NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 22 settembre 2013

Ci impedirono di chiudere le porte al Fascismo



di Ivanoe Bonomi

E resero possibile la marcia su Roma

Rivelazioni di Bonomi sul tentativo di Turati nel 1922

Intorno alla marcia dei fascisti su Roma compiuta Il 28 ottobre 1922 molto si è scritto e molto si è documentato. Ma poco invece si sa circa Il contegno del mondo parlamentare e circa la sua inopinata inerzia prima e dopo l'avvenimento. Si tenga presente che nel 1922 la Camera dei Deputati comprendeva, di fronte a una trentina di deputati fascisti, oltre un centinaio di deputati popolari (gli attuali democristiani), altrettanti socialisti di tendenza democratica e parecchie decine di democratici di tutte le tinte, dal cosiddetti democratici sociali al democratici liberali. Dunque nella Camera dei Deputati (e altrettanto deve dirsi per il Senato) una forte maggioranza avrebbe potuto opporsi ai metodi violenti adottati dal fascisti e costituire tempestivamente un argine contro il loro dilagare e contro i loro piani insurrezionali. Perché non si è tentata una difesa sul terreno parlamentare? Perché la Corona non ha trovato nel Parlamento lo strumento atto a reprimere un movimento che apertamente confessava dì volersi impadronire con la forza dello Stato?
A queste domande occorre dare qualche risposta.
E' risaputo che nel dopoguerra 1919-1922 l'instabilità del governo era diventata un pericolo mortale per il regime parlamentare. In brevi anni l'Italia aveva visto succedersi al ministero Orlando i ministeri Nitti, Giolitti, Bonomi e Facta e aveva assistito a crisi lunghe ed estenuanti dove il prestigio dello Stato veniva compromesso e abbassato nelle più meschine diatribe e nelle più miserevoli gare. La radice del male era nel rifiuto a collaborare di una grossa frazione della Camera: il gruppo socialista, che già costituito da quasi un terzo dell'assemblea prima delle elezioni del 1921, era pur sempre rimasto, per il suo numero e per la sua combattività oppositrice, l'elemento determinante della situazione. La presenza di questo gruppo sempre schierato per la sua intransigenza dottrinale all'opposizione, permetteva a tutti i gruppi e i gruppetti della Camera di giuocare a cuor leggero al rovesciamento del Gabinetto, con uno di quelli assalti alla diligenza dove chi attaccava sapeva d'aver sempre alleate le formidabili forze dell'estrema sinistra. Da ciò non solo nasceva il discredito del regime parlamentare con il pullulare di invocazioni alla dittatura (considerata come un rimedio alla crisi perpetua dello Stato), ma derivava anche una irrimediabile debolezza di tutti i Governi che, nati provvisori e vissuti nella precarietà della situazione, non potevano fare alcun atto di forza e neppure infondere energia e risolutezza alle loro burocrazie sfiduciate e disorientate.
Nel luglio del 1922 questa situazione parve doversi chiarire. Una discussione sulla politica interna del Gabinetto Facta aveva avuto per argomento il pericolo fascista, la necessità conclamata di ristabilire il rispetto della legge, la deplorazione delle violenze antiche e recenti di cui il fascismo era apertamente dichiarato responsabile. I 253 voti contrari, contro 89 favorevoli, con cui la Camera votava contro il Governo nella seduta del 19 luglio 1922, significavano che coloro che si erano decisi a condannare il Governo per la sua politica interna erano anche decisi a volere una politica contraria, cioè una politica di difesa energica delle libertà fondamentali dello Stato. E poiché in quei 253 voti di maggioranza avevano confluito popolari (democristiani) e socialisti insieme ad alcune frazioni liberali e democratiche, era logico che il nuovo Governo dovesse essere fondato su queste forze e dovesse essere l'espressione genuina della nuova maggioranza.
Ma la realtà fu purtroppo diversa.
Il primo uomo politico a cui la Corona, sulla designazione dei capi gruppi politici, confidò l'incarico di formare il nuovo Governo fu l'on. Orlando. Egli naturalmente lavorò nel solco tracciato dal voto del 19 luglio. Ma avendo opinato di tentare un ministero di conciliazione nel quale fossero rappresentati a destra i fascisti e a sinistra i socialisti Orlando incontrò le nette ripulse dell'una e dell'altra parte. Effetto di queste ripulse fu la sua decisione di declinare l'incarico nel pomeriggio del 24 luglio.
Io ero in quel momento a casa ad attendere dai giornali del pomeriggio le notizie della crisi, quando inaspettatamente venne a trovarmi I' amico Filippo Turati. Le varie vicende della vita socialista italiana avevano allentati i legami che un tempo ci avevano strettamente avvinti; ma rimaneva fra noi una amicizia profonda maturata in lunghi anni di collaborazione cordiale ed assidua. Egli aveva per me l'affetto d'un fratello maggiore e giudicava con imparziale serenità la mia opera nel Governo e nel Parlamento. Della mia opera sulla fine del 1921, in difesa delle organizzazioni proletarie contro la violenza fascista, egli dava un giudizio favorevole. Aveva approvato l'organizzazione difensiva affidata per la bassa valle padana da me, allora Presidente del Consiglio, ad un prefetto di polso, il Mori (che fu poi inviato in Sicilia a combattervi la mafia), e di quella difesa vigile e pronta (con una specie di «Celere» avanti lettera) aveva riconosciuta l'efficacia. Così egli sempre levato contro le malevoli voci, provenienti da qualche settore deteriore della Camera, che accusavano me e Giolitti di aver armato i fascisti con le armi dell'esercito: sciocche storielle che uscivano dalla malignità per finire nel ridicolo.

