NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 26 aprile 2010

La resistenza monarchica in Italia II parte


Il testo della I parte si torva al seguente link
http://monarchicinrete.blogspot.it/2010/04/la-resistenza-monarchica-in-italia.html


Napoli combatte, non tende agguati, Napoli si manifesta generosa ed eroica e concorda la intesa con il primo tedesco che in Italia alzi bandiera bianca per parlamentare. Ma ormai le truppe alleate avanzano e rimane libero quel territorio dell'Italia del Sud che consente la continuità dello Stato e l'esercizio della Sovranità del Monarca, il Monarca che questo Stato rappresenta ed impersona, di S. M. Vittorio Emanuele III il vecchio e grande Re di tutte le conquiste e di tutti i progressi, il vecchio e valoroso soldato che ebbe fede nel popolo italiano come a Peschiera e come mai nessuno aveva avuto con tanto amore, con tanta partecipazione, con tanta lucidità di visione e bellezza di speranza.


L'Italia dunque è in piedi, qui nel Sud, con il suo Re, qui dove per prima nei millenni che furono, nacque il nome Italia e risalì nelle terre e nel tempo con il sudore e la gloria di generazioni e generazioni; qui nel Sud era in piedi l'Italia pur tra le rovine e le sofferenze, ma salda nel suo spirito di ripresa e tendente come un tempo ad abbracciare e riunificare tutto il popolo.

Dopo la gloriosa vampata di Napoli, la resistenza assume, come dicevamo, altri aspetti, mentre va manifestandosi, subito dopo l'armistizio, e poi sviluppandosi per arrivare gradatamente ad un coordinamento e ad un più preciso collegamento con il comando militare Anglo Americano. Nella resistenza, che alla fine del 1943, dopo l'afflusso seguito alla chiamata alle armi, nel territorio semi occupato dai tedeschi, raggiungeva circa quattromila uomini in tutto, prevale l'elemento monarchico, che si organizza chiaramente come tale, in tante bande autonome. Sono tutti soldati ed ufficiali provenienti dai reparti che si sono sciolti e nel Piemonte, sopratutto dagli uomini della IV armata in ripiegamento dalla Francia; sono giovani sottrattisi alla leva che li mette al servizio del tedesco occupatore, che essi non accettano guardando al Re che è lo Stato ed è nel sud; sono elementi che perseguiti o minacciati di utilizzazione a fini che considerano antiitaliani, si allontano dalle città per la montagna o si nascondono nelle stesse città e si tengono uniti. Queste bande sono autonome e numerose e conducono alcune imprese come quella di Boves con spirito risorgimentale e con la spregiudicatezza dell'arditismo, il che le espone a perdite e distruzioni varie, sicché si sente il bisogno di una condotta che sia più protetta, coordinata ed efficace, dando così credito a ciò che chiedono alcuni gruppi di comunisti le cui bande, sommate, sono in quel momento numericamente inferiori, e nettamente, alla somma di tutte le altre formazioni autonome. E' il metodo comunista che attraverso la organizzazione, la partecipazione, la unificazione mira ad assumere il controllo della attività partigiana, per potersi trovare dominante e possibilmente solo al momento dell'arrivo delle truppe Alleate, onde trasformarsi in esercito nazionale ed assumere il potere politico. Era questo ciò che temevano gli Anglo Americani, i quali non erano disposti a far la guerra per consegnare l'Europa alla Russia e sapevano bene che la Russia era dietro a tutto questo, e che usando le situazioni ed i motivi vari della resistenza introduceva in essa la accentuazione della organizzazione di tipo militare attraverso il partigianesimo, sempre più e sempre meglio organizzato, assumendo in seno allo stesso una preminenza sempre più chiara e sempre più totale. Lo sapevano gli Anglo Americani e lo fecero intendere agli altri partiti, e fecero sì che nel 1944 i Comitati di Liberazione Nazionale oltre a completarsi con un Comitato di Lib. Naz. Centrale ed uno Alta Italia precisassero sempre più il loro carattere politico e si distinguessero dal partigianesimo del quale invece si accentuava il carattere paramilitare, costituendolo in corpo volontari della libertà con un comando autonomo affidato ad un generale dell'esercito, il generale Cadorna. Ovviamente ciò non era gradito ai comunisti la cui lotta non era nazionale, non era per l'Italia, non traeva motivo dalla illegittimità delle posizioni e del comportamento germanico, come per i monarchici, ma aveva una esclusiva motivazione politica, ideologicamente collegata a Mosca, e dalla Russia utilizzata per raggiungere, attraverso le lotte degli altri, gli obiettivi propri di dominio. Logico quindi che i comunisti si opponessero come potevano, e la loro opposizione non fu senza risultato poiché ottennero che Vice comandante fosse un loro elemento, mentre un altro vice comandante per bilanciare quello comunista viene attribuito al Partito di azione, che aveva i propri gruppi, Giustizia e Libertà, anche essi autorevoli, sia per il coraggio dimostrato, sia per le perdite già subite e sia per la partecipazione di elementi borghesi di prestigio, della città, capaci di farsi valere con maggiore autorevolezza, appoggiati anche dagli americani. I due vice furono Longo per i comunisti, e Parri per il Partito d'Azione. I comunisti mantennero un rapporto più stretto tra Comitato di Liberazione e Corpo Volontari, cioè tra politica e aspetto militare, coltivando la speranza di rimontare a quella situazione unitaria che con questa organizzazione si tentava di dividere proprio per evitare il graduale impossessamento da parte comunista. L'obiettivo di impossessarsi dell'Italia, determinò anche le molte azioni ed i conflitti tra bande partigiane comuniste e bande non comuniste, specialmente colpite le più deboli, mentre le più piccole venivano assorbite e si dichiarava dai comunisti che nelle brigate Garibaldi, così si chiamavano le loro, potessero affluire anche i non comunisti, ai quali peraltro era fatto un trattamento intollerabile. A volte si servivano anche di ufficiali dell'esercito, che usavano solo tecnicamente, affiancando ad essi i commissari politici per sorvegliarli ed impedire che assumessero un ruolo di comando più efficace e autonomo.

Il metodo era quello affermato da Lenin e insegnato dalla Centrale Russa: fare qualunque accordo per evitare avversari e concorrenti, assorbendone le possibilità attive per poi eliminarli al momento opportuno, rimanendo soli e padroni del campo.

La necessità di contromanovra dei veri italiani che operavano, non per la parte, per il partito, ma per la Patria, il Paese, coincideva con le esigenze e la politica degli Anglo Americani e fu quindi pensata, appoggiata, organizzata con la necessaria sapienza, avendo presente che dei comandi congiunti Alleati faceva parte, e non senza peso, la Russia sovietica.

Gli Inglesi, non potendo impedire il partigianesimo, che si organizzava e sorgeva come abbiamo visto da condizioni obiettive e spontanee, trovarono invece più opportunu intervenire ed interferirvi per dare ad esso una fisionomia comune, riconosciuta da tutti gli alleati, e non dipendente dal solo russo; stabilirne un certo carattere esclusivamente militare e non politico, precisando i compiti dei comitati di liberazione e costituendo il Corpo volontari della libertà, fatto questo che consentiva di considerarne adempiuto il compito al momento della fine della guerra e ne giustificava lo scioglimento nonché il ritiro delle armi, come in effetti fu fatto; per consentire inoltre un controllo continuo ed una certezza di apoliticità, affidando il comando principale ad un soldato, il generale Cadorna, e mantenendo una opportuna vicinanza ai reparti, attraverso ufficiali inglesi ed americani in qualità di consiglieri militari, quasi sempre paracadutati; per avere altra possibilità di controllo e di riequilibrio tra le stesse formazioni partigiane - quelle comuniste e quelle non comuniste - attraverso il lancio dei rifornimenti e attraverso l'invio di cento milioni mensili in moneta italiana. Naturalmente i Russi non potevano opporsi a questa valorizzazione del partigianesimo la cui attività veniva elevata al rango militare, organizzata e coordinata ai comandi interalleati come forza ausiliaria. In realtà l'ausilio dei sabotaggi alle vie di comunicazione tedesche, c'era ed aveva sovente importanza notevole, anche se ai partigiani venivano a volte attribuiti alcuni di questi sabotaggi che invece erano dovuti ad elementi della polizia o di altri uffici della Repubblica Sociale.

