NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 30 settembre 2012

Per l'«antica bandiera!»



Le forze armate e la guerra di liberazione


di Paolo Nello

Il cosiddetto discorso della riscossa, pronunciato al Teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944, il redivivo Mussolini, "Duce" ormai solo della Repubblica Sociale, chiese ai fascisti: "Chi ha tradito?" Si riferiva, ovviamente, all'armistizio dell'8 settembre 1943, è, magari anche alla propria destituzione a seguito del voto del Gran Consiglio nella notte fra il 24 e Il 25 luglio dello stesso anno. Primo accusato del "tradimento" fu naturalmente Vittorio Emanuele III, complici i vertici militari, la borghesia e quanti, in generale, "non credevano più nella vittoria". In vena di ritorni alle origini repubblicane e di esperimenti socializzatori, alle prese con un alleato che sarebbe eufemistico definire solo ingombrante, angustiato dalla prospettiva del crollo del fronte e di tutto il resto nella primavera successiva, il "Duce" si affidava alla retorica radicaleggiante ed esibiva un'immagine di sé ben diversa da quella dell'estate 1943.



Allora, infatti, Mussolini aveva nutrito propositi di altra natura, e lo aveva fatto in sostanziale sintonia col Sovrano. Sia il Re che il "Duce" erano, nel luglio 1943, dopo la riuscita invasione alleata della Sicilia, alla ricerca di una soluzione in grado di impedire la disfatta dell'Italia.  Era evidente a entrambi, ormai, che la guerra non poteva più essere vinta e che l'unica alternativa alla sconfitta doveva essere ricercata nel pareggio. Di qui l'insistenza con Hitler sulla necessità di un armistizio dell'Asse con l'Unione Sovietica, anche a costo di sgomberarne i territori occupati, incluso il granaio ucraino. L'obiettivo essendo quello di concentrare lo sforzo bellico sugli angloamericani, impedendo loro l'invasione del Vecchio Continente. L'assoluta sordità hitleriana nel confronti delle richieste, e delle necessità di sopravvivenza, italiane aveva convinto Re e "Duce" dell'urgenza dello sganciamento dall'alleato. Cosa facile a pensarsi, ma assai difficile a realizzarsi per la prevedibile reazione tedesca. E poi: sarebbero stati Roosevelt e Churchill disposti a recedere dalla formula di Casablanca della resa incondizionata? Sarebbero stati disposti, inglesi e americani, a negoziare una pace onorevole con l'Italia? I dubbi erano più che leciti, ma la pura e semplice continuazione a oltranza della guerra era da escludere sia per il Re, che per il "Duce".



Grandi, protagonista della seduta del Gran Consiglio, si poneva pure lui l'obiettivo dell'uscita dell'Italia dal conflitto senza essere a parte dei propositi di Mussolini approvati da Vittorio Emanuele III, che riteneva il "Duce" l'unico in grado di tentare l'impossibile: far digerire a Hitler il nostro sganciamento. In ogni caso il Re aveva già individuato in Badoglio l'eventuale successore di Mussolini, se questi avesse fallito. I vertici militari avevano anche approntato un piano di azione contro il fascismo, qualora il Sovrano avesse ordinato la rimozione del suo "Capo". Scopo di tutti era impedire la finis Italiae, credendo poco lo stesso Grandi all'affermazione di Churchill per cui il solo Mussolini avrebbe pagato per la sconfitta se fosse stato cacciato dalla Corona. Il conflitto fra l'Italia e l'Inghilterra non era infatti essenzialmente di natura ideologica, come quello fra noi e gli Stati Uniti, ma di potenza; e non sarebbe stato facile convincere i britannici di una loro convenienza a ridimensionare, non cancellare, il peso italiano nel Mediterraneo, per ragioni di equilibrio e di chiusura al comunismo (in materia Churchill era, a dire il vero, un po' più possibilista dell'intransigente e rancoroso Eden, titolare del Foreign Office). Alla soluzione del nostro caso guardavano da qualche tempo pure l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria, atterrite dalla prospettiva dell'invasione sovietica, per le quali Roma doveva fungere da apripista, onde saggiare le possibilità effettive di una negoziazione armistiziale con gli angloamericani e di un'uscita dalla guerra senza essere schiacciati dal tedeschi. Grandi, invece, dando comunque per scontata una feroce reazione hitleriana, avrebbe voluto abbinare la defenestrazione del "Duce" col "Vespro" antigermanico, mettendo Churchill di fronte al fatto compiuto di un'Italia liberatasi di Mussolini e in conflitto con l'ex alleato già prima di negoziare con l'ex nemico. Sempre nella speranza di trovar così la via per cancellare Casablanca e per convincere gli angloamericani a considerarci amici.