Ma l'improvvisa visita dei Turati aveva un ben determinato fine. Egli mi avvertì subito che ormai alla Camera si dava per certo che, dopo il ritiro dell'on. OrIando la Corona si sarebbe rivolta a me per affidarmi l'incarico di costituire il nuovo ministero e pertanto occorreva intendersi circa la soluzione da darsi alla crisi. Per suo conto, e precorrendo le deliberazioni del suo gruppo parlamentare egli riteneva doversi costituire un Gabinetto poggiato sulle forze espresse nel voto del 19 luglio, dove, tranne i voti fascisti dati per motivi di opportunità tattica, si erano raccolti in blocco popolari, socialisti, e democratici.

Io risposi subito al Turati che condividevo interamente la sua valutazione della situazione parlamentare, e che avrei ritenuto inutile anzi dannoso costituire un Gabinetto non rispecchiante tutta la nuova maggioranza. Infatti un Gabinetto che fosse sorto su basi malferme e con la continua sistematica opposizione dei socialisti non avrebbe avuto la forza di resistere all'impetuosa ondata fascista e si sarebbe, come i ministeri precedenti, logorato in una debolezza congenita distruttrice dell'ultima residua autorità dello Stato. Ma che avrebbero fatto i socialisti nella presente situazione?

Filippo Turati non lasciò finire la domanda senza rispondere immediatamente e con estrema chiarezza. Egli mi disse che i più autorevoli socialisti ritenevano ormai che un'opposizione perpetua diretta a combattere tutti i ministeri avrebbe finito per fare il giuoco dei fascisti; che occorreva pertanto uscire dalla sterile intransigenza che il rivoluzionarismo massimalista aveva fatto prevalere, e che, con una chiara aperta decisione di appoggiare un Governo dì difesa, si sarebbe potuto entrare nella maggioranza per sostenervi l'opera del Gabinetto.

Naturalmente io chiesi se questo appoggio, che Turati mi assicurava potersi concretare in un impegno scritto di quasi cento deputati socialisti, potesse arrivare fino alla partecipazione di qualche autorevole socialista al Gabinetto. Tale partecipazione, non solo avrebbe legato di più il gruppo al Governo, ma avrebbe dato la sensazione precisa al Paese che i socialisti, già sospettati d'essere elementi di disordine e di sovversione, accettavano le responsabilità del potere disposti a far rispettare da tutti, anche da loro stessi, le leggi dello Stato.

Qui Turati fu preciso e esplicito. Personalmente egli era del mio avviso che il passo dovesse farsi e che la fobia del potere non dovesse durare. Un grande partito con un fortissimo gruppo parlamentare non può a lungo, per ideologie rivoluzionarie inconcludenti, escludersi dal Governo. Ma tale era la resistenza delle vecchie formule, l'ossequio alle antiche tradizioni, che un mutamento così radicale non avrebbe avuto fortuna. Bisognava pertanto accontentarsi di un preciso, chiaro, irrevocabile impegno di sostenere il Governo votando per lui nei voti politici del Parlamento.

Io mi arresi alle esortazioni del Turati. Avrei fatto un governo di sinistra con l'appoggio dei socialisti ma senza la presenza dei socialisti. Programma: la difesa contro l'ondata di illegalità e di violenza che abbatteva le organizzazioni politiche ed economiche degli avversari del fascismo e minacciava lo Stato di un colpo di mano rivoluzionario.

Intanto, durante la conversazione, il telefono squillava. Era il generale Cittadini che mi convocava al Quirinale per invito del Re. Indubbiamente si trattava dell'incarico ufficioso preannunziatomi dal Turati.
Andai dal Re con l'impressione vivissima del mio colloquio col «leader» socialista. Sebbene fosse nelle consuetudini che, all'invito del Re, l'incaricato si riservasse di dare una, risposta dopo il necessario sondaggio parlamentare, io, bruciando le tappe, gli riferii subito la mia conversazione col Turati dichiarandogli che, pur di fare un Governo con una salda maggioranza, avrei accettato l'adesione socialista benché diminuita della loro non partecipazione al Governo. Di ciò il Re si mostrò contentissimo. Era da tempo che egli deplorava l'instabilità delle maggioranze parlamentari, il loro rapido farsi e disfarsi la loro isterica mutabilità che contribuiva alla debolezza del Governo e alla sua perpetua perplessità. La nuova soluzione, pur non essendo ancora l'ingresso dei socialisti al potere, ne era il preludio. Forse un preludio breve che avrebbe terminato col trionfo della logica. Ad ogni modo il Re incoraggiava il mio tentativo e, uscendo dal consueto riserbo, mi augurava calorosamente di riuscire.
Non posi indugi alla difficile opera. Rividi subito il Turati, che aspettava, nel mio studiolo, il mio ritorno. Conferii con alcuni eminenti popolari. Anche il loro gruppo (il gruppo democristiano come si direbbe ora) era favorevole al tentativo pur non dissimulandosi le gravi difficoltà. L'on. Meda, che ne era il «leader», mi dava pubblicamente il suo incoraggiamento. Né insuperabili ostacoli opponevano i gruppi democratici sebbene le loro rivalità personali rendessero difficili, le intese.

