savoia, caduta nell’oblio. Dopo la licenza elementare mi portai dietro quel quaderno e continuai ad incollare quei pochi articoli sui Savoia che trovavo nei giornali che venivano recapitati a casa mia. La fedeltà a Casa Savoia durerà per tutta la vita. Quante volte avrei voluto mettermi su un treno e raggiungere Re Umberto II, a Cascais. Mi sarei presentato davanti alla sua Villa Italia chiedendogli di stringergli la mano, e di poter avere da lui una foto con dedica, o magari un libro. Questo sogno lo cullai per sempre. Quello che realizzai in questi anni fu una fedeltà assoluta al suo ricordo. Quando morì non ebbi nessun dubbio. Dovevo andare ai sui funerali, e ci riuscii, anche se con molte traversie. Raggiunsi la Francia con la morte nel cuore, e da quel momento non lo dimenticai mai. Ogni anno e per quarantun anni ho scritto un ricordo per l’anniversario della sua morte che ho pubblicato nei giornali amici, quelli che ti hanno dato spazio, esprimendo la mia fedeltà e devozione al Sovrano. Quest’anno ho scritto questo articolo.  Il 18 marzo del 1983 moriva il Re d’Italia S.M. Umberto II, in terra d’esilio, all’ospedale di Ginevra. Ero tra coloro che presenziarono ai suoi funerali, in una giornata in cui il cielo aveva deciso di piangere come quelle migliaia di italiani che avevano sfidato ogni difficoltà pur di esserci.  Il sovrano che era morto dopo una lunga malattia era considerato un grande uomo, una persona che aveva come priorità assoluta il bene del suo Paese. Durante la lunga malattia che lo aveva colpito, e che faceva presagire nessuna possibilità di guarigione, aveva chiesto di poter far ritorno alla sua amata patria che gli aveva dato i natali il 15 settembre 1904. Questa richiesta rimase inevasa, la repubblica non ebbe nessun rispetto per il Re, per una persona che era stata 37 anni in esilio: una condanna che nessuna ragione politica poteva giustificare. Il giorno delle esequie, in terra straniera, si distribuì un volantino che conservo nel mio studio vicino alla foto del Re Umberto II. Questo foglio scritto da quel galantuomo di Sergio Boschiero, allora segretario dell’U.M.I. diceva: “Il Re è morto: Viva il Re! S.M. il Re Umberto II è morto. Voleva rivedere l’Italia ma anche la morte ha stroncato il più grande desiderio della Sua vita. È morto da italiano e da Re come da italiano e da Re era vissuto. Ha sempre e solo parlato di fratellanza, di giustizia, di pace: per questo è stato condannato all’esilio”. Quelle parole riassumevano la vita di un uomo che aveva provato tutto, sopportato tutto, provato nel male, ma non si era mai arreso. Quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo non possono che tesserne le lodi, e quelli che hanno letto la sua biografia non possono che apprezzare il suo modo di agire e l’amore che aveva per la sua terra. In esilio visse in Portogallo, a Cascais, allora un piccolo paese di pescatori dove tutti lo stimavano e lo conoscevano. Era sua abitudine intrattenersi con quelli che lo cercavano, con coloro che bussavano alla sua porta e gli chiedevano aiuto. Alla domenica si recava alla messa nella piccola chiesetta del paese, e all’uscita molti poveri lo circondavano e gli chiedevano aiuto, e per tutti aveva qualcosa da dare. La sua generosità era risaputa da molti e a quella messa si davano convegno quelli che il destino non aveva reso felici. La sua fama tra quelle genti non conoscerà mai tramonto. Quello che si fa con il cuore rimane.  Sono trascorsi 41 anni dalla sua morte e non si è fatto nulla di concreto per farlo riposare in Italia, al Pantheon, assieme a sua moglie, la regina Maria José nonostante sia stato un Re mandato in esilio per evitare una guerra civile e abbia fatto parte di una dinastia che ha scritto mille anni di storia italiana. Il nostro Paese sembra aver scordato la sua storia, e le sue radici. Anche quest’anno molti italiani andranno in Francia a rendergli omaggio, con una tristezza maggiore, perché lo scorso anno a quella commemorazione vi stava anche il figlio S.A.R. Vittorio Emanuele IV, che il buon Dio ha chiamato a sé. Dopo i funerali del Re Umberto II, nel suo scrittoio di Cascais, trovarono due citazioni che aveva scritto di proprio pugno. La prima faceva riferimento alla Lettera di San Paolo ai Corinzi:”

 

«Poco importa a me d’essere giudicato da voi, da un tribunale umano; anzi, non mi giudico neppure da me stesso. Infatti non ho coscienza di alcuna colpa; non per questo però sono giustificato; mio giudice è il Signore». La seconda riportava le parole di Pietro I, Valica del Montenegro: «lo mi avanzo pieno di speranza alle soglie del / Tuo Divino Santuario / la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato / dai miei passi mortali. / Alla Tua chiamata io vengo tranquillo …»