NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 9 febbraio 2011

MESSAGGIO A ZARA

Allo scoppio della Grande Guerra Gabriele D'annunzio chiese ed ottenne di essere richiamato in servizio e fu assegnato ai Lancieri di Novara con il grado di capitano.
Fin da subito portò il suo estro al servizio di azioni di propaganda  con voli, quanto mai rischiosi, sulle terre irredente di Trieste, di Trento.
Nel Dicembre 1915, Gabriele D'Annunzio aveva progettato un volo su Zara, la città italiana sulla costa Dalmata, insieme all'eroico Giuseppe Miraglia, Tenente di Vascello della Regia Marina che però morì in un incidente aereo a Venezia poco prima che l'impresa prendesse corpo. Questo convinse i comandi militari a sospendere l'azione.
Per il volo D'Annunzio aveva scritto un messaggio destinato alla città.
Ne riportiamo il testo in omaggio al Vate, al suo sfortunato compagno Giuseppe Miraglia e soprattutto nella memoria del 10 Febbraio, giorno di  lutto e ricordo dei fratelli italiani infoibati e scacciati dalle terre di Istria, Fiume e Dalmazia.

Noi non dimentichiamo.
MESSAGGIO A ZARA
23 dicembre 1915


Zara, Zara la santa, Zara l'invitta, questo è un messaggio d'Italia avvolto nel tricolore.
Eccoti la buona novella che aspetti, eccoti la parola invocata dalla tua passione.
La prima volta che su te volano ali italiane, ali armate in guerra, ali della nostra guerra, partite dall'altra sponda, venute a te di sopra l'Adriatico, di sopra le tue isole e i tuoi canali, per portarti il conforto della Patria, per dirti che oggi non sei più sola, che più non sei abbandonata, che come Trento e Trieste sei tutta viva nel cuore nuovo d'Italia. Siamo apparsi nel tuo cielo per annunziarti che il giorno primo di dicembre, in Roma, nella solenne assemblea nazionale fu dichiarato il proposito fermo di riscattare tutte le genti di nostra razza che da lunghi anni sostengono una lotta disuguale contro la subdola e pervicace opera  di oppressione e di soppressione proseguita dal governo austriaco.