Sennonché nel giorno successivo tutto quell'edificio crollò dalle fondamenta. Il gruppo socialista, sulla cui avvedutezza aveva contato il Turati, non volle arrendersi alla dura realtà. I massimalisti, ipnotizzati dal grande sogno di una vicina palingenesi, per la quale occorreva mantenersi immuni da contatti impuri, avevano silurate le intese e rese impossibili le più ragionevoli soluzioni. Quando, il mattino successivo, Turati, ormai scoraggiato per l'esito della sua vana battaglia, mi condusse a casa gli interpreti autorizzati del gruppo socialista, capii subito che la partita era perduta. L'on. Modigliani, incaricato egli non massimalista, di spiegare e attenuare le intransigenze dei suoi amici di sinistra cercò di medicare la ripulsa con questo surrogato il Governo avrebbe contato, volta a volta sul benevolo atteggiamento dei socialisti senza però che questi prendessero un preciso impegno di appoggiarlo in tutta in sua opera nella continuità della sua azione.

Era una proposta inaccettabile. Nell'ora tragica che si attraversava, mentre Mussolini minacciava alla Camera la guerra civile qualora si volesse arrestare il suo movimento, fondare un Governo sulla eventuale benevola accoglienza di un grosso gruppo parlamentare diventava una avventura da disperati.

Invano io dimostrai che l'ora non consentiva mezze misure che il pericolo era mortale e che per evitarlo occorreva superare le formule antiche del l'intransigenza rivoluzionaria. Alle mie esortazioni e a quelle accorate di Filippo Turati, che fu, per suo destino, un veggente inascoltato, si rispose che i socialisti avevano diritto, per la Carta costituzionale, d'esser difesi nelle loro persone e nelle loro cose, senza che per tale difesa essi dovessero deflettere dalla intransigente custodia della loro verginità politica che non ammetteva né connubi, né stabili accostamenti.

Nella serata del 26 luglio io riferii al Re le difficoltà incontrate e la mia inclinazione a deporre l'incarico. II Re ne fu sinceramente rammaricato, contava molto sul nuovo e sperato atteggiamento dei socialisti e aveva fiducia nella loro resipiscenza. Perciò mi esortò a tenere il mandato per fare nuove insistenze e nuovi tentativi. «Chiami», mi disse, «questa notte i suoi amici socialisti e veda di persuaderli ».

L'attesa non ebbe successo. Le mie nuove insistenze non ebbero risultato. La corrente massimalista teneva in soggezione il gruppo socialista e anche nobili spiriti (che di li a poco dovevano far parte da sé) non sapevano ancora ribellarsi alla sua tirannia.
Nel giorno di mercoledì 26 io andai dal Re per declinare definitivamente il mandato.
Il Re interpellò alcuni parlamentari di primo piano, come Luigi Meda e Giuseppe De Nava, poi nell'impossibilità di creare una situazione nuova, richiamò Luigi Facta che rifece un Gabinetto destinato a brevissima vita.
Così, a poco più di tre mesi dalla marcia fascista su Roma, nasceva si svolgeva e finiva l'estremo tentativo di opporre dal di dentro (dal Parlamento e dallo Stato) un argine solido al dilagare della violenza fascista.

Mancato quell'argine per l'incomprensione di quelli stessi che dovevano per primi esserne sommersi, l'ondata fascista non trovò alcuna barriera e quando il 28 Ottobre 1922 essa inviò le cosiddette legioni su Roma trovò la strada aperta e tutti i poteri dello Stato o inefficienti o travolti.
Ivanoe Bonomi

da Europeo 7 novembre 1948, pag 5



I monarchici si scagliano contro la via intitolata a Gaetano Bresci. La Città si spacca

La scelta toponomastica risale ad una quarantina di anni fa. L'iniziativa fu dello scrittore Armando Meoni, allora consigliere socialista.

A Carrara si è discusso per anni se innalzare o meno un monumento a Gaetano Bresci, l'anarchico che uccise nel 1990 il re Umberto Primo, mentre in questi giorni a Prato la discussione che agita la città laniera è se revocare o meno l'intitolazione di una strada al regicida: l'iniziativa è dell'associazione di sentimenti monarchici Nastro Azzurro, che ha presentato in Comune, amministrato dal centrodestra, una settantina di firme per chiedere che via Bresci cambi nome.