Non si opponevano i Russi e suggerivano una condotta conforme ai Comunisti italiani senza peraltro rinunziare alla costante della loro azione che, svincolata da ogni moralità, volta per volta manca alla parola, massacra innocenti e gli stessi partigiani se non comunisti, spara su inermi e su gente che ha fatto il proprio dovere, solamente per affermare, col terrore, alcune imposizioni proprie; saccheggia e ruba. Non includo le armi e i viveri dei depositi che possono considerarsi in qualche modo come preda e che comunque erano richieste dalla situazione anomala.

Intanto al centro, al Comando, del Corpo volontari per la Libertà, il vice comandante Longo avvalendosi del fatto di essere anche componente del Comitato di Liberazione alterava facilmente nella esecuzione, le disposizioni politiche, con riflessi alla periferia più utili alle divisioni comuniste; spesso arrivavano a queste somme di danaro e mezzi inviate ad altre formazioni non comuniste. Altro passo notevole contro l'Italia veniva compiuto dai comunisti con l'accordo delle brigate Garibaldi con l'esercito jugoslavo di Tito il quale ebbe così possibilità di infiltrazioni, di predominio e di strage nella zona di Trieste e nella vicina zona della Venezia Giulia, ove sappiamo con quanta e quale ferocia abbia agito, contro gli italiani e non a fini bellici ma di puro predominio comunista.

Con questa situazione, con la dichiarazione iniziale fatta pochi giorni dopo l'armistizio, dal Comitato Liberazione Nazionale a Roma, che esso si riteneva governo provvisorio anche per collaborare al momento dell'arrivo degli Alleati, è evidente che gli angloamericani fossero preoccupati che i comunisti potessero tentare un colpo di mano nel momento del collasso tedesco e del prossimo arrivo alleato. Fu per queste ragioni che si ritenne di dover ricorrere allo stesso elemento partigiano per evitare ogni tentativo delle divisioni Garibaldi. Quali potevano essere i sicuri, gli autentici, i disinteressati, quelli che avevano operato nell'interesse della Patria e del bene comune e cioè per tutti e non soltanto per un partito, per una ideologia, per una politica; quali potevano essere se non i monarchici, i quali cumulavano insieme l'essere cattolici. Fu quindi ritenuto necessario un contatto diretto e riservato con queste divisioni partigiane per sensibilizzarle al pericolo incombente; avvertirle di tenersi pronte anche ad un conflitto con le Divisioni Garibaldi, più ampio degli scontri sporadici già avvenuti nello stesso periodo di clandestinità; per avvertirle dei luoghi ove avrebbero ricevute, paracadutate o meno, le armi e gli eventuali rifornimenti. Questo contatto doveva aver luogo, ed ebbe luogo, al di fuori dei canali ormai ufficialmente costituiti tra Alleati e Corpo Volontari della Libertà, canali che potevano anche essere sorvegliati e oramai non idonei a trasmettere iniziative diverse da quelle concordate.

Come vedete quella unità della Patria cara ai monarchicí, mantenuta dai monarchici, servita dai monarchici, veniva ancora una volta affidata alla fedele visione e alla devota fede dei monarchici, che in nome del Re, si apprestarono a impedire che l'Italia soccombesse al Comunismo e al Russo, e concorsero a dissuadere i temerari.

Se noi qui volessimo ricordare partitamente i singoli o le varie formazioni di monarchici, le azioni compiute, i meriti acquisiti, i nomi passati nello alone del coraggio e nella luce della eroica morte, andremmo oltre i limiti di tempo posti a questo nostro incontro, ma lasciate che accenni almeno ad alcune di queste divisioni, tra quelle che più fermamente mantennero la consegna fino agli ultimi giorni, e che conclusero la loro presenza operosa in una affermazione in sede politica che anche ebbe la sua importanza, monarchicamente, a favore dell'Italia. Il raggruppamento divisioni Cisalpine Alfredo Di Dio, e, in testa a tutte, la Divisione Lorenzini comandata da Cesare Carnevale già comandante di Bande in Africa nel 1935 e• rientrante dalla Iugoslavia e dalla Russia, due volte arrestato e due volte evaso durante la resistenza, divisione che aveva come Capo di Stato Maggior Fiorenzo Manfredo e come commissario di guerra Nicolò Bruno, un professionista stimato ed autorevole, un uomo di fede disinteressata e vibrante un politico accorto, dalle decisioni pronte e coraggiose.

Questa Divisione, del Raggruppamento, venne formata in Milano - il 10 febbraio 1945 - perché il Comando ritenne che fosse opportuno raccogliere e tenere a disposizione forze partigiane in città, per i motivi innanzi accennati; venne divisa in tre brigate: la « Milano » comandata da Gianni Longhi, la « Certosa » comandata da Genovesi, la « Bergamo » comandata da Carlo Da Prada.

Appena costituita, la Divisione Lorenzini cominciò il suo lavoro. Furono studiate cd attuate - sotto la direzione del Capo di Stato Maggiore - tutti i piani per la difesa delle centrali e dei bacini idroelettrici. Fu sorvegliata gelosamente la Certosa di Pavia, ove avevano trovato riparo molte opere d'arte costituenti il patrimonio artistico di Milano. Venne svolto un abilissimo servizio di informazioni. Vennero protetti e soccorsi ali ebrei italiani e stranieri, gli operai precettati per il servizio del lavoro in Germania, i perseguitati politici, ecc.

E finalmente, giunta l'ora finale la Lorenzini nella nuova composizione e pronta ad ogni eventualità si schierò in lotta aperta contro il nemico.

Già il giorno prima dell'insurrezione, il Battaglione di Vidigulfo - al comando di Angelo Lombardini - compiva una gesta audacissima: salvava, dalle mani delle SS. tedesche, nove detenuti politici provenienti da Genova e li nascondeva nella stessa casa in cui doveva pernottare il Generale Graziani. Poi, con poche armi, disarmava tutto il presidio tedesco, riuscendo a ricuperare materiale bellico e sanitario.

Il 5 aprile, la Divisione partecipò all'attaccò della caserma tedesca di Corso Italia ed all'assedio del Comando germanico di Via XX Settembre in Milano. Alcune squadre volanti di essa si sparsero per la città, compiendo azioni fulminee dì attacco e di rastrellamento: rilevantissima, quella svolta in Piazzale Baracca ove vennero snidati alcuni franchi tiratori che sparavano dal quarto piano di una casa.

Sempre nella stessa data il Comando divisionale di Pioltello liberò il paese; quello divisionale di Melegnano, facente parte della Brigata «Milano », cooperò nell'attacco ad una forte colonna germanica che si arrese; quello di Bereguardo, della Brigata « Certosa », catturò duecentocinquantasei tedeschi, facendo largo bottino di armi e munizioni.

Il 26 aprile, la Brigata « Milano » - al comando diretto del Comandante di Divisione - partecipò all'attacco contro il presidio germanico della Casa dello Studente ed assieme alla Divisione « Valtoce » assediò il Comando principale germanico di Piazzale Brescia, costringendolo alla resa.

La Divisione « Beltrami » il 24 aprile occupa le centrali elettriche e le dighe della Val d'Ossola, impedendo la loro distruzione.

