NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 10 luglio 2012

Un'intervista (rubata) a Vittorio Emanuele III


Come un giornalista , finto tenente di vascello, riuscì ad avvicinare il Re in esilio.
dal quotidiano "La notte", sabato 22 settembre 1979

"Sua Maestà la riceverà con molto piacere."

Così mi fece dire, per telefono, il colonnello Tito Torella aiutante di campo dell'ex re Vittorio Emanuele III, o « conte di Pollenzo », nel dicembre 1946, ad Alessandria d'Egitto; lo fece dire proprio a me giornalista. sebbene fosse noto che i giornalisti Vittorio Emanuele III non li aveva mai amati e che, a maggior ragione, non intendeva riceverne nessuno durante l'esílio. A trentatrè anni di distanza rievoco l'episodio - del quale non vado orgoglioso -, soltanto perché la nostra televisione ha portato vigorosamente alla ribalta la figura dell'ex re, piccolo di statura; rievocando, debbo necessariamente spiegare grazie a quali circostanze riuscii ad ottenere il colloquio «impossibile».

Dicembre 1946, dicevo poc'anzi. In quel periodo, di armistizio ma non ancora di pace, due nostre corazzate, l'«Italia» e il «Vittorio Veneto», si trovavano ai Laghi Amari, ossia a metà del Canale di Suez, in stato di internamento; comando ed equipaggio continuavano ad essere italiani, ma alle due navi, già orgoglio della nostra Marina, non era dato di lasciare l'ancoraggio. Avevo raggiunto l'«Italia» a bordo d'un caccia, il «Mitragliere», che, facendo la spola fra Taranto ed Egitto, avvicendava il personale delle corazzate; nell'ambito di quell'avvicendamento, assumeva il comando in prima dell' «Italia» il capitano di vascello Emesto Pellegrini, mio cugino. Per quanto riguardava me, dovevo svolgere un servizio sulla nostra gente ai Laghi Amari col pieno consenso del Ministero della Marina.

La particolare posizione giuridica dell'«Italia» e del «Vittorio Veneto» non avrebbe ammesso contatti con la terraferma, del resto non vicinissima, ma in pratica sia gli inglesi - tuttora installati in Egitto e in special modo lungo il Canale - sia gli egizíani chiudevano un occhio sullo sbarco pomeridiano dei «franchi» (i marinai liberi da servizio), a scopo di generico svago e di piccoli acquisti nelle baracche sorte ai margini del semideserto. Agli equipaggi si permetteva pure, più o meno eccezionalmente, di recarsi a Suez; se invece il viaggio avesse avuto altre mete, esso avrebbe violato ogni limite di tolleranza. Tuttavia, nei mesi precedenti qualcuno di bordo s'era spinto, naturalmente in abito civile, nientemeno che ad Alessandria, col preciso scopo di visitarvi Vittorio Emanuele III. Interrogai, e mi venne detto che l'ex sovrano riceveva senza difficoltà gli uf ficiali della nostra Marina; allora cominciai a intravedere la possibilità di avvicinarlo a mia volta.

In breve: c'era chi, sull’«Italia». conosceva ad Alessandria la famiglia Almagià, composta di israeliti italiani che teneva i contatti con Vittorio Emanuele III attraverso il colonnello Torella; munito dei mio passaporto ma privo dei visto egiziano, mi recai al Cairo e quindi ad Alessandria, senza incappare in alcun controllo; giunto a destinazione mi presentai a casa Almagià, affermando di essere cugino del comandante Pellegrini, nonché tenente di vascello, ossia ufficiale di Marina. Questa seconda parte del discorso era, semplicemente falsa. Ma la prima, ineccepibile, funzionò energicamente. Donde, quel «Sua Maestà la riceverà con molto piacere», che gli Almagià, una sera, mi comunicarono, precisando giorno e ora dell'appuntamento.

Eccomi dunque l'indomani mattina, alle undici meno cinque, in una zona residenziale detta Smuha City, alcuni chilometri fuori del centro. Fra i rami delle acacie di via Constantin Choremi si profila villa Iela, di media mole, piccola come villa, grande come villetta, semplice, moderna; il piano rialzato dà su una terrazza coperta e il primo piano, su un'altra terrazza, ariosa; sottili tendine bianche velano i vetri. Un muricciolo cinge villa e giardino; presso il cancello con il nodo di Savoia sta una garitta, un poliziotto egiziano vigila. E il colonnello Torella è già in attesa, mi accompagna per una lista di cemento e per pochi gradini sino al piano rialzato, dove un maggiordomo italiano, in giacca bianca, mi introduce; Torella se ne va, il maggiordomo sale ad avvertire Vittorio Emanuele.