La notizia è stata pubblicata dalla cronaca locale de La Nazione che ha anche indetto un referendum sul proprio sito: ad ora i contrari al cambio di nome sono oltre il 70%. La via che porta il nome di Bresci, tra l'altro, è una specie di strada fantasma in cui non è residente nessuno: è in realtà un tratto di asfalto che costeggia Piazza del mercato nuovo, sulla quale si affacciano solo due o tre capannoni.

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giovedì 19 settembre 2013

La Monarchia e il Fascismo - quarto capitolo - XV

Deliranti dimostrazioni al Re per il Ministero di Concentrazione Nazionale: liberali, democristiani, demosociali, nazionalisti, vanno al governo con Mussolini e sanzionano la marcia su Roma e l'operato del Sovrano.
Il Re, affiancato da Diaz e Thaon de Revel, assiste alla sfilata delle Camicie Nere

Mussolini ha composto il Ministero che ha sottoposto all'approvazione del Re poche ore dopo l’udienza nella stessa serata del lunedì. Vi entrano 4 fascisti 2 popolari, 2 democratici sociali, 1 nazionalista, 1liberale, 3 senatori ed un'altro da nominarsi, il Gentile, liberale raccomandato da Benedetto Croce. Fra i sottosegretari vi sono 9 fascisti, 2 nazionalisti, 2 democratici sociali, 4 popolari, 1 liberale di destra. Questo Ministero di Concentrazione Nazionale è la sanzione del Parlamento e del popolo italiano alla condotta del Re. E' stato battezzato «il Ministero dell'Italia di Vittorio Veneto» e si nota con compiacimento la presenza in esso dei due esponenti delle Forze Armate, Diaz e Thaon di Revel.

L'Osservatore Romano, in un commento alla lettera del Papa di pochi giorni prima nella quale si indicava ai poteri civili quanto tesoro di energia risanatrice sia riposto nell'ordine e nella pace soprattutto nei momenti gravi della vita di un popolo, così conclude: «Noi possiamo constatare pertanto con la più viva soddisfazione come, alla pia esortazione di Pio XI abbiano fin qui corrisposto i propositi del supremo potere, la volontà dei partiti dirigenti e quegli stesso che oggi è chiamato a comporre il Governo, giacché furono impedite quelle misure straordinarie che potevano in momenti sì minacciosi degenerare in sanguinosi conflitti fratricidi, e vennero chiamati alla disciplina più rigida e al rispetto di tutti i diritti civici gli autori di deplorate violenze».
Il Gran Maestro della Massoneria, Domizio Torrigiani, in una circolare alle Loggie dipendenti, dopo avere data ampia libertà ai fratelli di rimanere nei fasci dove essi sono numerosi, così termina: «Una forza nuova entra a partecipare alla vita della Nazione. La Massoneria non può augurarsi se non che questo accada per il bene d'Italia, la quale è religione per noi». Massoneria e repubblicani furono i primi a congratularsi con Mussolini, e senza alcuna riserva. Alla Massoneria aderivano in prevalenza elementi socialisti riformisti e repubblicani o quanto meno democratici di sinistra accentuata. In quei giorni si parlava molto di considerevoli somme di danaro, uscite dalle casse delle Loggie per finanziare la marcia. Questa voce è confermata da Nitti nelle sue Rivelazioni.

Nel pomeriggio di martedì, 31 ottobre, i fascisti (che sono entrati in Roma soltanto dopo l'arrivo di Mussolini) da piazza del Popolo sfilano per il Corso Umberto e si recano al Milite Ignoto. Il grande corteo ha in testa ufficiali, generali dell'esercito, fra questi il generale Cappello uno dei capi della Massoneria, soldati e marinai esultanti. Attraverso due fitte ali di cittadini dopo avere sostato a Piazza Venezia gremita, il corteo raggiunge il Quirinale, dove appare il Re al balcone, fra il Generale Diaz e l'Ammiraglio Thaon di Revel. La sfilata è durata 6 ore, dalle 13 alle 19 fra evviva e canti di gioiosa gloria del popolo che applaude e delira.

Ventidue anni dopo, gli stessi che oggi hanno acclamato e cooperato all'avvenimento, per sfuggire alle proprie responsabilità chiameranno l'operato del Sovrano un «atto incostituzionale fatto contro la volontà popolare»!

sabato 14 settembre 2013

Non si possono sostenere tesi contrarie a quelli dei neoborbonici...

Il calcio malato di BASTARDI SAVOIA , BASTARDI RUBENTINI

Carissimo direttore, 
mi devi scusare ma per un periodo di tempo sospendo la pubblicazione di scritti storici sul presente portale aventi quale argomento il Risorgimento. Pubblicherò solo quelli relativi alla Repubblica Napoletana del 1799, destinati anche al Nuovo Monitore Napoletano.
Non ti dico quanti insulti, offese dopo aver pubblicato i due scritti sulla camorra nell'esercito borbonico e sulla menzogna di stampo neoborbonico di Fenestrelle.

