NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 13 novembre 2012

Un Principe nella bufera



 con Roberto Coaloa


Nell’estate 1943, il gerarca Giuseppe Bottai annotava sul suo diario l’operato del «Marchese di Caporetto», salvato da Mussolini e diventato - dopo il 25 luglio – il nuovo protagonista della politica italiana. Un conte intimo di Casa Savoia, invece, non giudicava le gesta del Maresciallo Badoglio, ma osservava lucidamente: «Questo “25 luglio” era forse, ormai, una necessità scontata. Ma non in questa maniera! E poi avrei voluto che, contemporaneamente Sua Maestà abdicasse seguendo la sorte dell’Uomo cui “la piena volontà del popolo italiano” lo aveva legato per vent’anni. Umberto II, assumendo la Corona, non essendo compromesso in alcun modo con la politica di tutti questi anni, sarebbe forse stato il solo a poter dettare una onorevole via d’uscita dal conflitto. Ed in caso di reazione tedesca, Lui sarebbe il solo Capo che potrebbe fare, abbastanza decentemente, impugnare le armi contro l’ex alleato».
Era il conte Francesco di Campello (1905-1983), amico d’infanzia del Principe Umberto di Savoia, il suo ufficiale d’ordinanza dal 15 gennaio 1943 al 20 giugno 1944. Il diario del conte è un documento eccezionale, una fonte di primaria importanza fino ad ora inedita, che svela in maniera definitiva gli avvenimenti del dopo 8 settembre 1943. Le pagine di Campello sul trasferimento del Re Vittorio Emanuele III, del Principe Umberto e del governo Badoglio nel Sud, sono la fonte storica più attendibile, puntuale e minuziosa, di quelle caotiche giornate. Esse mettono in luce, tra l’altro, il ruolo che il principe Umberto avrebbe potuto assumere restando a Roma. Inoltre racconta una vicenda che tuttora era sconosciuta agli storici: Francesco di Campello, membro della Regia Aeronautica, aveva persino predisposto un piano per il rientro in aereo di Umberto a Roma. Intervenne Badoglio sul debole Re e il piano non fu portato a termine.
Il conte scrisse il 9 settembre 1943: «Alle 16 partiamo tutti per il campo di Pescara. Incontro lì Picci Ruspoli. Anche lui è disperato e piange come un ragazzo. Appena giunti all’aeroporto di Pescara, si riuniscono in una stanza del comando aeroporto, L.L.M.M., il Principe, Badoglio, Acquarone. Ci sono anche Sandalli, Ambrosio e De Courten. Ruspoli che era andato col suo caccia fino a Grottaglie, assicura che quel campo è sgombro dai tedeschi. Si discute a lungo la partenza in aereo e intanto il tempo passa. De Courten insiste per partire con una corvetta che ha fatto arrivare a Ortona. E questa tesi prevale. Non so se è stato a questo momento che S.A.R. ha detto la sua decisione di tornare a Roma. Pare che Sua Maestà abbia taciuto, in principio, e solo dopo la violenta opposizione di Badoglio, Acquarone e, pare, della regina (questa comprensibilissima per una madre), abbia messo il suo veto assoluto a questa decisione di S.A.R. – La storia dirà se sarebbe stato meglio o peggio. Una cosa è certa. Che la decisione di partire per mare anziché con l’aereo, è stata determinante; perché in questo caso, l’aereo di S.A.R. avrebbe atterrato a Roma la stessa sera del giorno 9 settembre 1943».