Il conte di Pollenzo

In un armadio a muro della minuscola stanza d'ingresso si allineano doppiette e carabine di vari calibri; in alto, gli astucci; in basso, cartucce di marca italiana. (Sebbene Vittorio Emanuele fosse buon cacciatore, credo che le armi venissero usate dai suoi familiari; egli, invece, preferiva notoriamente la pesca e continuava a praticarla in Egitto, dove il mare gli offriva soddisfazioni copiose). Un saloncino arredato con eleganza s'apre a sinistra; vasti tappeti e le poltrone e un divano creano un ambiente soffice. Verso le finestre, un pianoforte: sull'altro lato, una grossa radio. Parecchi soprammobili di pregio, paesaggi, fotografie delle figlie e dei nipoti di Vittorio Emanuele, re Boris con l'elmetto di guerra. Sulla parete di fronte all'ingresso campeggia un grande quadro di Umberto II «conte di Sarre» in divisa di generale, su sfondo turchino cupo.

Dal saloncino, una scala conduce al primo piano. Due minuti, e il «conte di Pollenzo» compare sull'alto di quella scala, ne discende oscillando un poco per via della statura e dell'età, mi s'avvicina, stringe la mano a me sull'attenti, mi dà il buon giorno con aria sorridente e cordiale. So di persone ricevute da lui anche a lungo, ma sempre, in piedi; nel mio caso. l'ex re mi precede subito in un attiguo e mi fa sedere dinanzi a lui.

Pellegrinaggio a El Alamein

Di buona cera, diritto asciutto, Vittorio Emanuele veste un abito a un solo petto di tessuto spigato color nocciola, e un panciotto grigio di lana pesante, sul colletto bianco rigido la cravatta blu è ben annodata; lucide a specchio le scarpe, nere, alte. Sembra calvo perché tiene i capelli quasi rasati, mentre ha discretamente fitti i baffetti bianchi spiovono sopra il labbro superiore; gli incisivi, un poco giallastri, si sono radunati nella forma complessiva dì una V. Segni di stanchezza e di vivacità si alternano negli occhi sempre penetranti; sul volto, le rughe non sembrano troppo numerose e comunque non infieriscono; le mandibole, invece, s'afflosciano in due borse che, a mento basso, si inturgidiscono lateralmente. Curate alla buona, le unghie; mani, con qualche screpolatura e qualche lentiggine. Vittorio Emanuele ha tracce di accento piemontese nella parlata, cui s'alternano momenti di cadenza centrale.

Chiestomi di dove sono e saputo che ho raggiunto l'Egitto con una nave da guerra, il «conte di Pollenzo» avvia il discorso sulla Marina, accenna alla vulnerabilità delle corazzate di fronte ai mezzi moderni d'offesa; si rammenta del capitano di vascello Pellegrini - già comandante dell’incrociatore «Scipione l'Africano» in un vittorioso combattimento notturno contro motosiluranti statunitensi - anche perché, nel settembre di tre anni prima, proprio sullo «Scipione» aveva inciso un disco, contenente il suo proclama al popolo italiano. Poi, la conversazione tocca un punto affermato da alcuni, smentito da altri; il «conte di Pollenzo» lo chiarisce parlando a lungo della sua visita a El Alamein nel precedente giugno, cioè appena arrivato in Egitto, benché non ne avesse avuto l’autorizzazione ufficiale. «Il permesso tardava, probabilmente ci sono ancora troppe mine nella zona. Allora partii lo stesso e... non sono saltato, come lei vede».

Vittorio Emanuele esce in una risatina di tono basso, aspirata come usano gli scandinavi; riprende quindi il tema di  prima narrando dei cimiteri di guerra di El Alamein e sottolineando: «Gli ufficiali inglesi delle Life Guards ancora dislocati qui in Egitto, ricordano la “Folgore" come una divisione eroica, me lo ha riferito una mia nipotina».

Torna alle mine ed alla difficoltà di rastrellarne il deserto; cito la sorte sanguinosa della maggioranza degli sminatori romagnoli nell'immediato dopoguerra; «mia moglie è di origine romagnola», soggiungo, e Vittorio Emanuele mi chiede di dove. «La famiglia, di Fusignano e di Bagnacavallo».

«Già - commenta -, vicino ad Alfonsine e a Lugo, oh, conosco bene quei posti, li ho girati parecchio». E, date le tradizioni istituzionali di Romagna, che Vittorio Ernanuele li abbia sulla punta delle dita non v'e da sorprendersi, ma il collaudo della sua proverbiale memoria ferrea e della sua conoscenza d'ogni particolare d'Italia non poteva riuscire più positivo.