Quello che è poco edificante, oltre all'invito a trasferirmi a Torino, riguarda un'accettabile associazione pressocchè costante di commenti offensivi che si compendiano quasi sempre in BASTARDI SAVOIA, BASTARDI RUBENTINI.

Ciò fa intendere che c'è un calcio che ha preso ormai la connotazione di calcio malato, diventato preda di tifosi estremisti che associano il loro estremismo calcistico ai percorsi storici.

C'è quindi il rischio di essere coinvolto in una diatriba che non ha il più delle volte alcunché di connessione con gli eventi storici, ossia il preoccupante odio dettato da un estremismo calcistico che, grazie a Dio, noi di una certa età non abbiamo conosciuto .

Pertanto mi scuserai se per un periodo di tempo sul presente giornale on line sospendo la pubblicazione di scritti storici riguardanti il Risorgimento. 

Mi dedicherò esclusivamente agli eventi storici della Repubblica Napoletana del 1799 in quanto , riguardo a tali eventi, nessuno potrà, lo spero, ripetere BASTARDI SAVOIA, BASTARDI RUBENTINI, essendo argomento storico in cui i Savoia non c'entrano per niente e ovviamente neanche i RUBENTINI, che pensavo fossero i seguaci del grande pittore RUBENS...ma poi mi sono accorto che tale termine si riferiva ai calciatori e tifosi juventini.

Angelo Martino
redazione



Asta Bolaffi Arredi e dipinti 25 settembre 2013

venerdì 13 settembre 2013

Vivere in Italia non è più bello perché un po’ del nostro cuore è in esiIio.


E' una frase contenuta in una delle migliaia di lettere scritte a Re Umberto durante il suo esilio, riportate in un bell'articolo di Enzo Saini.
Nel 109 ° anniversario della Sua nascita il sito  www.reumberto.it  ricorda il Re.

http://www.reumberto.it/saini52.htm

mercoledì 11 settembre 2013

I Savoia vanno all'asta: Amedeo vende i beni di famiglia

 di Pierre de Nolac  



Festeggiare un compleanno vendendo i cimeli di famiglia: l'idea è venuta non solo ai comuni mortali, ma anche ad Amedeo d'Aosta, che in occasione del suo settantesimo genetliaco ha consegnato alla casa d'aste Bolaffi le collezioni di oggetti storici per ottenerne il miglior prezzo. L'appuntamento, per i fan monarchici, è fissato per il prossimo 25 settembre a Torino, in via Cavour: qui si potranno acquistare lotti di argenti, porcellane, posate e tovaglie provenienti da palazzo San Rocco di Castiglion Fibocchi, insieme a quadri, stampe, alberi genealogici, volumi, album, fotografie, coppe e monili d'oro.

Il catalogo, che si trova su internet alla pagina 
offre affari per tutte le tasche: c'è una stima di 150 euro, per esempio, per un tavolino rotondo in stile impero con cassetto, e la stessa cifra per una scatola cilindrica con coperchio in argento sbalzato a costolature, a 200 euro il catalogo dell'armeria reale, così come un gruppo di libretti di teatro e partiture musicali.
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Amedeo d’Aosta mette all’asta i gioielli di casa Savoia

Invitiamo gli amici che possono permettersi queste spese a tenere conto dell'appuntamento.



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ALLA VIGILIA DEI 70 ANNI - L’appuntamento è in via Cavour 17, a Torino, nella sala della casa d’aste Bolaffi, il 25 settembre, due giorni prima del 70° compleanno di Amedeo d’Aosta. All'asta, ben 270 lotti di ottima qualità con un importante valore storico.


IL TESORO ALL'INCANTO - Sul settimanale Oggi in edicola, tutte le immagini e le descrizioni degli oggetti che il duca mette all’incanto. Ad Amedeo d’Aosta, evidentemente, non è bastato vendere ai Ferragamo la tenuta del Borro, 700 ettari da sogno sulle colline di Arezzo. Così, dagli armadi di Palazzo San Rocco a Castiglion Fibocchi (Arezzo) sono usciti argenti, porcellane, posate e tovaglie. Dai muri sono stati staccati quadri, stampe, alberi genealogici. Dai mobili sono spariti soprammobili, sculture, candelabri. I cassetti sono stati svuotati da ventagli, orologi, stemmi. Dagli scaffali sono stati tolti volumi, album e fotografie. Dai caveau delle banche coppe e monili d’oro.

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http://www.oggi.it/focus/personaggi/2013/09/10/amedeo-daosta-mette-allasta-i-gioielli-di-casa-savoia/



lunedì 9 settembre 2013

La Monarchia e il Fascismo, quarto capitolo - XIV

Facta prospetta l'eventualità dello Stato d'assedio ma capi partito di sinistra, di centro, di destra, ex presidenti del Consiglio, i capi dell'Esercito e della Marina consigliano il Re di chiamare Mussolini al governo.

