NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 9 novembre 2011

EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA “TESTA DI FERRO”

(1528-1580)
di Gianluigi CHIASEROTTI

Nell’accingerci a tracciare una biografia di Emanuele Filiberto di Savoia, detto “Testa di Ferro”, è utile quindi necessario svolgere o tantomeno cercare di svolgere un quadro introduttivo sul periodo che prendiamo in esame, cioè dal 1528 al 1580 relativamente al Duca di Savoia, ma complessivamente per i sostanziali e non poco fondamentali mutamenti europei del periodo rinascimentale; anche perché l’importanza storica del Savoia non è solo per la rifondazione dello Stato Sabaudo, ma anche e soprattutto per la politica europea del secolo XVI.
Dopo codesto analitico e molto sintetico “excursus” si darà un breve cenno al Duca Carlo III, padre del Nostro, che rispecchia anch’egli l’evoluzione del tempo, con poscia la susseguente riscossa morale, bellica e politica della personalità del “Testa di Ferro”.
Il Rinascimento è, indubbiamente, un secolo di svariate riforme sia civili, sia militari, sia che religiose. Vediamole.
La riforma protestante di Martin Lutero (1483-1546); lo scisma c. d. “d’Occidente” provocato dall’allora Re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor (1491-1547) per sposare Anna Bolena (1507-1536) [lo scisma si ebbe in quanto il Papa non volle concedere l’annullamento al matrimonio tra il Re e  Caterina d’Aragona (1485-1530); matrimonio per il quale c’era di già dovuto l’intervento papale in quanto costoro erano cognati]; la controriforma cattolica – artefici della quale furono i gesuiti con il loro fondatore: Sant’Ignazio de Loyola (1491-1556); la nascita del pontificio Tribunale dell’Inquisizione; il Concilio di Trento; la controriforma in Italia ed in Spagna; l’ascesa al trono di un “astro illuminato” come Filippo II d’Absburgo (1527-1598); e, da ultimo, la Battaglia di Lepanto, alla quale si darà un brevissimo ricordo.
In questo quadro sommario perché vasto, si deve anche inserire il fattore principale e portante di tutto il secolo: e cioè la lotta per il dominio sull’Italia delle maggiori potenze europee. Lotta che possiamo dividere in tre ampie fasi, e precisamente:
a)                               prima fase (1494-1516) – contraddistinta dagli sforzi della Francia al fine di imporre la propria egemonia sull’Italia, in conflitto con l’Impero, la Spagna, la Confederazione Elvetica e Venezia. Fase che si chiude lasciando insediate la Francia a Milano e la Spagna a Napoli –
b)                               seconda fase (1516-1530) – aperta dalla ascesa di Carlo V (1500-1558) ai troni di Spagna e del Sacro Romano Impero, è contraddistinta dagli sforzi della Francia per reagire all’accerchiamento politico da parte degli Absburgo e termina con la vittoria dello stesso Carlo V e lo stabilirsi dell’egemonia absburgica sull’Italia –
c)                               terza fase (1530-1559) – contraddistinta dall’allargarsi del conflitto dall’Italia all’Europa intera e dall’ingresso nella lotta per l’Italia di nuovi fattori, come l’impero Ottomano ed i principi luterani della Germania e si conclude con la riaffermazione del predominio spagnolo sull’Italia e la divisione delle due corone della Spagna e dell’Impero.
Culmine e quindi definitiva fu la pace di Cateau-Cambresis (1559) tra i francesi e gli spagnoli, dalla quale – per quello che ci interessa – venne restituito, come vedremo in dettaglio, il Ducato di Savoia ad Emanuele Filiberto.
Un accenno a Carlo III di Savoia, padre del Nostro.
Seppur non sprovvisto di intelligenza e desideroso di affermare la sua volontà, Carlo III (1486-1553) ebbe la sfortuna di guidare lo Stato nel periodo più calamitoso delle lotte tra Francia e Spagna. Il Duca cercò di appoggiarsi al cognato Carlo V [in quanto il di lui fratello Filiberto II di Savoia (1480-1504) aveva sposato, in seconde nozze, Margherita d’Austria (1480-1530)], dal quale ebbe in dono la contea di Asti (1530), dono destinato a creare una rottura irreparabile fra la Savoia e la Francia. Quindi Francesco I (1494-1547), re di Francia, per rappresaglia (1536), iniziò l’occupazione degli stati sabaudi, i quali divennero d’ora in poi campo di lotta degli eserciti spagnolo e francese, mentre il Duca Carlo III rimase con Nizza e qualche altra terra piemontese.