Il monte Grappa la Slovenia, gli incidenti avvenuti a Padova pochi giorni prima, fra popolazione ed inglesi; ecco altrettanti spunti della nostra conversazione, svoltasi a ruota libera e senza etichetta, benché al «conte di Pollenzo» si continuasse a rivolger la parola col titolo di «maestà». A proposito di Padova, il «conte di Pollenzo» soggiunse: «I pasticci sono inevitabili. se quel soldati si mettono a fare gli impertinenti». Sicuro, il pensiero di Vittorio Emanuele era palesemente volto all'Italia; si rammaricava, l'ex re, che i nostri giornali non giungessero in Egitto per via aerea e che quindi fossero sorpassati dagli avvenimenti; del settimanale (comunista) di lingua italiana edito al Cairo sino a poche settimane prima, feroce contro la monarchia, disse sorridendo, con umorismo distaccato: «Era un po' malignetto, con noi Savoia». Momento di silenzio. Ma Vittorio Emanuele, nonostante i suoi settantasette anni compiuti, era rimasto rapido nella percezione e nella parola, per cui rimedio subito al passeggero disagio abbordando il tema generico della casa: «Vede quanto spazio sprecato, con quel saloncino e questo salotto. Tanto più che noi non riceviamo mai nessuno».

E si ricomincia a conversare e, di fronte alla sfacciata comparsa di due mosche, l'ex re commenta sarcastico «fasto orientale...» riferendosi, come poco prima, alla casa. Ma basta quell'accenno all’Oriente perché vengano a galla 1’Egitto, i problemi sociali ed economici del mondo arabo, e quelli religiosi e morali e politici quando, a mia volta, rievoco il disprezzo per la morte negli antichi conquistatori islamici, attratti dal miraggio d'un al di là favoloso, Vittorio Emanuele prosegue, col tono volutamente monotono di chi recita a memoria: «Già, Il paradiso con le Urì dalla pelle bianca come uova di struzzo sepolte sotto la sabbia del deserto... In passato, ho studiato molto il Corano, ma chi se ne ricorda più?». Il medesimo tono di velato rimpianto, di amarezza inconfessata, affiora in una delle ultime frasi del colloquio: «Adesso io non conto più nulla. C'è mio figlio che...».

Le undici e venti. Sono passati esattamente venti minuti. Vittorio Emanuele si alza dalla poltroncina, dà un'occhiata ai piatti sbalzati del salotto, passa nel saloncino che serve da stanza di soggiorno, accenna con la mano alle pareti: «Ho portato via dei quadri...»; rettifica: «Mi hanno lasciato portar via dei quadri...», e mi fa osservare un buon dipinto di un veliero sul mare forte, dove brillano, sotto il cielo cupo, soltanto pochi raggi del sole al tramonto.

- Arrivederla, buone cose.

Io, di nuovo, sull'attenti; una stretta di mano. Il «conte di Pollenzo» ritorna al primo piano salendo la scala lentamente, con qualche fatica.

L'incontro con Elena di Savoia

Rimasi solo. Non v'era Torella, non il maggiordomo. Attesi un paio di minuti, incerto, scosso dall'incontro eccezionale: concentrai lo sguardo sui vari elementi del saloncino, per rammentarli il meglio possibile. Poi decisi di uscire, scesi in giardino; dalla via Choremi stava entrando proprio allora Elena di Savoia, in pelliccia nera, eretta, seria; sembrò sorpresa della mia presenza, ne chiese al maggiordomo, comparso in quel momento alle mie spalle. Mi presentai; mi tese la mano. Col mio commiato da villa Iela, non fu finita. Anni dopo, in Germania, incontrai lo scrittore ed amico; Giovanni Artieri storico dei Savoia; ebbene, durante le sue conversazioni con l'ex re Umberto II, a Cascais, Artieri lo aveva sentito rammaricarsi del «tenente di vascello» introdottosi presso il vecchio padre. Artieri me lo riferì in via di discorso, senza forse sapere di parlar proprio con il reo; lì per lì rimasi interdetto, addolorato che un episodio ormai vecchio potesse ancora avere una scia; né osai dire «quel "tenente di vascello" ero io». Rimediai il 19 marzo 1951, incontrando Umberto II a Cannes, durante una visita basata sul mondo sottomarino. Nel presentarmi in quella circostanza, volli infatti sillabare il mio cognome, non senza aggiungere che dovevo farmi perdonare qualcosa. Sulle prime, Umberto II rimase perplesso, poi mi batté amichevolmente con la mano su un braccio, rispondendo: «Va bene, va bene, ciao». Sorrideva con cordialità, sembrava un pochino commosso. Suo padre era morto il 28 dicembre 1947, giusto un anno dopo il colloquio col «tenente di vascello».

Lino Pellegrini

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