Giunta notizia del movimento del presidio tedesco di Omegna verso Baveno, gli azzurri impegnano la colonna fra Brusinallo e Gabbio infliggendo numerose perdite, quindi occupano militarmente Omegna.

Nel pomeriggio del 25 la Divisione parte per Arona e a Invorio Inferiore impegna una colonna tedesca di protezione ad altra colonna di automezzi. Il 26, sebbene sotto il fuoco delle armi pesanti del presidio di Arona, si schiera a Paruzzano. Quindi sosta a Gozzano e il 27 traghetta il Ticino e libera Somma Lombarda. Il 28 la Divisione si congiunge a Busto Arsizio con gli azzurri della zona collaborando al disarmo di una forte colonna tedesca.

La Divisione « Val Toce » già nei primi giorni di aprile con l'intensa opera di sabotaggio dei suoi uomini impediva il passaggio di vagoni di esplosivo sulla linea Arona-Domodossola, impedendo ai tedeschi la rottura delle dighe del Toce. Quindi la Divisione si gettava alla liberazione della pianura novarese. Il 24 aprile la Brigata « Strona » entra in Gozzano e la Brigata « Di Dio » in Borgomanero. Sei soli uomini entrano in Omegna e mettono in fuga il presidio agganciandolo a Gabbio, fino all'arrivo di rinforzi della Divisione « Val Toce » e della « Beltrami » che spingono i tedeschi oltre Gravellona. Subito la « Val Toce » si dirige su Stresa, liberando in seguito Belgirate, Lesa e Meina, occupando tutta la zona da Stresa, ad Arona, tallonando sulla strada che costeggia il Verbano la colonna tedesca di Stamm. che si faceva scudo degli ostaggi. Supera Arona, occupa Castelletto Ticino con le Brigate « Di Dio » e « Val Strona », e Intra con la Brigata « Abrami », quindi Laveno e a Varese si congiunge alle altre Divisioni del Raggruppamento in marcia su Milano.

Attivissime quindi queste divisioni monarchiche meglio coordinate in Raggruppamento per riempire lo spazio a Milano nei giorni finali e per stabilire ai fini di un possibile previsto contrasto con i Comunisti la loro chiara validità di diritti e di rappresentanza che fosse anche apparentemente nota alla popolazione. E così altre Divisioni numerosissime in altre parti d'Italia che non elenchiamo per la necessaria brevità di una Conferenza.

La guerra si concluse, il temuto colpo di mano comunista era scongiurato, i partigiani disarmati, i poteri civili, provvisoriamente accaparrati dai Comitati di Liberazione, erano assunti dal governo legittimo del Re e il compito dei partigiani monarchici era finito; ma esso non vuol chiudersi senza far sentire la sua voce anche in sede civile e politica ed abbiamo un episodio il quale, a mio avviso, chiude la vita di queste divisioni riaffermando, con la loro dichiarata fedeltà al Re e alla monarchia, il perché ed il valore patrio di tutte le energie e le sofferenze consacrate alla grande causa dell'Italia.

Ecco l'episodio. A Roma per il 3 agosto 1945 la Democrazia Cristiana convoca i segretari e altri rappresentanti delle province dell'Italia liberata, e per le pressioni di pochi uomini di sinistra del partito, si prepara a fare sul piano istituzionale una dichiarazione repubblicana.

Qui consentite che io parli in prima persona. Io sono in alta Italia e appoggio al Comando Generale della V Armata 210' Divisione Fanteria Italiana e ricevo da Roma notizia della riunione e delle intenzioni del gruppo di repubblicani, e mi si sollecita a fare qualcosa per evitare che atteggiamenti del genere sicuramente antidemocratici per essere voluti da pochi e imposti a molti, i quali pur dovevano esprimere in quel caso la propria opinione, avessero conseguenze negative e intimidatorie, sul piano istituzionale e più ampiamente su quello di una ricostruita unità di popolo ed equilibrio di politica. Mancavano pochi giorni alla riunione ed era impossibile pensare di fermarla. Pensai che a Roma la presenza di comandanti partigiani giunti per dichiarare la propria fedeltà al Re e la fiducia nel sistema Monarchico, dovesse avere il suo peso sostanziale e quello più ampio di incutere un certo preoccupato rispetto. E sperai che ciò potesse essere utile. Informai della cosa i comandanti delle Divisioni del Raggruppamento di Dio e trovatili tutti concordi, e presi opportuni accordi, partimmo per Roma dove arrivammo all'alba del giorno 2 agosto 1945. Veniva con noi, elemento autorevole, anche il Commissario di Guerra della Divisione Lorenzini il dott. Nicolò Bruno, che già abbiamo nominato, il quale era amico dell'onorevole Alfredo Tupini fin dai tempi del Partito Popolare Italiano e con questi immediatamente prese contatto, poiché Tupini doveva riferire all'Assemblea sulla questione Istituzionale. Bruno ebbe un lungo colloquio e tornò soddisfatto: in realtà la pressione degli elementi repubblicani era forte, ma Tupini aveva ascoltato, discusso, appreso e spesso accettato ed aveva dichiarato che egli avrebbe riferito in maniera obiettiva parlando dei due sistemi, repubblicano e monarchico, in modo da non influenzare, con il suo dire, la opinione libera dei partecipanti. Bruno si sentiva più tranquillo anche per la vecchia amicizia che lo legava a Tupini e per avere notato fotografie dei reali nello studio in cui si erano trattenuti.

La riunione ebbe luogo. Al nostro arrivo ci fu impedito l'accesso, ma alla nostra protesta, sulla porta, in piazza Borghese, fu chiamato De Gasperi, il quale venne, si dichiarò « onorato », per la presenza dei partigiani « fiore della gioventù italiana e speranza per l'avvenire » disse, e ci ammise alla riunione, alla quale peraltro partecipavano molte persone autonominatesi rappresentanti di zone e di regioni, ma che nessuno aveva mai eletti o nominati.

La riunione ebbe luogo con fasi agitate ed alcune acutamente tese. Petrone di Salerno parlò fortemente a favore della monarchia, altri intervennero, ma quando al tavolo della Presidenza, situato sul palcoscenico, ed al quale sedevano De Gasperi, Piccioni, Gonella, Scelba e tutti i maggiori del partito, fu portato l'ordine del giorno sottoscritto, assieme a me, dai comandanti di divisioni partigiane, nel quale apertamente e fermamente si richiamava la necessità,di mantenere la Monarchia, e si dichiarava che essa sola era nel cuore del popolo e conforme agli interessi di questo, vi fu una sorpresa, un sussurrare, un chinarsi l'uno verso l'altro dei vari personaggi, che si passavano tra loro il foglio, e rimanevano o sorpresi o pensosi o incerti. Si tentò di evitare la lettura e di minimizzare. Salimmo il Comandante Carnevale ed io sul palco, mentre nella sala passava la notizia e si manifestava una certa preoccupata sorpresa, anche perché con commenti frasi o atteggiamenti i capi partigiani da me fatti sedere in punti vari e lontani tra loro nella sala, davano una più ampia sensazione di presenza. Discutemmo, proponemmo e in certo modo minacciammo anche azioni in periferia; i repubblicaneggianti ebbero la sensazione che il colpo non era riuscito ed a me parve che lo stesso De Gasperi non ne fosse poi del tutto scontento.