Dalla consorte Beatrice del Portogallo (+1538), il Duca ebbe nove figli, dei quali il terzogenito fu Emanuele Filiberto.
Emanuele Filiberto, decimo Duca di Savoia [il primo fu Amedeo VIII (1383-1451), al quale l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437), re di Ungheria e di Boemia, imperatore del Sacro Romano Impero, (1416) elevò la contea in Ducato], nacque in quel di Chambéry il giorno 8 luglio 1528.
Emanuele ebbe, da bambino, scarso vigore fisico; debole e delicato come era fu destinato alla carriera ecclesiastica.
Della prima giovinezza del Duca si sa ben poco; nel 1530 fu portato in Bologna e presentato al papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1478-1534). La sua educazione si svolse in Italia e la si adeguò ai modi ed agli spiriti italiani. Fu poi tenuto per cinque anni in Torino; poi un anno tra Vercelli e Milano (1536), quindi, per sette anni, con la madre in quel di Nizza.
Ma ecco la svolta della vita di Emanuele Filiberto. Nel 1535 morì il fratello maggiore Ludovico (1523-1536) ed Emanuele divenne principe ereditario e la di lui educazione, nella quale ebbe parte rilevante la madre, fu affidata ad Aimone di Ginevra, Barone di Lullin e per le lettere a Giacomo Bosio, storico dell’Ordine di Malta.
Gli esercizi ginnici e la vita militare valsero ad irrobustirne il corpo debole, mentre lo studio ne rinvigorì lo spirito con una buona cultura storica, matematica e scientifica.
Gli avvenimenti della sua giovinezza, la lotta tra Francia e Spagna che tormentò lo Stato Sabaudo ed il debole governo del padre portando il tutto alla rovina, esercitarono – come si diceva poc’anzi – una grande influenza sulla formazione dell’animo di Emanuele Filiberto. Morta la madre (1538) egli vide ancor di più il padre ridotto in miseria e privato dei suoi domini. Riuscite alquanto vane le proteste, il Duca di Savoia, cresciuto nella sventura e nutrito di tante vane speranze nonché esperienze, prese la drastica risoluzione di mettersi dalla parte imperiale. Appena diciassettenne, assunto quale sua divisa il motto “spoliatis arma supersunt”, si recò in Worms al fine di essere preso da Carlo V al di lui servizio e svolse la sua brillante carriera militare nel corso di dodici anni, e precisamente dal 1547 al 1559.
Emanuele Filiberto partecipò alla guerra di Carlo V contro i protestanti tedeschi e combattè per la presa di Ingolstadt (1546); eseguì gli ordini di Maurizio di Sassonia (1521-1553) e dell’Imperatore con tale rapidità e precisione nella battaglia di Mühlberg (1547) che allo stesso si attribuì una piccola parte del merito della vittoria che distrusse i protestanti della Lega Smalcadica.
Dopo un periodo di tregua, dal 1547 al 1551 Emanuele Filiberto accompagnò in Spagna l’Infante Filippo II, con il quale strinse sincera amicizia, per quanto lo consentiva l’indole chiusa del re e partecipò alla difesa di Barcellona contro un attacco marittimo francese (1551) tentato di sorpresa dall’ammiraglio Leone Strozzi (1515-1574). Nel  1552 il Duca di Savoia prestò servizio per qualche mese sotto Ferrante Gonzaga (1507-1557)  nella guerriglia tra spagnoli e francesi di Carlo de Cossé, conte di Brissac (ca. 1505-1563)  in Dronero, in Bra, in Verzuolo ed in Saluzzo.
Ma Emanuele non andava per nulla d’accordo con il Gonzaga, invidioso – sembra – del suo giovane collega, e, colta la prima occasione, il Duca di Savoia ritornò in Germania.
