NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 4 maggio 2012

La Monarchia Sabauda ed i problemi sociali II parte

II - DAI CONTI DI SAVOIA A EMANUELE FILIBERTO,
di Vincenzo Pich


Casa Savoia fu l'unica dinastia italiana che riuscì, in quasi mille anni di storia, a conservare e ad accrescere i propri domini: la Divina Provvidenza, nel compimento dei suoi disegni, si valse del valore militare e della saggezza politica dei Principi sabaudi,
non meno che della devozione riconoscente e delle virtù guerriere e civili dei loro popoli.

Quali erano i problemi sociali dei primi secoli del nostro millennio? Com'era costituita la società savoiarda e piemontese? I privilegi dei signori feudali ed ecclesiastici, i privilegi comunali, lo spezzettamento della vita politica ed economica caratterizzavano il Piemonte di allora: di qui, prepotenze di signori piccoli e grandi, decadenza religiosa, frequenti lotte tra città vicine e lontane, miseria delle plebi rurali, lento sviluppo delle attività economiche, tranne in qualche centro come Asti, il comune più potente della regione.

Lo sviluppo era condizionato alla presenza di un principio unificatore e questo parve offerto dai Savoia che, dopo il matrimonio di Oddone, figlio di Umberto Biancamano, con Adelaide, signora di Susa e di Torino, cominciarono chiaramente ad orientarsi al di qua delle Alpi. La tendenza, ostinatamente seguita, fu seriamente contrastata dall'avversione delle forze particolaristiche e dalle ambizioni di altri grandi signori, come i marchesi del Monferrato e i duchi di Milano.

La vocazione italiana di Casa Savoia poté finalmente affermarsi con il Conte Verde, Amedeo VI (1334-1383), che ingrandì e unificò i domini sabaudi, limitò privilegi comunali, ecclesiastici e nobiliari; l'opera fu continuata dal figlio Amedeo VII, il Conte Rosso (1360-1391), che assicurò con Nizza uno sbocco sul mare, e dal primo Duca di Savoia, Amedeo VIII (1383-1451), che diede leggi comuni a tutte le sue terre, creò un Parlamento di rappresentanti dei vari ceti, ebbe cure particolari per lo Studio di Torino.

«Se in molte occasioni le trattative ed i negoziati poterono essere conclusi favorevolmente, ciò dipese dal fatto che le popolazioni desideravano vivamente la protezione dei Conti di Savoia. Questa circostanza facilitò sempre le cose. La saggia amministrazione di tali Conti, il loro spirito di giustizia, la solidità delle loro milizie ed il rispetto dei privilegi comunali, che sottraevano gli individui alla soggezione di signori laici ed ecclesiastici, facendone uomini liberi, erano tutti elementi che garantivano gli abitanti delle città e delle campagne. Nel Medio Evo la dominazione dei Savoia fu ognora sinonimo di progresso » (2).

Nel secolo che seguì alla morte di Amedeo VIII, il giovane Ducato si trovò a contenere le mire dei Re di Francia, dei duchi di Borgogna e di quelli di Milano; indi, dal 1494, non poté evitare il passaggio e poi l'occupazione, francese. Fu uno dei periodi più terribili della storia sabauda, con il Piemonte continuamente percorso dagli eserciti francesi e spagnoli, teatro di battaglie sanguinose e devastatrici. Volle Iddio che a Carlo II, morto a Vercelli il 16 agosto 1553, quando solo Cuneo ed Aosta resistevano ancora allo straniero, succedesse uno dei più grandi Principi sabaudi, Emanuele Filiberto, investito dei suoi Stati da Carlo V il 15 luglio 1554.

Il «Duca di Ferro», vincitore a San Quintino contro i francesi, in quella battaglia che poteva aprire agli spagnoli le porte di Parigi, ebbe sancita, con la pace di Chateau Cambrèsis, la restituzione degli 'Stati sabaudi; stabilita definitivamente la capitale a Torino, nella quale entrò il 7 febbraio 1563, si pose al geniale lavoro di riordinamento politico, militare, amministrativo ed economico del Ducato.

«Ed Emanuele Filiberto organizzò la regione; volse a servizio dello Stato la nobiltà eslege; fece della materia prima popolo e contadini, che ai contemporanei pareva inerte e buona a nulla, contribuenti e soldati fedeli. Solo che tutto questo fece non per la Spagna ma per la sua dinastia e, quando l'ora fosse giunta, per l'Italia » (3).