Chi più di te fu coraggiosa e costante, fidente e disperata, nella lotta d'ogni giorno? Noi lo sappiamo. Noi ce ne ricordiamo. Il popolo di Zara, solo contro tutti, negletto dalla Madre e senza lamento contro la Madre, ha salvato il comune italiano, ha preservato la figura della nostra più antica dignità. Nella Dalmazia latina da schiatte barbariche iniquamente invasa e usurpata col favore imperiale, il popolo di Zara ha salvato e confermato il glorioso comune italiano, ha mantenuto nel suo pugno il fermento della nostra più antica libertà.
Non v'è per te lode assai alta, non v'è corona assai chiara per te, per il premio dei tuoi fatti. Queste parole che ti gettiamo dovrebbero essere un canto perché solo il canto è degno di avvicinarsi alla tua virtù e al tuo martirio.
Nel giorno dei morti, in quella grande Aquileia piena di Roma e di Cristo, donde venne a te translatato il corpo di Crisogono tuo patrono antichissimo, taluno dichiarò ai soldati in ginocchio i versetti d'un nuovo salmo.
Diceva nel salmo la voce dell'Italia potente :
« Mie tutte le città del mio linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia. Mando segni e portenti in mezzo ad esse.
Ma in Zara è la forza del mio cuore; su la Porta Marina sta la mia fede, e in Santa Anastasia arde il mio voto. Grida, o Porta! Ruggi, o Città, coi tuoi Leoni!
A te darò la stella mattutina. A te verrò, e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi stendardi. Li spiegherò nel vento di levante. O mare, non mi rendere i miei morti, né le mie navi. Rendimi la gloria.
E allora udita fu dall'alto una voce senza carne, che diceva : - Beati i morti. - Fu intesa una voce annunziare : - Beati quelli che per te morranno.
I soldati piangevano inginocchiati tra le fresche tombe più venerande delle arche romane. E Trieste era prossima, così che ci pareva di sentire il suo soffio doloroso passare sul Golfo e alitare nel nostro sepolcreto di zolle. Ma in quel punto tu, sorella leonina, tu eri anche più presso, tu che non udivi il tuono dei nostri mortai, tu che non vedevi nella notte le nostre lunghe barre di fuoco spinte sempre più avanti, né forse indovinavi di sotto alle menzogne croate l'impeto della nostra conquista.
Ora sai che per te si combatte e per te si vince. L'Isonzo è ridivenuto un bel fiume d'Italia. Gorizia è già perduta pel nemico. Il Carso è pel nemico un inferno senza scampo.
Il tuo popolo vecchio « santa intrada » chiamò l'ingresso dei magistrati veneziani. Ora attendi con certezza una entrata più santa quella del nostro Re, vero tra i re soldato, e tra i soldati primissimo. Le tue donne possono cucire in segreto il tricolore, come fecero alla vigilia della giornata di Lissa. Altra forza, altra volontà, altro destino. Quel tricolore ondeggerà al vento della primavera ventura, insieme con gli stendardi di San Marco dissepolti.
Noi veniamo da Venezia. Siamo partiti su l'alba da quella Venezia a cui ti assomigli. Mentre a volo respiriamo la tua anima stessa che inarcata fa sopra le tue mura il tuo cielo veneziano, mentre scendiamo verso di te per meglio guardarti, per meglio riconoscere nel tuo viso il viso materno, i nostri compagni portano ghirlande votive alla tua imagine di pietra scolpita nella base di Santa Maria del Giglio, dove dorme quel Duodo che comandò le sei galeazze vittoriose accanto alle tue quattordici nelle acque di Lepanto. E altri nostri compagni nell'ora medesima sospendono una corona di bronzo al sepolcro di un tuo figlio morto d'ambascia per i tuoi dolori, alla tomba romana di Arturo Colautti «vate e martire della gente dalmatica imperterrito incorrotto», promettendoti «la traslazione prossima dell'esule corpo alla spiaggia natale, restituita nella grazia di Roma ».
Se quel corpo che tanto soffri ti fosse conservato per virtù di miracolo, tu gli riconosceresti le cicatrici lasciategli dalle sciabole austriache che lo tagliarono all'improvviso in un agguato notturno, sette contro uno, per punirlo d'aver imposto il marchio potente del suo dispregio sul ceffo dei vigliacchi.
O Zara, che sei tuttora quale fosti per Antonio Barbaro scolpita nel bassorilievo di Santa Maria del Giglio, simile a un'ala di guerra come la nostra, ben costruita, a un'ala d'Italia sul mare, o Zara di Nicolò Trigari, Zara di Luigi Ziliotto, rocca di fede, per gli stendardi sepolti nel tuo Duomo consacrato sotto il vocabolo della Resurrezione, per 1'arco Romano che afforza la tua Porta Marina, per le tre absidi del tuo San Crisogono che sembra da angeli toscani alla tua Riva Vecchia trasportato di Lucchesia, per le vere dei tuoi cinque pozzi dove l'ombra di Alvise Grimani ancor beve, per l'arca regale del tuo San Simeone battuta in argento dal maestro lombardo, per tutta la tua grazia veneta, per tutta la tua bellezza italiana, credi nella promessa, credi nella gioia della seconda primavera, quando fiorirà l'acanto corintio della tua colonna latina e i tuoi Leoni di sopra le tue porte fremeranno alla «santa entrata».
Vivere vorrebbe fino a quel giorno ed essere degno di cantare la tua coronazione chi oggi dall'alto ha sentito battere più forte del rombo il tuo gran cuore d'eroina.
Nel cielo della Patria, 23 dicembre 1915.

GABRIELE D'ANNUNZIO

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