Egli nel discorso di chiusura si fermò lungamente sulla presenza dei partigiani, sui meriti di questi ed ebbe tante parole di elogio e di apprezzamento, ma poi ebbe a parlare della « violenza » e disse che essa può essere nobile come nobile era stata quella esercitata per il bene dell'Italia, ma non poteva e non doveva elevarsi a sistema per influire sulle civili competizioni e scongiurò con tanto calore i partigiani presenti a non fare ricorso alla violenza, che il pubblico, quasi ebbe la sensazione di trovarsi in pericolo. Fu così approvato un ordine del giorno diverso da quello che i pochi repubblicani speravano, poiché ogni decisione fu rimessa agli iscritti, limitandosi a dire «prende atto della netta prevalenza repubblicana nei quadri del partito» cioè dando la prova che « i quadri » gli anemici quadri allora, erano a prevalenza repubblicana e cioè che a volere imporre quella decisione erano solamente pochi!

Proseguiva l'ordine del giorno deliberando una inchiesta fra tutti gli iscritti al partito circa la forma istituzionale. La presenza dei partigiani monarchici era valsa ancora una volta a scongiurare colpi di mano dovuti alla invadenza prepotente di pochi e con questo atto essi avevano degnamente assolto in via definitiva al compito assunto quali monarchici nello interesse della Patria in nome del Re, che in quel momento, nella Augusta Persona di S.M. Umberto II, in qualità di Luogotenente, rinnovava la luminosa tradizione di Casa Savoia, imponendosi Egli al rispetto del Mondo per la sapienza di Re, la grandezza di spirito, il coraggio eroico, la serena superiorità con cui domina gli eventi; e per l'acuta valutazione di essi; consacrandosi così alla storia, con tutti i grandi della Sua Casa, la quale affonda nei secoli le radici della sua grandezza e nel percorso dei secoli, quali che fossero le vicende, le forze, gli eventi, è stata sempre là dove maggiore era l'interesse degli italiani e della vita delle nostre genti.

Questo è il moto e la partecipazione di un popolo, che per i motivi che lo determinano e il modo come si manifesta appartiene ai monarchici, come dovuto cioè ad uomini formati dalla monarchia alla sensibilità dei valori profondi ed essenziali, vissuti nella legge, che rendono unitaria la vita di popolo; appartiene ai monarchici anche se affiora qua e la qualche elemento, assumendo anche qualche compartecipazione di comando, e che in tempi successivi, si inquadra secondo una particolare posizione politica. Appartiene ai monarchici rer il glorioso episodio dei giovanissimi Illuminato, Formisano e Menichini che affrontano allo scoperto i carri armati, li colpiscono, li fermano, ma vengono poi colpiti e muoiono gloriosamente nella luce di una piazza di Napoli. Appartiene soprattutto ai monarchici per l'episodio sicuramente di guerra e che è il più complesso, il più importante e il più determinante episodio dei pur molti eroici fatti, delle Quattro Giornate: il combattimento della Pigna. Gli ostaggi sono ancora nel campo, i napoletani combattono e muoiono, i tedeschi cadono, fanno tentativi, sono perplessi, ma per essi è certamente risolutivo e rappresenta anche una riaffermazione di prestigio ed una certezza di riacquistato predominio, liberare gli uomini del capitano Ratchel che tengono prigionieri i cinquanta ostaggi nel campo sportivo del Vomero, assediati da pochi uomini al comando di uno degli improvvisi capi, il cap. Enzo Stimolo. Avviano perciò dalla strada che risale la collina dalla parte di Pozzuoli, una colonna di diciotto autoblinde, un carro armato e altri veicoli, colonna che avrebbe avuto facilmente ragione della ventina, o poco più, di uomini che asserragliavano il Campo Sportivo. Fu allora che nella località Pigna, sulla strada dalla quale proveniva la colonna, alle ore 20,30 circa, il comandante di un piccolo numero di uomini che precedentemente da un locale in sito, avevano prelevato una mitragliatrice, alcuni moschetti e sei bombe a mano, sentì irrompere una motocicletta tedesca, avanguardia della colonna, ed ecco, il comandante di questo gruppo di coraggiosi si ritira nel cortile del fabbricato de Gaudio. Il motociclista tedesco vede, lancia una bomba, si ferma, è affrontato dal comandante di questo gruppo e reso innocuo, poi il portone viene rinchiuso; il comandante dispone sul terrazzo del I piano la mitragliatrice e vi lascia due serventi, si porta sul terrazzo superiore, vede di infilata la strada fino alla prima curva, le camionette e le autoblinde avanzano, la mitragliatrice apre il fuoco, gli uomini della seconda terrazza anche, il nemico avverte numerose perdite, tentenna ma riprende ad avanzare, e qui si compie l'atto più eroico, coraggioso, militarmente perfetto e decisivo: il comandante sale sul parapetto del terrazzo, scoperto, esposto al tiro del nemico, e con audacia, tempestività, fermezza ammirevole, lancia le sue sei bombe a mano una dopo l'altra, mira e centra, una dopo l'altra sei autoblindo, che bloccano nella strada non larga, tutta la colonna e impediscono i tentativi di avanzata del carro armato. Il pericolo dello accerchiamento è sventato, l'attesa ripresa di prestigio e di dominio dei tedeschi è infranta, la vittoria è del glorioso manipolo e del prestigioso comandante, che è l'eroico tenente Giovanni Abbate, il nostro Abbate, il monarchico, fermissimo monarchico come fermissimo e deciso soldato; è Giovanni Abbate, che una proposta di medaglia d'oro indicherà alla storia e conserverà alla memoria dei napoletani, ed al quale noi abbiamo il piacere di potere rinnovare il nostro riconoscente, ammirato omaggio, poiché lo vedo, fedele come sempre, in questa sala.

Il testo della I parte si torva al seguente link
http://monarchicinrete.blogspot.it/2010/04/la-resistenza-monarchica-in-italia.html

sabato 24 aprile 2010

25 aprile e l’egemonia repubblicana

Porta a Porta di Bruno Vespa - Mercoledì 21 aprile 2010
Monarchici in Rete - Appello
24 aprile 2010