Il voto del Gran Consiglio costrinse il Sovrano a congedare subito Mussolini. La mozione Grandi, infatti, approvata da 19 gerarchi su 28 presenti (29 se includiamo il "Duce", non votante): non menzionava né i tedeschi, né il "Capo", né il fascismo; individuava solo nel Re il punto di riferimento coesivo dell'intera nazione; chiamava tutti a raccolta per "difendere a ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano"; chiedeva al Sovrano di assumere il comando effettivo delle Forze Armate (Vittorio Emanuele III era stato costretto a delegarlo al "Duce" nel '40) e, più in generale, di ripristinare le prerogative e la "suprema iniziativa di decisione" assegnate alla Corona dallo statuto del Regno, ponendo fine alla dittatura di Mussolini e allo strapotere del Partito fascista'. Qualora Vittorio Emanuele III avesse confermato al "Duce" la propria fiducia dopo un voto del genere, si sarebbe precluso qualsiasi possibìlità di liberarsene successivamente. La tradizionale cautela del Re venne vinta dalla considerazione che , evidentemente, il "Presidente" - come il Sovrano si ostinava a chiamare Mussolini per fedeltà al protocollo statutario - non godeva più del sostegno incondizionato dello stesso fascismo. E tuttavia, per non dare all'evento le sembianze di una lotta intestina tra "camerati", per impedire qualsiasi reazione del Partito e della Milizia fasciste, per evitare uno scontro civile, l'intervento tedesco o addirittura il collasso, attribuì esclusivamente a se stesso la decisione di congedare Mussolini senza menzionare il voto del Gran Consiglio, incaricò Badoglio di formare un governo di soli militari e funzionari, dette il via libera al menzionato piano d'azione delle Forze Armate con l'arresto del "Duce" e l'affidamento all'Esercito dell'inflessibile controllo del paese, fece proclamare a Badoglio che la guerra continuava (gli italiani si illusero del contrario e inneggiarono ingenuamente alla pace nelle manifestazioni popolari di giubilo, osannanti il Sovrano e Badoglio, seguite all'annuncio via radio della defenestrazione del dittatore).


Il piano funzionò: tedeschi e fascisti non reagirono; il paese si mantenne disciplinato anche per le severissime misure repressive adottate dalle autorità militari dato lo stato di guerra; le Forze Armate rimasero salde e in linea (ricordo che diversi ufficiali avevano la tessera fascista e magari erano ancora filotedeschi; e che non era irragionevole temere contraccolpi sulla tenuta delle truppe originati dall'illusione che la caduta del "Duce" preludesse a una rapida cessazione delle ostilità). Lo stesso Mussolini adottò un atteggiamento lealista, bene evidenziato dalla lettera che scrisse a Badoglio nella caserma allievi ufficiali dei carabinieri di Roma, dove venne trattenuto fino alla sera del 27 luglio, quando iniziò il viaggio di trasferimento per Ponza. Nella lettera, l'ex capo del governo assicurava all'ex sottoposto di non intendere creare alcuna difficoltà, e anzi di garantire «ogni possibile collaborazione". Concludendo con l'augurio «che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il Re, dei quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l'Italia!"'.

E vero che il "Duce" si dichiarava contento della decisione presa di continuare la guerra cogli alleati come l'onore e gli interessi della Patria in questo momento esigono", ma è di contro vero che da ben altre intenzioni era stato animato prima, durante e dopo il Gran Consiglio, pur non nascondendosi certo la difficoltà estrema dell'operazione di sganciamento dal tedeschi. Il 16 luglio, del resto, aveva autorizzato Bastianini, suo sottosegretario agli Esteri, a tentare discretamente un approccio con gli inglesi, magari tramite il Vaticano, ancorché a titolo puramente
personale. Finita la seduta dei Gran Consiglio, secondo la testimonianza dell'allibito segretario del PNF, Scorza, sostenitore della resistenza a oltranza, il "Duce" si sarebbe lasciato andare a riflessioni sulla possibilità che Churchill accettasse di trattare con lui (Grandi era ovviamente convinto di no) e sull'inevitabilità di una guerra iniziale su due fronti. Esclusa l'opzione di un atto di forza col sostegno tedesco, onde impedire il proprio allontanamento da parte del Re, Mussolini tentò poi la via di un rimpasto ministeriale, con la cessione del ministero degli Esteri a Grandi (l'ex ambasciatore a Londra non si fece trovare) e di Guerra, Marina e Aeronautica a militari graditi al Sovrano. Infine, la mattina del 25 luglio, egli riferì papale papale a Hidaka, ambasciatore nipponico, che "quando le armi non costituiscono più un mezzo sufficiente per fronteggiare una situazione, ci si deve rivolgere alla politica"; e chiese al Giappone di sostenere il passo energico che egli intendeva compiere presso il "Fúhrer" onde ottenere la sospensione delle ostilità sul fronte orientale. "Altrimenti - disse - l'Italia si sarebbe trovata presto nell'impossibilità di continuare la guerra e avrebbe dovuto prendere in considerazione una soluzione di carattere politico". Dato che anche nel convegno di Feltre tra i due dittatori, il 19 luglio, era apparsa chiara la non percorribilità della strada di un armistizio con l'Unione Sovietica per l'inalterata sordità hitleriana, risulta ovvio che il primo argomento serviva solo a giustificare e sostenere il secondo, addossando al tedeschi la responsabilità della decisione italiana di uscire dalla guerra.

Nel periodo successivo, le cui vicende sono ben note, i tedeschi fecero affluire in Italia i rinforzi fino a quel momento negati, raddoppiando la consistenza delle truppe germaniche nella penisola con l'intento di garantirsi comunque il controllo della Valle del Po. E ciò perché a Berlino non ci si fidava ormai più degli italiani, tanto da prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di deporre con la forza il Re e il governo Badoglio. Ovunque ritenuto necessario, nel Nord Italia e nell'Europa occupata, i tedeschi operarono al fine di neutralizzare la minaccia di uno sfilamento italiano, imponendo la propria volontà e le proprie strutture di comando, "incapsulando" le nostre truppe nelle loro, contrastando le proposte di rimpatrio di unità italiane all'estero e preparandosi all'eventualità di dover disarmare gli alleati. Vane risultarono naturalmente le rimostranze di parte italiana e chiaro apparve subito l'intendimento tedesco di muoversi a propria assoluta discrezione anche nella penisola. [...]




Il resto di questo interessantissimo articolo si trova sulla rivista Nuova Storia contemporanea. Numero 4, Luglio-Agosto 2012

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