Ma, tuttavia, questa decisione non fu presa solo per ragioni personali; il Duca comprese che le sorti dell’Europa si sarebbero decise fuori dell’Italia e difatti i campi di battaglia principali furono la Lorena e le Fiandre.
Egli prese parte all’assedio di Metz e, nell’aprile 1553 ed in tutto l’anno seguente, fu nominato capitano generale dell’esercito imperiale nella guerra di Fiandra; anche nel 1557 e nel 1558 ebbe nuovamente il medesimo incarico.
Quindi lo studio, la preparazione militare, il contatto con grandi generali ed uomini di stato affinarono le sue concezioni politiche e militari e lo portarono ai successi che abbiamo appena visto.
Il piano strategico studiato ed ideato dal Duca di Savoia contro la Francia fu semplicissimo. Poiché il Duca di Guisa aveva portato in Italia il maggior sforzo francese, si doveva approfittarne per raccogliere rapidamente ed in seguito un forte esercito con il quale il Savoia condusse fino in fondo la guerra in Fiandra ed in Francia. Costrinse, per di più, Enrico II (1519-1559) a dividere le sue scarse forze tenendolo nell’incertezza sugli obiettivi che si volevano raggiungere ed anche con una dimostrazione nella regione della Champagne. Gettatosi allora su San Quintino, che dominava il principale nodo stradale fra la Fiandra, lo Hainaut e Parigi e, impadronitosi della fortezza (2-27 agosto 1557), nella omonima battaglia (10 agosto 1557), rifulsero e brillarono tutte le recondite doti militari del Duca di Savoia, il quale – dopo la brillante vittoria – propose, ma invano, di muovere, con parte dell’esercito, su Lione e, con il grosso delle soldatesche, su Parigi, sicuro che nessuno avrebbe potuto impedirgli l’occupazione della capitale nemica.
La vittoria ebbe luogo, come abbiamo visto, il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, e per questa, Filippo II fece erigere lo “Escorial” – il “Πανθήον” spagnolo – a forma di graticola in quanto il detto Santo fu martirizzato su di uno strumento di supplizio chiamato “graticola” (conservata nella per insigne Basilica romana di San Lorenzo in Lucina, tanto cara alla Real Casa di Savoia) identico a preciso a quello usato per la carne.
Ma torniamo al Duca Emanuele Filiberto di Savoia.
La ricordata vittoria  fu possibile in quanto il Duca abbandonò i criteri militari tradizionali per l’arte della guerra moderna. Il fattore nuovo consiste nell’aver saputo costringere il nemico a combattere contro la sua volontà, nell’aver concepito l’azione come diretta all’annientamento anziché alla vigilanza ed all’allontanamento dell’avversario secondo le usanze e le tecniche temporeggiatrici dell’arte della guerra del Rinascimento.
Quando si concluse tra Francia e Spagna la pace di Cateau-Cambresis, lo sforzo del “Testa di Ferro” fu teso a persuadere Filippo II ed i suoi consiglieri che solo e soltanto con la ricostituzione dello Stato Sabaudo si poteva giungere ad una pace duratura e quindi equilibri duraturi, i quali avrebbero assicurato i domini ispano-imperiali in Italia, ponendo in evidenza la coincidenza degli interessi spagnoli con quelli sabaudi. Durante le trattative di pace sulla questione appunto della restituzione del Piemonte e su quella di Calais, la lotta diplomatica fu aspra e le trattative corsero più volte di naufragare. Conclusa la pace (3 giugno 1559), ad Emanuele Filiberto venivano restituiti quasi tutti i suoi territori, dei quali egli veniva riconosciuto, da ambo le parti, signore amico, ma indipendente e neutrale: fatto importante questa neutralità, che fu la base di tutta la politica posteriore del Duca. Venivano meno, tuttavia, sette località importanti alla restituzione, di cui cinque tenute ancora dai francesi: Chieri, Pinerolo, Villanova d’Asti, e soprattutto, Torino in attesa che fossero esaminati i pretesi diritti del Re di Francia sui domini sabaudi; e due spagnoli: Asti e Vercelli, che avrebbero dovuto essere lasciate entro tre anni. Se il trattato ridava le terre di già occupate dai due contendenti, non restituiva, però, quelle che durante la contesa o si erano staccate dal dominio dei Savoia come Ginevra, o erano state occupate dagli svizzeri di Berna, di Friburgo e del Vallese. Inoltre al Duca era restituito un paese disorganizzato, immiserito, spopolato, diviso da lotte religiose (valdesi), da varietà di ordinamenti e di ambizioni di signorotti e città. Un paese bisognoso di assoluta tranquillità e di ordine. Stretto tra Francia e Spagna, le due maggiori potenze europee e da tutte e due agonato, insidiato, senza fortificazioni e per di più spezzato in due parti dalla barriera delle Alpi. Perduta Ginevra e data la nuova potenza alla Francia, la capitale non poteva più essere Chambéry e la si trasferì in Torino.