L'argomento era la Resistenza dimenticata dei soldati delle forze armate regolari. Fin qui tutto sembrava bellissimo e promettente no ? E invece… sono stati dolori !
Naturalmente tra gli invitati grande folla, …figurava il Ministro La Russa (su posizioni filo repubblichine), il Direttore dell'Istituto Gramsci (chiaramente filo comunista) e qualche giornalista, autori di libri sul tema, tra cui Arrigo Petacco ! Si sono aggiunti un Generale in pensione, figlio di un ufficiale dell’epoca che combatté nei balcani e testimoni in video conferenza fuori studio, risalenti al periodo interessato.
Tutti concordi tra le mille sfumature, che la riabilitazione di questi Eroi, era indispensabile e tutti hanno giustificato 60 anni di omertà sul tema ognuno tirando l’acqua al proprio mulino, e poi tutti naturalmente hanno scaricato sul governo Badoglio (e quindi sul Re... mai citato direttamente, neppure per errore) la mancanza di ordini all'8 settembre e tutte le altre falsità del caso.
Abbiamo avuto anche la sensazione che alcuni testimoni, così come l’ex Generale figlio di testimone ecc., avrebbero voluto aggiungere - forse - una parolina sul nostro Sovrano… ma evidentemente non era consentito/concordato, o non se la sono sentita di sopportare lo scontro che ne sarebbe poi derivato, e quindi …silenzio !
La resistenza "diversa" da quella comunista e celebrata da decenni, è stata dipinta soltanto come "spontanea", "liberale" e "cattolica" ...bianca insomma, nel vero senso della parola, neutra.
Nessuna parola per i fedeli al RE. Quelli continuano a non esistere... per loro l'oblio continua.
Nessuna parola neppure per il Principe Umberto che combatté da Montelungo alla liberazione di Bologna.
Anche Edgardo Sogno, brevemente citato in apertura di trasmissione, è stato definito un esponente della resistenza "Liberale", e con questo si dice tutto… La solita vergogna insomma che richiederebbe un'azione comune e decisa di nostri esponenti di spicco.
Perché ad esempio in studio di “Porta a Porta”, non vi era anche un rappresentante Monarchico ?
Ci chiediamo per fare una critica/proposta costruttiva, cosa ci staano a fare tante sigle e siglette monarchiche, se poi non si riesce a far sentire la nostra voce. Esiste addirittura un Coordinamento. Il Coordinamento Monarchico Italiano, …ma qual’ è il suo contributo ? Secondo noi, questo dovrebbe essere il suo contributo per essere utile alla causa.
Queste occasioni secondo noi, sono la materia che un tale coordinamento dovrebbe “lavorare” per giungere alla produzione di un prodotto finito accettabile.
Vogliamo spiegarci meglio. Le organizzazioni Monarchiche più importanti, hanno una loro struttura ed un loro obiettivo primario… facciamo degli esempi : Alleanza Monarchica si impegna da sempre nella politica attiva pur nella ristrettezza economica che la condiziona, L’UMI ha come missione, l’insegnamento di SM Umberto II di Savoia, la storia Patria e Sabauda, il Mov.Monarchico Italiano, persegue l’idea di infiltrare nella politica, persone di chiari sentimenti monarchici nei vari partiti, le Guardie d’Onore, hanno l’impegno di sorvegliare le tombe dei nostri Sovrani ecc. ecc. Chiaramente non tutti possono tutto, ed essere “presenti” sempre ed ovunque. Il Coordinamento, dovrebbe servire proprio a questo. Occorrerebbe un servizio di unione delle varie particolarità, per essere presenti, dove serve, quando serve, e con le persone meglio preparate sull’argomento da trattare.
A Porta a Porta dovevamo esserci anche noi.
Uno storico come Aldo Mola ad esempio, abbinato ad un politico quale il Sen. Fisichella, avrebbero potuto fare la loro buona figura. Nel caso non fossimo stati informati o invitati, la nostra protesta per voce del Coordinamento o delle varie associazioni Coordinate avrebbe dovuto librarsi fortissima, ed invece nulla.
Continuiamo a mancare agli appuntamenti importanti, mentre al contrario, troviamo tempo e denaro per i dissidi tra noi. Mi spiace, ma così non si va da nessuna parte !
Monarchici in Rete
24.04.2010

mercoledì 21 aprile 2010

La resistenza monarchica in Italia

Queste è il testo di una conferenza tenuta presso l'U.M.I. di Napoli nel 1978 dal Conte Francesco Garzilli. E' interessante l'analisi ed il ricordo di quegli avvenimenti che furono poi completamente monopolizzati dalla sinistra, come se la componente Nazionale e Monarchica non fosse esistita.
Nell'imminenza del 25 Aprile ne proponiamo la prima parte.
Buona lettura.

Quella complessa serie di movimenti, di iniziative, di azioni particolari e generali, personali e più o meno collettive che si determinarono, in contrasto con la situazione esistente, nei territori occupati dalle truppe tedesche, prende generalmente il nome di Resistenza; ma per poterla intendere con esattezza occorre distinguere e molto, caso da caso, luogo da luogo, iniziativa da iniziativa.




Infatti la situazione giuridica, politica e militare è, ad esempio in Francia, diversa che in Norvegia ed in Italia, così come nella stessa Italia il fenomeno è diverso, per condizioni di luoghi e di tempi tra il Nord ed il Sud. Qui prevale l'impeto generoso che poi si organizza spontaneamente e alla meglio a differenza del Nord, dove prevale la organizzazione ed il coordinamento politico e militare - più importante politicamente che militarmente - con le truppe anglo americane operanti nella nostra penisola. E questo complesso di movimento e di fatti, unificati sotto il nome di Resistenza, per potere essere inquadrato storicamente con esattezza, richiede che i singoli fatti siano valutati ed inquadrati nelle particolari singole situazioni, di luogo e di tempo, personali e politiche, con una indagine minuta, più che mai particolare ed il meno possibile generalizzata. Io ho sempre ritenuto, ed ho avuto modo di scriverlo, che se è vero che le sintesi vaste, realizzate sopratutto dalla acuta indagine degli storici maggiori, rendono evidenti i fenomeni e li fissano più nettamente e stabilmente; è altresì vero che tali sintesi fondano i loro pilastri sugli avvenimenti essenziali e vastamente collettivi che ricollegano ed interpretano secondo schemi di pensiero (liberale, marxista, idealistico, materialistico ecc.) nei quali mai per intero entra la vita vera dei popoli, la quale è così multiforme, così ricca di valori diversissimi, da fuoriuscire dai limiti che ogni schema necessariamente impone. Vorrei affermare che i fatti essenziali, che caratterizzano, nel grande quadro, i tempi e le persone, sono tutti e ciascuno la risultante, la manifestazione finale o la crisi, degli infiniti, piccoli e trascurati fatti della vita di ciascun cittadino e di ogni piccola comunità di persone e che pertanto iniziarne la conoscenza, l'esame, la valutazione e la critica fin dalla prima origine arricchisce grandemente di valori umani la storia e la fa più vera.

Tale indagine, mai come nel caso del complesso fenomeno della Resistenza, è particolarmente interessante e capace di arricchimento illuminante, e va fatto, anche perché sia onorato, ove è il caso, l'apporto individuale di sacrificio, di volontà e di offerta di chi dal solo colloquio con la propria coscienza, illuminata dal dovere e dall'amore verso la Patria, ha tratto motivo per un determinato comportamento o per una iniziativa che non mirasse solamente a risultati di parte ma fosse a carattere generale, volta cioè al bene di tutti e alla salvezza della Patria e dei suoi grandi valori e perciò fosse degna e capace di sacrificio. A questo proposito sorge un bisogno di verità e di giustizia che induce ad accertare l'apporto personale e di gruppo, più o meno organizzato o spontaneo che i monarchici hanno dato alla Resistenza. E quando diciamo monarchici noi intendiamo non soltanto coloro che tali si proclamavano, ma anche tutti coloro che tali erano e rimasero, e che, fuori da formazioni di parte, ovvero isolati in esse, partecipavano alla azione per quello impulso patriottico di cittadino, formato storicamente dalla monarchia al senso del dovere verso la comunità nazionale, dignitosamente padrone della propria individualità e della propria persona e capace peraltro di sentirla come partecipe di quella più alta unità e verità che è la Patria.

Dicevamo cittadini storicamente formati dalla Monarchia, e qui occorre sottolineare e chiarire.

L'Italia nella storia è stata per millenni divisa in più parti e le varie parti d'Italia non hanno vissuto o sopportato le medesime vicende, né hanno avuto il medesimo assetto: abbiamo avuto i Comuni, abbiamo avuto le Monarchie. Ora se voi vi soffermate ad osservare la condotta, gli impulsi, i comportamentí delle varie popolazioni delle varie zone d'Italia, voi avvertite come diverse esse siano e come la diversità di esse trovi particolare motivo di formazione nel sistema costituzionale amministrativo in cui hanno più lungamente vissuto. Si noterà, quanto alla spinta, all'elemento essenziale e fondamentale, che condiziona i vari sviluppi ed atteggiamenti, che nelle zone ove hanno prevalso i comuni è preminente l'elemento forza sullo elemento legge, il quale ultimo invece prevale nella mentalità e nella psicologia delle zone rette per secoli a Monarchia.