Alla mezzanotte del 27 ottobre la mobilitazione fascista è stata proclamata in tutta Italia, e poche ore dopo alle 4,30 di mattina del 28, si raduna il Consiglio dei Ministri e su proposta del Ministro dell'Interno Taddei viene decisa la proclamazione dello Stato d'assedio a partire dal mezzogiorno, e si fanno interrompere le linee ferroviarie intorno a Roma. Il governo ritiene di poter contenere il movimento per il solo fatto di questa misura di carattere eccezionale, ma dalle città specialmente della Toscana e dell'Umbria arrivano notizie che il movimento fascista ha avuto il sopravvento Ecco la cronaca dell'avvenimento, quale la riferisce il corrispondente del Corriere della Sera e che ci è risultata - nella sostanza - concordante con quella degli altri quotidiani:
«Alle ore 16 del mattino di sabato 28 ottobre si presentano al Viminale e chiedono di conferire con l'on. Facta, l'on. Federzoni e Forges-Davanzati, segretario della Giunta Esecutiva Nazionalista. I due delegati chiedono all'on. Facta se avesse ancora contatti coi dirigenti del movimento fascista. Alla risposta negativa i due si offrono di ristabilirli, e dallo stesso ufficio del Presidente del Consiglio si mettono in comunicazione con Mussolini a Milano e con De Vecchi a Perugia. De Vecchi consente a partire per Roma ma Mussolini, già invitato a venire a Roma dall'on. Facta la sera prima, rinnova il rifiuto di muoversi.
«L'on. Facta, recatosi alle ore 9 al Quirinale per presentare alla firma il decreto per lo stato d'assedio, riceve un rifiuto e deve tornare al Viminale per riferire sulla nuova situazione al Consiglio. Allo scopo di ottenere un parere chiama al Viminale anche l'on. Tittoni e De Nicola ed ha con essi un lungo colloquio. Si presume che la situazione abbia uno sbocco convergente delle due parti contrastanti, e cioè un accordo per un ministero nel quale entrino a far parte i fascisti.
«II Consiglio dei Ministri, di fronte alla nuova situazione autorizza l'Agenzia Stefani a diramare il comunicato con cui avverte che il provvedimento per la dichiarazione dello stato d'assedio non ha più corso. Poiché questo comunicato viene diramato pochi minuti dopo mezzogiorno, in realtà lo stato d'assedio non è mai stato applicato» (1).
Le forze fasciste intanto si avvicinano alla Capitale, acclamate al loro passaggio dalle popolazioni rurali dei paesi e dei villaggi. Contemporaneamente il Re inizia le sue consultazioni. In mattinata ha ricevuto l'on. Federzoni e quindi il Presidente del Senato on. Tittoni. A mezzogiorno si reca dal Sovrano l'on. Facta a comunicare le ultime notizie giunte dalle provincie. Nel pomeriggio riceve il Presidente della Camera De Nicola e successivamente gli on. Cocco-Ortu, De Vecchi Orlando, De Nava e Salandra. Sono stati invitati ma non sono ancora giunti gli on. Giolitti (2) e Mussolini. Alle 17 il Re riceve nuovamente il Presidente del Consiglio dimissionario e poi, per la seconda volta sia l'on. De Vecchi che l'on. Salandra. Questi intanto si abbocca con Ciano, De Vecchi e Federzoni con Grandi e poi ancora con De Vecchi e Ciano. Evidentemente vi è un orientamento a costituire un Ministero Salandra con la partecipazione dei fascisti. Manca soltanto la risposta di Mussolini, che finisce di rifiutare, mentre alcuni parlamentari affacciano l'ipotesi che la situazione non possa avere altra via d'uscita che con un incarico a Mussolini: il partito che ha determinato la crisi è il fascista e poiché si tratta di crisi extra parlamentare, è Mussolini che deve avere l'incarico. Egli pertanto fa sapere che non intende formare un ministero di minoranza, cioè esclusivamente di fascisti, ma è sua intenzione allargare notevolmente la base del futuro gabinetto con la partecipazione di alcuni gruppi parlamentari.
In un primo tempo pare che Mussolini voglia rivolgersi piuttosto verso sinistra per arrivare sino ai gruppi di avanguardia repubblicana. Infatti questi lanciano subito un ordine del giorno di adesione: «I  repubblicani dissidenti, anche a nome dei tanti che solo l'abitudine della tessera tiene apparentemente disciplinati e sostanzialmente ignari; il Partito Mazziniano Italiano, che da due anni, antesignano solitario, additò ai repubblicani il fascismo come movimento e fenomeno nel quale poteva trovare i suoi termini iniziali l'avvento della nuova Italia; l'Unione Mazziniana Nazionale sorta recentemente per raccogliere in un fascio tutti coloro che vogliono redenta e grande l'Italia nel sistema mazziniano; l'Unione Socialista Nazionale che affratella in una decisa volontà di lavoro e di redenzione morale e civile tutti i figli d'Italia per il fine della sua grandezza allo interno e all’estero per sostituire alle divisioni e alle lotte di classe l'unità del popolo; dinanzi al fascismo militante, che lotta per il rinnovamento della vita nazionale, dispiegano le loro bandiere e affiancano le loro milizie pronti a vincere e a immolarsi perché la patria viva e rifioriscano le speranze e le forze del popolo lavoratore che delle fortune della Patria è il sovrano artefice».