Ma tutto era da rifare in quello Stato rovinato da tanti anni di guerra, con le città diroccate, scomparse le industrie, rovinati i commerci, la popolazione ridotta a  900.000 abitanti in Piemonte ed a 500.000 nella Savoia.
La neutralità proclamata nel trattato di pace era condizione necessaria di vita ed Emanuele Filiberto fece un continuo sforzo per evitare che tra Spagna e Francia scoppiasse una nuova guerra, persuaso che se doveva scoppiare era interesse savoiardo che essa riprendesse il più tardi possibile. Gli obiettivi che la realtà pose innanzi al Duca furono codesti: recupero delle terre ribelli od occupate dagli svizzeri; abbandono delle terre presidiate dai Francesi e dagli Spagnoli; riorganizzazione dello Stato.
Emanuele Filiberto tentò di riavere Ginevra per volontaria dedizione degli abitanti (1560); ma nulla avendo ottenuto, pensò di costituire una lega sabaudo-franco-ispano-papale al fine di sottomettere nuovamente, e con la forza, quelle terre; ma egli vide subito sia Francia che Spagna ostili ad un ingrandimento territoriale e venne meno, quindi, la possibilità dell’impresa. Parimenti difficili furono le trattative all’avvicinarsi dello scadere del triennio stabilito nella pace per la liberazione del territorio dall’occupazione straniera.
In tutte queste delicate trattative il Duca ebbe l’efficace ausilio della consorte Margherita (1523-1574), sorella del Re di Francia, da lui sposata secondo gli accordi stabiliti dal trattato medesimo. Donna di eccezionali doti intellettuali e morali che gli assicurò anche la continuazione della Dinastia con la nascita, il 12 gennaio 1562, di Carlo Emanuele (1562-1630). Ma la controversia ebbe rapida soluzione per via dello scoppio delle guerre di religione in Francia. Il “Testa di Ferro” riuscì, quindi, a staccare dai francesi Torino, Chivasso, Chieri e Villanova d’Asti, lasciandogli ancora Pinerolo con Savigliano e Perosa, con la speranza che, ridotta l’occupazione francese, Filippo II restituisse Asti e Santhià, che gli spagnoli tenevano anziché di Vercelli, ma ne ebbe un rifiuto. Solamente nel 1574 il Duca di Savoia riuscì a farsi restituire dal Enrico III (1551-1589) anche quelle terre, il che costrinse gli spagnoli ad andarsene, benché a malincuore. In codesta situazione Emanuele pensò di rafforzarsi cercando degli alleati; poiché poco vi era da sperare sugli stati italiani, entrò quindi in successive trattative con gli svizzeri.
Forte di questo appoggio svolse un’azione più ferma di fronte alle due potenze rivali e per ottenere l’abbandono completo delle milizie straniere ingrandì lo Stato con acquisti e cessioni come Oneglia acquistata dai Doria e la Contea di Tenda. Riaffermò i suoi diritti su Saluzzo e sul Monferrato, dando maggiore unità allo Stato.
In questo periodo su creato un nuovo motto: “pugnando restituit rem”!
Internamente il Ducato fu dal Filiberto ricostituito sui seguenti punti: armi nazionali, severa politica finanziaria, e giustizia imparziale.