In realtà il potere nei Comuni viene assunto dalla fazione prevalente ed il prevalere era conseguenza della forza, anche se non assumeva sempre in partenza, aspetti e forme di violenza fisica ed anche se vi erano votazioni. La parte vincente poi esercitava normalmente il potere in modo da fare sentire il proprio peso all'altra parte, ritenendo del resto come diritto del più forte una maggiore partecipazione ai vantaggi del potere, ai quali appunto si mirava non essendovi motivi ideologici ma tuttalpiù, in qualche caso, motivi politici da sostenere o far prevalere, ed avendosi come unico vincolo, direi morale e generale, uguale per tutti, di mantenersi onesti; esercitare cioè la magistratura, gli uffici civili, con giustizia, la quale giustizia peraltro, nella psicologia del tempo, comune anche ai perdenti, teneva in sufficiente conto il maggior diritto della fazione vincente. Solo quando si verificavano continue e manifeste ingiustizie, tali da configurarsi e pesare come un vero e proprio sistema di oppressione, cominciava a coagularsi quello spirito generale, nel quale poteva prendere corpo, e utilizzarlo per manifestarsi, una diversa fazione, la quale peraltro è sempre alla forza e non al diritto che ricorreva per prevalere e proteggere i propri. E poi, pensate al fatto che, data la struttura comunale, la fazione vincente era essa a fare la legge ed essa stessa ad applicarla.

In quelle parti d'Italia, come il Piemonte e l'Italia Meridionale, rette invece per lunghissimi secoli a Monarchia noi, indagando, rileveremo che si radica nella generalità dei cittadini il principio della legge. E' la legge non la forza l'elemento prevalente e fondamentale che condiziona ogni sviluppo ed ogni atteggiamento sia particolare dell'individuo, che dei gruppi. E ciò avviene perché mentre nel Comune noi abbiamo un vinto ed un vincitore, il che divide il popolo in due parti; nelle Monarchie non esiste questo conflitto ed il popolo vive in unità, cioè non vi è una parte vinta rispetto a chi esercita i pubblici poteri; è tutto il popolo unitariamente che vive e lavora - anche se cambiano con le guerre le dinastie, il sistema rimane estraneo - ed ogni contrasto è sempre tra individuo e individuo o tra entità ed individuo o tra entità ed entità pubbliche (feudi e comuni ad esempio) e ciò perché il Monarca è al di fuori e al disopra della. competizione dei sudditi tra loro. Lo è non in una generica affermazione o formulazione teorica, affidata perciò alla maggiore capacità o moralità dell'individuo, ma lo è nello ordinamento, nella struttura stessa dello Stato. Infatti l'ordinamento non si sviluppa su due pilastri come nel Comune ma su tre. Sul medesimo territorio convivevano due poteri, quello del feudo e quello del Comune. Quello del feudo è esercitato dal barone, al quale dal potere regio - che è totale - vengono delegati alcuni poteri circa i primi e più semplici gradi dell'esercizio della giustizia (qualcosa tra il Conciliatore ed in poca parte il Pretore di oggi), circa il mantenimento dell'ordine, il controllo delle acque, la percezione di alcune imposte ed altri poteri amministrativi che, in parte, ancora oggi sono considerati separati dall'attività e dalla competenza dell'amministrazione comunale e che vengono, affidati al Sindaco non come capo della civica amministrazione ma come Ufficiale di governo poiché nel Sindaco la legge riconosce questa duplice figura e funzione. E questi poteri erano esercitati dal feudatario non soltanto sotto il controllo massimo del Re, bensì nell'ambito delle leggi emanate preventivamente dal Re, nonché nei limiti dei « capitoli », i quali variavano da accordo ad accordo, che ciascun feudatario firmava con l'amministrazione comunale (le Università) e si impegnava, con atto notarile, ad osservare; ed in definitiva, sotto il controllo dei vari tribunali centrali - estranei ai feudatari ed ai Comuni - tribunali ai quali ricorrevano, a seconda della competenza, i singoli cittadini che avessero da far valere un diritto. Sul medesimo territorio esercitava i poteri propri la civica amministrazione, i cui componenti erano eletti secondo le leggi e con suffragio, che chiameremo universale, poiché votavano tutti i capi famiglia, amministrazioni che provvederanno al mantenimento delle strade, dei servizi, della annona, alla percezione di alcune gabelle, ai mercati, a tutto quanto cioè fosse di interesse della cittadinanza. In una articolazione dello Stato quale quella accennata, il conflitto non era mai diretto tra l'individuo ed il potere, centrale dello Stato come nei Comuni, ma il cittadino faceva valere ogni sua eventuale pretesa - che non fosse strettamente privatistica per la quale vi erano gli appositi tribunali come peraltro anche in altri ordinamenti - nell'ambito della Comunità Comunale o presso il Feudatario o contro la prima o contro il secondo trovando sempre possibilità di tutela in appositi tribunali estranei alla parte, alla fazione, e al disopra dei quali era il Re, reso anche esso, comunque estraneo alle parti contendenti, dalla stessa struttura statale, e perciò più libero nell'esercizio dei suoi poteri di controllo, di esercizio e di finale giustizia. Tra le popolazioni rurali del Mezzogiorno d'Italia quando una persona è arrestata si usa dire « venne la legge e lo prese ». Il Carabiniere è la legge; mentre in zone dove prevale storicamente l'ordinamento politico comunale dicono: venne la forza e lo portò via. Qui il Carabiniere è la forza.

Educate e vissute per secoli in questa struttura monarchica le popolazioni del Mezzogiorno e del Piemonte hanno recepito lentamente quello accumulo, lento, quasi come un fenomeno geologico (il carbone che diventa diamante) - di certezze, di convinzioni, di comportamento che fanno il singolo più profondamente cittadino, sensibile ai valori collettivi di tutto il popolo e fermo nella convinzione che a garantire il meglio sia il Monarca, nel quale identificano, semplificando, tutto il sistema che meglio li garantisce. Questo sistema equilibrato, e funzionante, la Monarchia e solo la Monarchia consente che sia tale, per il carattere ereditario e quella successione automatica, che rende la persona del Sovrano, oltre che dedita e formata allo esercizio degli alti compiti cui deve assolvere, immune da contatti, attività, solidarietà e impegni opinabili, che sono nel corso della vita di chiunque; che lo rende altresì libero dalla necessità di accordi tra gruppi politici, transazioni, intese a concessioni, che ne limiterebbero sicuramente il prestigio e la possibilità di adempiere con la autorità necessaria ai propri alti compiti, cosa che avviene invece per un Presidente di Repubblica, il quale inoltre, risultando da una maggioranza, sarà sempre psicologicamente non proprio per il cittadino che a quella maggioranza non appartiene.

I vantaggi formativi del sistema Monarchico, unitario e articolato insieme, permanendo per così lungo periodo di secoli, esercitarono il loro benefico influsso anche al di là dei confini e delle popolazioni rette da quel sistema, concorrendo ad integrare la formazione di parte, dovuta all'altro diverso sistema politico e, pur rappresentando tali vantaggi formativi piccola parte nella complessa psicologia di quelle popolazioni, furono tuttavia la componente unificante che prevalse con la unità di Italia e concorse alla salda formazione di quegli italiani auspicati dal Cavour unificati monarchicamente in un secolo di vita unitaria in un sistema monarchico sapientemente articolato, idoneo anche alle nuove esigenze di sviluppo, e sotto la guida e l'esempio luminoso di gigantesche figure di Sovrani Sabaudí.

Ora, amici, educati da così lungo, costante e vissuto tirocinio ad essere cittadini, nel modo più alto e più partecipe, in profondità, i monarchici hanno connaturato il senso dello Stato e sentono profondamente la Patria della quale peraltro vedono nel Re assommarsi, alla totalità del presente, tutti i valori, i sacrifici, le glorie e le conquiste dei secoli del proprio passato. Tutto ciò nella Monarchia avvertono raccolto e continuato, senza traumi e senza involuzioni, bensì sempre più rafforzante la unità del popolo e la sua capacità di progresso, immune da dispersioni. E per questo che essi sono i più pieni e disinteressati servitori della Patria, ossia dei più alti valori ed interessi del popolo.