In seguito al rifiuto di Mussolini a partecipare al Ministero Salandra, questi si reca la domenica mattina - 29 ottobre - alle ore 10 al Quirinale ad annunziare al Re che declina l'incarico di comporre il nuovo gabinetto e designa Mussolini come l'uomo che possa, nelle presenti circostanze, formare il nuovo ministero. Mussolini, chiamato dal Re, parte immediatamente per Roma.
Più o meno sono tutti favorevoli alla soluzione Mussolini, esclusi i socialisti e i comunisti. La verità è che oramai il socialismo è debellato: la grande lotta col fascismo, iniziatasi sul finire del 1920, minata anche dai contrasti di tendenze, dopo la sconfitta dell'occupazione delle fabbriche è costretto a mettersi sulla difensiva. Alla vigilia della marcia su Roma è sloggiato anche dalle ultime posizioni. Nelle competizioni con massimalisti e comunisti il proletariato, preso fra due fuochi, anzi fra tre fuochi, disilluso e stanco passa dall'altra parte. Lo sciopero dell'agosto, proclamato dall'Alleanza del Lavoro aveva determinato la grande disfatta. Fu da quel momento che il potere effettivo passò nelle mani dei fascisti, essendosi Facta dimostrato impotente a ristabilire l'autorità dello Stato.
Il Partito Popolare, che alla vigilia degli avvenimenti era ancora diviso fra chi voleva stringere un blocco coi fascisti e quelli che avrebbero voluto accordarsi con le masse avverse, finisce ad essere il primo a dare esplicitamente la sua adesione. Questa improvvisa decisione rappresenta una sterzata a destra di don Sturzo, ancora sotto l'influenza delle proteste dei senatori e della circolare del Cardinal Gasparri, in seguito alla quale qualcuno aveva addirittura preannunciata la sconfessione del P.P.. E poiché durante l'acutizzarsi della crisi don Sturzo tacque e non si è compromesso trincerandosi dietro un prudente e calcolato riserbo, così può farsi subito avanti coi primi suoi candidati al nuovo governo.
L'associazione liberale di Milano, la più autorevole del partito, auspica addirittura «la formazione di un governo anche di minoranza (cioè composto unicamente di fascisti) che, rispecchiando veramente l'anima e la coscienza nazionale sappia provvedere con vigore al rinnovamento e alla ricostruzione della vita del Paese». Intanto Mussolini da Milano, prima di partire ha già fatto invitare - tramite D'Annunzio - l'on. Baldesi socialista unitario e segretario della Confederazione del lavoro ad un colloquio per trattare la partecipazione al governo. I massimalisti ed i comunisti, pur rimanendo ostili al fascismo incitano gli unitari a parteciparvi. Il Baldesi che tratta con Acerbo, fiduciario di Mussolini, è favorevole all'accordo ma i suoi compagni così detti collaborazionisti temono che le masse non comprendano il valore ed il significato di questa loro adesione, e tutto va a monte.
In questo episodio sta la rivelazione del successo di Mussolini. I socialisti per trent'anni hanno contestato alla borghesia la capacità di governare, ma confessano ancora una volta con il loro atteggiamento, di non essere pronti ad assumere il potere: immaturi per il governo, immaturi ed incapaci di scatenare una rivoluzione. Infatti la Confederazione del Lavoro respinge un invito dei comunisti per uno sciopero generale in tutta Italia, inteso a contrastare la marcia su Roma. Cesare Rossi riferirà più tardi le impressioni di Mussolini su questo periodo, la sera del 31 ottobre dopo la sfilata delle camicie nere davanti al Quirinale:... «Ti raccomando poi la passività dell'antifascismo. Sì, va bene, dopo lo «sciopero legalitario» quella barca faceva acqua da tutte le parti; l'Alleanza del Lavoro l'aveva portata a picco. Ma, insomma anche uno scioperetto generale purchessia, gettato fra le nostre gambe ci avrebbe assai entravés» (3).
Lo stesso Rossi così riferisce il colloquio da lui avuto presente Aldo Finzi, con Pietro Nenni a Milano il giorno precedente la marcia: «All'invito nostro perché il giornale socialista mantenesse un contegno di neutralità, Nenni rispose che quanto si preparava a fare il fascismo era cosa che riguardava soltanto lo Stato liberale e non il proletariato ed il Partito Socialista. A riprova ci lesse un suo breve commento ispirato a questo concetto. Ci lasciammo colla stessa cordialità con cui ci eravamo salutati all'arrivo» (4).
In questa situazione Mussolini si pone fra le due parti ed ordina ai suoi di marciare alla volta di Roma. Egli arriva in treno fino a Civitavecchia acclamato nelle stazioni di passaggio prossime alla Capitale, e in alcune deve parlare alla folla; in certe località fascisti e soldati fraternizzano. Dopo aver passato in rassegna un concentramento di camicie nere riparte per Roma e vi entra al mattino di lunedì 30 ottobre alle ore il e si reca subito al Quirinale dove è ricevuto dal Sovrano. All'uscita la popolazione che lo attendeva entusiasta lo acclama e acclama il Re che deve presentarsi tre volte, al balcone a ringraziare. E' l'assenso clamoroso del popolo verso la Corona per la via seguita, assenso consacrato al pomeriggio quando il sindaco di Roma Cremonesi, convocata d'urgenza la giunta si reca al Quirinale a confermare al Re la solidarietà della cittadinanza romana.