Ma per attuare importanti e radicali riforme era necessario un forte potere accentrato e quindi Emanuele Filiberto pose da parte la mediovale istituzione degli “Stati e Congregazioni Generali”, la quale – più che di aiuto – serviva ad inceppare, per via dei privilegi di casta, il potere centrale. Si ebbe così un potere assoluto che fu esercitato al fine di rendere rispettata la giustizia da ogni ordine di cittadini e quindi ordinata l’amministrazione, promovendo l’agricoltura, risvegliando le industrie, dando nuovo incremento agli studi.
Cure particolari furono rivolte dal Duca alla difesa dei suoi domini, restaurando vecchie fortezze e provvedendo ad opere fortificate nuove, impiantando fabbriche d’armi, ma soprattutto dotando lo Stato di un saldo esercito nazionale, rompendo risolutamente e drasticamente con la tradizione mercenaria e con gli usi delle monarchie del tempo, quando gli eserciti erano composti di individui pagati, senza distinzione di nazione e di età. Questa la struttura militare: l’esercito sabaudo era composto di circa 36.000 uomini dai 18 ai 50 anni, e di milizie cittadine, valligiane ed alpine:
a)                               quattro squadre di località (c. d. parrocchie) formavano una centuria;
b)                               quattro centurie contigue erano una compagnia, la quale si radunava almeno una volta al mese;
c)                               sei compagnie formavano un colonnellato con un raduno almeno quattro volte all’anno.
La cavalleria, invece, era strettamente della nobiltà, la quale conservò – con qualche restrizione – i suoi privilegi ma non l’obbligo del servizio militare.
Emanuele Filiberto riordinò sia l’Ordine di San Maurizio, unendovi quello di San Lazzaro contro gli infedeli (con l’ipotesi, poi declinata, di trasformarlo in una milizia marinara), così come fece Cosimo I (1519-1574) in Toscana con quello di Santo Stefano, sia che quello della Santissima Annunziata.
Possedendo Nizza, Villafranca ed Oneglia, il Duca si interessò, per via marina, contro i pirati che infestavano il Mediterraneo ed anche perché non voleva restar fuori dalle grandi potenze. Tra i suoi collaboratori emerge Andrea Provana di Leynì (1511-1590) - primo cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata di Casa Provana ed antenato del Segretario per l’Araldica del Re Umberto II (1904-1983) Umberto Provana di Collegno (1906-1991) a sua volta insignito del Supremo Ordine – primo Ammiraglio di Casa Savoia, il quale partecipò, rimanendo ferito, alla gloria di Lepanto (dal greco “Ναύπακτος”) e di cui scrisse una dettagliata relazione che è tra le più importanti che si conoscono.
Emanuele Filiberto si adoperò per una completa e sistematica revisione degli statuti della sua casa non più impedito dalle opposizioni dei comuni, dei feudatari delle Congregazioni Generali. Rinnovò il diritto penale; istituì due Senati: uno in Savoia e l’altro in Piemonte; riordinò il Consiglio di Stato e la Camera dei Conti; riorganizzò la finanza in Piemonte e questo risanamento finanziario lo si cercò di conseguire tanto col severo controllo dell’amministrazione dello Stato, quanto con i rimaneggiamenti diretti a ripartire i pesi fiscali con minore sperequazione (una parola molto di attualità) di quella che era generalmente in uso nel tempo.
Vennero costruiti nuovi canali; si abolì, seppur gradualmente, la servitù della gleba; si aprirono filande di seta in Vercelli, Torino e Chambéry ed il relativo sviluppo della lana, dei tessuti, della tintura della seta, del filo, del sapone, della carta e dell’arte dei fustagni (Biella).
Vissuto Emanuele Filiberto, in tempi di gravi lotte religiose, quando Piemonte ed Alta Savoia erano pervasi dall’eresia, ebbe tra i di lui scopi quello di ricostituire l’unità cattolica del suo dominio, sia per convinzione religiosa, sia che per ragione di Stato.