Con questo spirito uniforme i monarchici partecipano a quel complesso di fatti di cui si diceva e che si indicano come «Resistenza». Essi pertanto non conoscono rappresaglie personali o di parte da eseguire vilmente in periodo di incertezza e di confusione; non conoscono assassinii a scopo personale o per determinare il terrore tra le popolazioni civili allo scopo di predisporsi una situazione, nella quale poter prevalere senza contrasti, al momento finale, per imporsi come rappresentanti veri ed unici di un popolo che dovrà accettarli perché terrorizzato; non conoscono l'assassinio di propri commilitoni fatto seguire poi dallo assassinio delle mogli dei trucidati, per impedirne le ricerche; non conoscono forme di violenza che si pongono, quali che siano le circostanze di tempo e di luogo, sempre fuori dalla umanità e vanno, in nome di questa, deprecati; essi, i monarchici, combattono, sia pure coi mezzi della clandestinità, col massimo rispetto possibile delle leggi dell'umanità e dell'onore.

Si potrebbe a questo punto osservare che per rendere sempre meno dura e dolorosa la guerra e per circoscriverla solamente a quanti sono apertamente e militarmente impegnati in essa, sono oramai codificati internazionalmente alcune norme di condotta, come il rispetto del prigioniero, l'obbligo di assistenza al ferito, il seppellimento dei Cadaveri e, tante altre norme tra le quali - riguardano quanto andiamo dicendo quelle che stabiliscono il rispetto dovuto dall'occupatore alla popolazione civile, nonché, in contropartita, il dovere della popolazione civile di rispettare l'esercito occupatore; il mantenimento delle autorità amministrative dei paesi occupati e la collaborazione con esse, nei limiti del possibile, delle autorità militari occupanti; e così sono convenute internazionalmente altre norme che possono apparire in contrasto con la legittimità, sia pure solamente morale, di una attività clandestina e contraria a tali norme, da parte di cittadini ligi e, come tali, seriamente formati, quali noi dicevamo essere sicuramente i monarchici.

Qui noi siamo profondamente convinti, che questa legittimità esiste, anche se essa non consente quelle azioni a carattere terroristico che non si sa, o a volte si sa perfettamente, se non siano più a danno della popolazione civile o a danno delle truppe occupanti, azioni queste sconosciute, come si diceva, certamente ai monarchici. La nostra convinzione trae motivo dalla situazione italiana. In Italia non abbiamo un paese occupato dal nemico (il Tedesco) ma un paese dove su parte del territorio, il Tedesco, precedentemente alleato, è rimasto apparentemente come tale ma sostanzialmente come nemico e come nemico esacerbato per la nuova situazione a lui fatta: situazione che egli chiama tradimento, perché non riesce ancora a percepire che le sorti della guerra sono chiaramente rivolte contro di lui e che dinanzi a situazioni totali e quando è in giuoco, non la vita di un singolo, ma la vita di tutto un popolo, l'insistere caparbiamente ancora, non è giustificato da ragioni di orgoglio o di onore o di lealtà verso alcuno ma è piuttosto frutto di una determinazione politica feroce, contro il proprio popolo stesso, determinazione fredda che vedendo, con la perdita dell'obiettivo postosi, crollare anche le sorti di una parte, le sorti di una particolare visione politica - errata o meno non importa - di una classe dirigente, di un partito, non ha presente, che la vita del popolo e della Patria deve continuare e non può non continuare, ed occorre perciò chiudere onorevolmente la partita perduta, non tanto per chi politicamente ha il peso del comando ma per l'intero Paese, con tutta la sua gente e con tutta la sua storia, così come possono costituzionalmente fare, come hanno il dovere di fare e come fanno i Re.

In questo stato d'animo e con le spinte particolari del carattere germanico, le inframmettenze, le pressioni, gli sconfinamenti, le interpretazioni di una ancora esistente formale alleanza nelle zone occupate d'Italia, creavano diffuse e generalizzate infrazioni a quel rispetto fondamentale dell'uomo e delle popolazioni, che si vuole garantire con le norme internazionali a cui abbiamo accennato. Esempio: l'arresto e la deportazione degli ebrei che pur erano cittadini italiani, facenti cioè parte della popolazione civile; il reclutamento violento degli uomini per condurli fuori dalla Patria o anche in Patria a lavorare per supporto alle azioni belliche; la diretta esecuzione di tali ordini con intervento e soppressione fisica fatta dalle truppe occupanti contro chi a tali obblighi, illeciti, si sottraeva; aggiungendosi altresì alla illiceità della chiamata la illecita sostituzione alle autorità italiane, che pur se avevano sottoscritto a volte ordini del genere era chiaro che non di collaborazione si trattasse ma di minacciosa imposizione; a questi comportamenti generalizzati altri ancora possono aggiungersi. Riteniamo che siano limpidamente sufficienti tali motivi a giustificare e fare degna la resistenza e trovare logica la partecipazione ad essa dei monarchici. E ciò senza riferirsi alle rappresaglie le quali sono internazionalmente previste, entro determinati limiti, come contromisura alle azioni proditorie contro i militari, effettuate da civili.

Fu quindi piena e legittima e da cittadini che avvertivano l'interesse generale del Paese, la partecipazione alla Resistenza da parte dei monarchici e nulla toglie che monarchici vi fossero anche dall'altra parte, poiché, uomini di onore anche essi erano, e adempivano al proprio dovere in una diversa situazione che in un frangente grave, quale quello in cui vivevano, rendeva ugualmente pericolosa ed ardua la loro condotta, volta a mantenere il carattere italiano del territorio, la sua massima integrità possibile, il minore depauperamento possibile delle strutture industriali e dei beni nazionali, ed a dar tempo, vorrei sottolineare, che l'ex alleato e reale taglieggiatore, si rendesse storicamente conto che l'Italia, non aveva abbandonato una guerra, volgendola in sconfitta, ma rivelandosi più sensibile agli eventi e libera nella valutazione, aveva percepito che la sconfitta era in atto e che perciò andava abbandonata una guerra diventata senza speranze e senza più obiettivi, per evitare altre inutili distruzioni e lutti e ottenere il meglio che fosse possibile al popolo, così come possono fare le Monarchie

cioè eliminando - indipendentemente dalla esistenza o meno di colpe - la situazione politica che aveva condotto la guerra; cosa che non poteva fare e non fece un Fhurer il quale era parte viva di quella situazione politica e non aveva in sé i valori e la posizione che stabiliscono la continuità di vita dello Stato, così come invece è peculiare del Monarca costituzionale al quale particolarmente fanno capo l'Esercito, la Magistratura e tutti i poteri estranei al potere politico il quale rimane, in questi casi, il solo soccombente.

Siamo pertanto certi che la partecipazione dei monarchici alla resistenza fu giusta, cioè non contraria alla loro formazione di cittadini ed al loro dovere; che questo fatto non esclude dalla nostra considerazione e non mortifica chi in altra diversa situazione si comportò da italiano e da monarchico; che i monarchici mirarono sempre a fini nazionali riguardanti tutto il popolo e non una parte sola di esso; che il loro apporto non fu ideologico ma nazionale onde l'anelito di libertà non aveva valore generico ed intellettualistico ma si legava strettamente alla vita della comunità nazionale concretandosi così in una realtà certa. Passiamo ora brevemente a vederli operare nella resistenza.

Viene indicato come Resistenza, lo abbiamo detto prima, quel complesso di azioni e di fatti posti in essere dai civili contro il nemico occupante ed abbiamo anche detto con quale mentalità e con quale spirito i monarchici parteciparono alla resistenza. Approfondiamo e precisiamo meglio la conoscenza di questo vario complesso di fatti che è la Resistenza.