Chi era il conte? Era pressoché coetaneo del Principe di Piemonte: Francesco di Campello era nato a Roma il 9 maggio 1905 e Umberto di Savoia nel Castello di Racconigi il 15 settembre 1904. La famiglia Campello era stata protagonista nel Risorgimento accanto a Casa Savoia. Pompeo Campello, per esempio, fu un giobertiano, un cattolico liberale che si era riconosciuto nell’Italia di Re Vittorio Emanuele II, assumendo il ministero degli Esteri durante il governo di Urbano Rattazzi, mentre il figlio di Pompeo, Paolo, fu marito di Maria Bonaparte e un politico di primissimo piano nell’Italia umbertina. Francesco era il terzo di cinque figli – tutti ufficiali di cavalleria – che lasciarono una impronta nella storia italiana e nella tormenta della Seconda guerra mondiale. Lanfranco, considerato uno dei migliori ufficiali del SIM, addestrò in Africa settentrionale uno speciale reparto di commandos formato da familiari residenti in Tunisia, conoscitori della lingua araba, dei costumi e dei luoghi. Ranieri, olimpionico di equitazione a Berlino, combatté in Russia con il Savoia Cavalleria e comandò un leggendario squadrone sul fronte del Don. Giovanni fu, invece, esploratore in Africa e prigioniero per sei anni in India.
Il Nostro, che ebbe un ruolo delicatissimo nel 1943 accanto al Principe del Piemonte, era sposato a Fanny dei marchesi Dusmet, dalla quale ebbe quattro figli: Pompeo, Donatella, Flavia ed Emanuela. La fedeltà dinastica di Campello non venne mai meno e i rapporti con Umberto, che lo nominò poi aiutante di campo, proseguirono anche quando il Sovrano si ritirò in esilio a Cascais. Del suo diario fece pervenire una copia a Umberto, che aveva espresso il desiderio di leggerlo, ma non pensò mai, pur consapevole del grande valore che esso aveva e ha come fonte storiografica, di renderlo pubblico, probabilmente per i tanti riferimenti privati e giudizi dati a caldo su personaggi ancora vivi, come il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, che intanto dettava le sue memorie tra il buen retiro di Grazzano, in Monferrato, e Roma. Nel 1946, all’avvento della Repubblica, rifiutò di prestare giuramento, fu collocato nella riserva di complemento e si occupò della Federazione Pugilistica Italiana, ricoprendone a più riprese la carica di presidente, proprio nel periodo più glorioso della boxe italiana. Infine fu anche presidente, come il fratello Lanfranco, del Circolo della Caccia, fondato nel 1869, una delle istituzioni più antiche e simboliche della Capitale.
È questo di Campello un diario da leggere e da meditare. L’asprezza verbale del conte non risparmia nessuno, neanche i collaboratori del Re, ma va ricondotta al clima del tempo e alla delusione di fronte alle dure accuse rivolte contro i Savoia e in particolare al Principe Umberto, accusato da Mussolini nei suoi radio-discorso del settembre 1943 di non essere mai stato sul fronte. Per il conte, un uomo nutrito di ideali conservatori e liberali, le accuse rivolte alla Dinastia assumevano il significato di un tradimento.
Per questo motivo, il 3 novembre 1943, al termine di una giornata che aveva visto il Sovrano applaudito dalla folla nelle strade di Napoli, Campello denunciava, quasi come contrappunto alle manifestazioni di simpatia, le manovre messe in atto per eliminare dalla scena non soltanto Vittorio Emanuele ma anche Umberto: «Badoglio è stato a Napoli in questi giorni dove si è incontrato con Croce e con Sforza; e ieri sera la Radio Londra ha comunicato che in questa riunione i tre gentiluomini avrebbero constatato e deciso che l’unica via era quella della rimozione di S.M. il Re e di S.A. e la creazione di una reggenza del piccolo Principe di Napoli, con particolare esclusione come reggenti, di S.A. e del duca d’Aosta. Mi sembra dopo questo, che non sia più discutibile quello che ho sempre pensato di Badoglio. Del resto chi ha tradito una volta, tradirà sempre». Povero Maresciallo d’Italia: dileggiato e incompreso. Ma forse aveva ragione Bottai quando scrisse che, dopo il 25 luglio, «Badoglio reagì secondo la sua natura silenziosa, rancorosa, chiusa, limitata, da piemontese militare: il che significa due volte militare e due volte piemontese».


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