Nell’aspirare a ristabilire il dominio sabaudo su Ginevra, Emanuele pensò ad un accordo con Roma ed alla formazione di una lega cattolica, inducendosi a perseguitare i riformati. Sostenne una lunga azione contro i valdesi, trovando valida resistenza (1560-1561); poscia, persuaso anche dalla consorte più incline a tolleranza religiosa, concesse loro (accordo di Cavour del giugno 1561) libertà di culto entro le valli e di coscienza fuori le valli. Vennero quindi prese severe misure contro altri protestanti, ma poi per codesti il Savoia concesse liberà di coscienza con, naturalmente, la proibizione del culto. Al medesimo tempo si occupò molto del miglioramento del clero cattolico e favorì l’applicazione dei decreti di riforma del Concilio di Trento, tenendosi in relazione con San Francesco di Sales (1567-1622) e San Carlo Borromeo (1538-1584), appoggiando anche la Compagnia di San Paolo e quella di Gesù. Ma il Duca tutelò gli interessi e la sovranità dello Stato anche sul terreno ecclesiastico. Ottenne dal Papa Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585) la conferma dell’indulto del 1471 del Papa Nicolò V (Tommaso Parentucelli, 1447-1455) che era stato uno dei compensi per la rinuncia da parte del Duca Amedeo VIII di Savoia al pontificato quale XXXII ed ultimo antipapa della Storia con il nome di Felice V. Tale indulto stava nel fatto che il Papa doveva consultarsi con il Duca per la nomina dei vescovi e degli abati; mentre per entrare in possesso dei benefici occorreva il “placet” ducale. Inoltre spettava al fisco l’amministrazione dei benefici vacanti e fu controllata, come in Toscana, l’attività dell’Inquisizione Romana.
Emanuele Filiberto di Savoia morì quando non aveva ancora compiuto la sua complessa opera; era il 30 agosto 1580. La sua fibra debole nell’infanzia e nell’adolescenza, rafforzata poi nella vita militare, si affievolì in venti anni di intensa attività pubblica.
E’ sepolto nella Cappella della Santa Sindone in Torino.
Dalla consorte, abbiamo visto che ebbe Carlo Emanuele, suo successore. Ma ebbe anche sette figli da unioni morganatiche, e precisamente: uno ciascuna da Lucrezia Proba, da una certa di cognome Doria e da un’ignota; due figli rispettivamente da Laura Crevola e Beatrice Langosco.
Vediamo cosa hanno detto o scritto di Emanuele Filiberto.
Il grande storico piemontese Francesco Cognasso (1886-1986) nella sua monumentale opera “I Savoia” ci riporta alcuni illuminati giudizi sul nostro personaggio. Eccoli:
(…)  E’ agile, destro della persona e tanto che in ogni esercizio del corpo sì a piedi che a cavallo riesce mirabilmente. E’ nemico mortale dell’ozio e quasi del continuo negozia passeggiando (…)”.
Dopo cena(…) se ne va’ in casa d’ un architetto (…)  ove “stilla acque ed ogli, disegna, fa modelli di fortezze e di altri strumenti di guerra”.
 E ne viene tentata anche una fisionomia morale:
E’ principe altrettanto giusto che religioso come lo manifestano le azioni sue tutte e seppure nella giustizia piega a ciascuno estremo, è verso quello che è proprio il principe, la pietà e la clemenza. E’ di animo forte, temperato, liberale, magnifico, e non inclinato alla collera, affabile, sommamente veridico, della parola osservatore (…) Parla poco, massime di cose di importanza, dove puo’ entrare interessi di principi, ma dei consumi dei paesi, delle guerre fatte e delle cose del tempo suo, che gli passano per mano, ragiona volentieri e con diletto. Ha grandissima cognizione delle cose del mondo, degli umori delle corti, degli affetti e passioni dei principi”.
Di codesta sua rettitudine e buon senso è importante riportarVi un documento del Duca datato 1566. Scriveva al di lui rappresentante a Roma quando il Santo Padre lo voleva costringere ad inviare al rogo un tal Giorgio Olivetta, già condannato dall’Inquisizione di Vercelli:
Non basta né conviene in questi tempi bruciare un uomo la cui morte non farà li buoni esser migliori, si bei mali esser peggiori (…) So bene che tollerare gli eretici puo’ essere pericolosissimo, ma non bisogna ingannarsi. Castigarli tutti a me è impossibile; abbriciarne alcuni infiamma crudelmente gli altri alla vendetta. Sicchè (…) il  mio parere è (…) che si abbia da usare della modestia tanto necessaria in questi tempi (…)”.