Un primo accenno alla partecipazione dei civili, riuniti in bande lo si ha in una lettera del 21 giugno 1942 di Winston Churchill a Stalin nella quale si compiace dell'azione dell'esercito russo e dei partigiani in territorio Russo. Qui sono civili russi riuniti in bande organiche che agiscono su territorio Russo esclusivamente contro l'esercito tedesco invasore e non contro le autorità civili del territorio e quindi «partigiani» perché partecipano, prendono parte, alla guerra, in supporto alle proprie forze armate, sul proprio territorio e servono a rafforzare numericamente l'esercito, nonché a dare ad esso elementi locali con maggiore conoscenza dei luoghi e con possibilità di operare e di sparire, certamente più facilmente di quanto non possa una armata in campo. Bande idonee alle azioni saltuarie di disturbo e note alla popolazione, nella quale non hanno motivi politici per determinare il terrore; e non so, ma non escludo che concorrendo tutte queste circostanze, potessero essere anche regolarmente mobilitati come militari regolari e forniti di qualche distintivo accettabile come uniforme, cosa che se fosse, escluderebbe anche la infrazione alle norme internazionali; infrazione peraltro discutibile in questo caso, anche perché, esse come sembra, operavano sulla linea del fronte come truppe operanti contro truppe operanti.

Negli altri paesi come la Norvegia, il Belgio, l'Olanda, la Francia ecc. la questione è diversa. In questi paesi abbiamo la occupazione da parte del tedesco e quanti si aggruppano in bande o divisioni o quale che sia il nome che assumono, non operano sulla linea del fuoco accanto a truppe operanti contro truppe operanti, ma con episodi sporadici e saltuari, ripetuti in vari luoghi e modi, mirano a creare situazioni di preoccupazione, di difficoltà e di paura nell'occupatore quando non cercano di terrorizzare anche la popolazione. Accenniamo cosi sommariamente, per grossi schemi e senza approfondire, anche per questi paesi, la peculiarità di ciascun movimento ed in ciascun movimento nazionale le varietà del suo manifestarsi. Ricorderemo perciò che in Norvegia, si trattò di gruppi limitati che rappresentano piuttosto gruppi di azione, tipo spionaggio, i quali collegati con i propri concittadini all'estero e presso il comando Alleato di Londra, eseguiranno alcune operazioni di sabotaggio di primaria importanza e molto influenti ai fini della condotta di tutta la guerra. In Francia ha un posto che potremmo chiamare di onore l'attività di sabotaggio dei ferrovieri, i quali fortemente uniti da spirito nazionale, svolsero una azione pressoché continua, per ritardare treni, deviarne il percorso, avviarli su linee pericolose complicando, in maniera molto influente alla condotta della guerra, il trasporto dei materiali bellici tedeschi. E ciò non fu senza pericolo poiché molte e varie furono le vittime tra gli agenti delle ferrovie, sospettati o scoperti. I ferrovieri francesi, occorre anche notare, evitarono sempre azioni dirette contro le persone e cercarono di ridurre al minimo le vittime umane. Ma la situazione di paese occupato non è esattamente quella dell'Italia, dove come abbiamo precedentemente visto, le truppe alleate erano rimaste solamente su parte del territorio, con quello stato d'animo e quella tendenza a sconfinamenti nei rapporti con gli italiani, sconfinamento che, come abbiamo visto, li ponevano sostanzialmente e generalmente fuori dalle norme internazionali di rispetto tra esercito occupatore e popolazione civile del paese occupato. Per tali motivi divenivano lecite le iniziative contro questo occupatore sui generis, che occupatore non era, ma alleato nemmeno era, tuttavia si serviva di questa qualifica per alterare la condotta di occupatore, ma contemporaneamente alterava il comportamento di alleato con una inframmettezza e con delle iniziative le quali, per essere fuori da quelle e da queste norme, divenivano esclusivamente atti di violenza a volte esasperati fino alla ferocia. Vogliamo vedere ora il vario manifestarsi della Resistenza e il grande apporto dato volta a volta dai monarchici e troviamo subito Napoli, la nostra Napoli, preceduta, come fatto parziale ma dovuto allo stesso spirito, da Matera, dove le truppe in ritirata, uccidono civili, minano edifici, prendono ostaggi, saccheggiano. Da un episodio di saccheggio il 21 settembre 1943 prende il via a Matera l'indignazione popolare e vengono uccisi due tedeschi che portavano via la loro preda da una oreficeria; e la voce passa, è raccolta, è riecheggiata, le armi vengono fuori dalle case e da qualche centro militare sguarnito, e vengono usate; si cerca di impedire la soppressione di ostaggi, le ulteriori uccisioni, e per tutta una giornata Matera è in agitato e preoccupato impegno per sostenere la situazione da cui viene fuori il giorno successivo con l'arrivo dei reparti Canadesi avanzanti.

A Napoli dunque il 27 settembre 1943 prendono avvio quelle che si indicheranno luminosamente nella storia come le Quattro Giornate di Napoli, per ricordare ancora una volta come sia vivo e presente il popolo di Napoli nei momenti gravi della storia, e pronto a compiere ogni più eroica offerta. A Napoli non si insorge perché nessun piano è predisposto; nessuno ha lanciato fili o tessuto reti più o meno convincenti, o ricattatorie di singoli, come a volte altrove è avvenuto; nessuno ha predisposto armi; nessuno ha predisposto agguati proditori, nessuno è inconsapevole che la guerra comporta un peso anche doloroso e di sangue. Ma un vecchio popolo che ha in se il senso del giusto e dell'ingiusto ed il senso dell'umano, stratificatosi lentamente e nobilmente nei millenni a formarne lo spirito, di fronte a certi fatti che avverte come ingiusti o antiumani, sente spontanea la ribellione che si manifesta uguale e contemporaneamente in tutti ed in ciascuno, e si manifesta in spontanea unitarietà con la veemenza della indignazione e con la travolgenza di una vera, vissuta e sentita unità di popolo. E questo fu il caso di Napoli, cui vennero dopo, armi e capi, ovunque cercate le prime, spontaneamente manifestatisi nei frangenti del pericolo, i secondi. Furono quindi dei cittadini monarchicamente ligi alla legge e fedeli alla solidarietà di popolo in un momento grave della Patria che assunsero una posizione nuova e di battaglia proprio per riempire il vuoto, colmare il trauma, determinato da quella mancanza di rispetto alla popolazíone civile ed alle norme internazionali che le proteggono, mancanza di rispetto da parte delle truppe germaniche, prima con il reclutamento forzato e poi con la razzia per la deportazione dei giovani e degli uomini. Non era permesso, non era dovuto e perciò risultava solamente come antiumano e spregiativo, e l'anima e il cuore di Napoli allora si rifiuta, si ribella e combatte. Si difendono al Vomero alcuni giovani razziati e ad essi si uniscono altri e nel conflitto trovano la morte alcuni soldati germanici. Scatta la reazione, accorrono altri tedeschi, cinque giovani vengono fucilati sul posto e cinquanta vengono chiusi come ostaggi nel campo sportivo del Vomero; allora la città tutta sa, informata, palpita in un palpito solo e l'impeto generoso di ribellione unisce gente di tutti i ceti sociali, di ogni provenienza, di ogni livello e si manifestano i primi Capi che prenderanno contatto tra loro e cercheranno di dare una organizzazione e un obiettivo, sia pure variabile caso per caso, una almeno elementare strategia all'impeto grande e generoso, che aveva la grandezza di una offerta ma che rimanendo tale non avrebbe lasciato sperare in nulla di concreto e di protettivo.

Il testo  della II parte si trova al seguente link.

http://monarchicinrete.blogspot.it/2010/04/la-resistenza-monarchica-in-italia-ii.html