Gino Luzzatto, nel descrivere le condizioni economiche d'Italia nei primi tempi del dominio spagnolo, pur negando fondatezza alla tesi di un radicale repentino capovolgimento, sostiene che già nel '500 si manifestavano quasi ovunque i segni della decadenza; così però egli scrive dei domini italiani di Emanuele Filiberto:

«Del tutto particolare è in questo periodo la situazione del Ducato di Savoia, per il quale non solo non si parla di decadenza, ma gli storici sono tutti concordi nel considerare l'età che s'inizia con la pace di Castel Cambrésis come il punto di partenza della nuova storia. Il governo di Emanuele Filiberto è nato giustamente esaltato non solo per l'opera tenace e concreta di riorganizzazione amministrativa, finanziaria e militare, che preparò il Ducato di Savoia ad essere, fin dal Seicento, il più forte e il più combattivo fra gli Stati Italiani, ma anche per le cure rivolte a guarire il paese dai danni mortali recatigli da trent'anni di guerre, di occupazioni militari straniere, di vera e propria anarchia » (4).

Emanuele Filiberto capì che, per creare uno Stato politicamente e militarmente forte, in grado di sostenere, meglio che nell' immediato triste passato, l'urto dei potenti imperialismi attestati al di là dei confini occidentali ed orientali, fosse soprattutto necessario far sorgere una società di uomini operosi e fieri della loro Patria: ma, a questo scopo, urgeva dedicare grandi cure all'economia piemontese, in condizioni di grave sfacelo. Il Duca fece: attuare una riforma monetaria; risollevò le vecchie industrie dei tessuti di lino e di cotone di Chieri e di Asti; incoraggiò l'istituzione di tessiture di seta e di velluti, la coltura del gelso e l'allevamento dei bozzoli; fece disboscare pianure e colline per piantarvi la vigna; promosse l'esportazione della canapa: concesse acque e aiutò le opere idrauliche per l'irrigazione, che giovarono alla produzione foraggera e all'allevamento degli animali da macello; migliorò il porto di Nizza e creò una compagnia per i traffici con il Levante (5).

«Comunque, venti anni di potere mettono questo Principe fra i maggiori, potremmo dire tra i fondatori del suo Casato. Lavoratore prodigioso, per senso del dovere oltre che per necessità pratiche; volontà fortissima, interesse vivo per ogni problema ed ogni attività. Gli ambasciatori veneti han tracciato le linee di un ritratto a tutti noto: uomo che non conosce, riposo, vive di poco cibo e di poco sonno, tratta in piedi o passeggiando, con la fedele spada a1 fianco, tutti gli affari, si interessa di ogni studio che abbia qualche attinenza con la pratica, sia esso la geometria o la meccanica o l'arte delle fortificazioni, ama conversare con uomini, di ogni capacità o mestiere e non li lascia se non ha spremuto da essi tutto il succo che essi hanno; chiama e fa venire anche da lontano: armaiuoli, fonditori, orologiai, orefici, tornitori e li alloggia deve egli possa trovarli ogni ora, senza che nessuno veda lui.
Quanti attivi in quei venti anni di suo governo; quanti progressi, chi guardi il punto di partenza e il punto di arrivo! » (6).

Per concludere, Emanuele Filiberto fu uno dei massimi capi di Stato del suo tempo, sommo in pace e in guerra, attento alle cure militari come a quelle della società e dell'economia piemontese e savoiarda: un Sovrano, diremmo oggi, veramente sociale!

(2) MARIA JOSE' DI SAVOIA: « Amedeo VI e Amedeo VII di Savoia Mondadori, Milano, 1956, pag. 306. 
(3) GIOACCHINO VOLPE: «ll Medio Evo», Sansoni, Firenze, 1958, pag. 532.
(4) GINO LUZZATTO: «Storia economica dell'età moderna e contemporanea - Parte prima: l'età moderna», CEDAM, Padova. 1950, pagg. 112, 113.
(5) GINO LUZZATTO, opera citata, pagg. 113, 114.
(6) GIOACCHINO VOLPE: « Prolusione: il millennio di una Dinastia », Roma, 1959, pag. 21.

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