Il Papa non comprese tanto spirito di tolleranza.
Invece il Doge di Venezia Francesco Morosini (1619-1694) detto il “Peloponnesiaco” ci descrive il Duca di Savoia come un uomo alquanto colto:
Ha gran piacere di parlare con uomini letterati e dotti, li ascolta molto volentieri a discorrere in ogni professione, dimostrando bellissimo giudizio a metter dubbi in campo ed anco in dirvi sopra l’opinione sua, la quale sta fondata sul suo natural giudizio, non avendo mai forse veduto alcun libro di Aristotile o Platone. Legge con piacere tutti i libri di storia, ma molto più volentieri quelli che sono in lingua spagnola, la quale parla e scrive eccellentemente come se fosse nato in Spagna (…) Parla anco eccellentemente francese, essendo si puo’ dire quella la sua lingua naturale, poiché tutti i duchi passati parlarono sempre francese così come ora parla Sua Eccellenza quasi di continuo l’italiano (…) Usa parlare spagnolo con gli spagnoli, con i francesi francese, italiano con gli italiani (…)”.
Ed in realtà la corrispondenza del Duca di Savoia mostra limpidamente come egli scriva in francese, in spagnolo, in italiano con provata facilità.
Egli fu anche cultore delle arti. Ebbe attorno letterati e poeti, che erano anche consiglieri e segretari. Ebbe una fitta ed interessante corrispondenza con qualche poeta come Bernardo Tasso (1493-1569), ed ospitò, in Torino, anche Torquato Tasso (1544-1595) vagabondo in cerca di quiete. Emanuele elesse suo storiografo Uberto Foglietta, ma questi poi non venne mai in Torino.
Un progetto di Emanuele Filiberto fu quello di pubblicare il “Teatro universale di tutte le scienze”, e chiamò a sé numerosi scienziati che avrebbero dovuto mettere insieme l’opera, la quale discendeva, forse, da sue consimili del secolo XIII e che era il preludio di quello che sarebbe stato l’enciclopedia del ‘700. Arti e scienze il Duca aveva riunito a palazzo, e cioè: una biblioteca, un museo di arte e di scienze.
Al fine di realizzare codesti progressi in Piemonte occorrevano tipografi moderni. Furono fatti venire Niccolò Torrentino da Firenze e Niccolò Bevilacqua da Venezia. Sia con l’uno che con l’altro Filiberto volle creare società munite di privilegi che parvero costituire quasi un monopolio.
Siamo certi di affermare che con il Duca di Savoia la cultura del Piemonte era stata non rinnovata, ma forse creata del tutto. E questa feconda opera fu completata dal Re Vittorio Amedeo II (1666-1732), il quale, terminata la parte bellica e diplomatica del suo Regno, si dedicò a ricostruire lo Stato Sabaudo.
 Ed ora, richiamando i versi di Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.) (Georg. III, 284), nella loro perenne  e duratura validità: “fugit interea, fugit inreparabile tempus (…)”, taccio e chiudo questa mia sommaria e forzatamente molto incompleta esposizione, ma permettetemi di tacere con l’intenzione di rendere omaggio ad una simpatica, saggia ed autorevole Signora, oggi alquanto trascurata ed abbandonata, che ci tiene sempre compagnia: mi riferisco alla Storia, rappresentata, sin dai tempi antichi, dalla musa Clio. Poiché se è vero, come è vero, che la Storia è maestra della vita – e, non a caso, lo ricorda anche l’Alighieri (1265-1321) “(…) ed in terra lasciai la mia memoria/ sì fatta, che le genti lì malvage/ commendan lei, ma non seguon la storia” (Pd. XIX, vv. 16-19) -  appare evidente che la stessa, come tanti saggi maestri, è oggi tenuta in scarsa considerazione e, comunque, ben poco, per non dire affatto, vengono apprezzati e messi in pratica i suoi insegnamenti.
E questo è, senza dubbio, anche un doveroso omaggio alla memoria delle nostre Tradizioni, che ci ha dato illuminati esempi di vita, di civiltà, di libertà, di prosperità, una Patria unita, un’Europa libera, e che propriamente e sicuramente le monarchie l’hanno rappresentata, la rappresentano e la rappresenteranno.

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