La città è imbandierata e le dimostrazioni sia a Mussolini che al Re hanno assunto proporzioni grandiose. I giornali del tempo dicono che le manifestazioni raggiungono la frenesia. Le donne lanciano fiori e sventolano fazzoletti. Alla sera vi è la terza dimostrazione della giornata: il corteo popolare con un gruppo di medaglie d'oro in testa torna al Quirinale ma il Re è a Villa Savoia e la folla sosta a lungo nella piazza.

(1) Venti e più anni dopo, infuriando la campagna del referendum e ripetendosi la stupida accusa al Re di avere ceduto senza resistenza alcuna il potere ad un gruppo di sediziosi, il generale Roberto Bencivenga interpellato dal prefetto Efrem Ferraris, già capo di gabinetto di Facta, gli rilasciava la seguente dichiarazione che troviamo inserita nel volume:
La marcia su Roma vista dal Viminale (Ed. Leonardo, Roma, 1946):  
Roma, 15 agosto 1945.
«Come le dissi a voce, nel '24 o nel '25 - non ricordo esattamente ebbi occasione di incontrarmi col maresciallo d’Italia Pecori Giraldi.
«Naturalmente la conversazione cadde sul mio atteggiamento nettamente antifascista. Tra l'altro sostenni che era stato un gravissimo errore da parte del Sovrano l'aver ritirato all'ultima ora il consenso dato al Presidente del Consiglio Facta di proclamare lo stato d'assedio nella notte del 28 ottobre.
<Il Maresciallo mi rispose che in quella notte S.M. aveva interpellato numerose personalità. Fra queste il Maresciallo d'Italia Diaz, Duca della Vittoria, nonché lui stesso. Grave preoccupazione turbava il Sovrano circa il contegno che avrebbe tenuto l'esercito. Al Maresciallo Diaz Egli rivolse la precisa domanda:
- Che cose avrebbe fatto l'esercito?
- Maestà - rispose il Maresciallo Diaz - l'esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova!
- Io - soggiunse il Maresciallo Pecori Giraldi - risposi presso a poco la stessa cosa.
«Il ricordo di questa dichiarazione è rimasto sempre vivo nella mia mente.
«Ella può tenerne il conto che crede.
«Coi più cordiali saluti.
ROBERTO BENCIVENGA »
(2)Giolitti non può arrivare a Roma causa l'interruzione delle linee ferroviarie.
(3) L'Elefante, Roma, 4 agosto 1949.
(4)Giornale della Sera, Roma, 25 maggio 1947



venerdì 6 settembre 2013

I prigionieri dei Savoia

recensione di Angelo Martino










Una delle più clamorose falsità che giornalisti cosiddetti revisionisti e qualche storico non attento alla ricerca storica rigorosa e documentata hanno propagandato con durezza di linguaggio è stata quella di un presunto campo di concentramento o lager , come si scrive e si dice , a Fenestrelle in Piemonte .
In rete tale gigantesco falso storico è commentato con una durezza di linguaggio che Alessandro Barbero nella premessa al suo testo “ I prigionieri dei Savoia” definisce “ignobile “. A dare credito a tale bufala storica colossale ha contribuito il cantante di musica popolare Eugenio Bennato nel momento in cui ha fatte proprie le tesi di Aldo De Jaco.

Con una ricerca storica accurata Alessandro Barbero , in un volume dal titolo completo - I prigionieri dei Savoia - La vera storia della congiura di Fenestrelle, edito da Laterza , di 316 pagine di documentazione rigorosa , di ricerca di archivi, con ben 42 pagine di note, ha dimostrato che è tutto falso.
Come scrive Alessandro Barbero, fra il 9 e il 10 di novembre del 1861 giunse a Fenestrelle una colonna di prigionieri borbonici catturati a Capua il 2 di novembre, in totale si trattava di 1.186, ben lontani quindi dai 40.000 favoleggiati da tanti falsari storici.

Barbero sostiene che la maggior parte di questi prigionieri ha soggiornato a Fenestrelle per non più di tre settimane, dato che vi era una circolare ministeriale del 20 novembre 1861 la quale non prevedeva affatto che i prigionieri borbonici fossero inviati ai depositi e ai reggimenti dell’esercito italiano per esservi arruolati.

Infatti già il 28 di novembre 1861 partirono, dotati di viveri per il viaggio, i primi contingenti di prigionieri borbonici,e il primo di dicembre il contingente di prigionieri si era ridotto a 70 uomini, tutti ospedalizzati e per tanto al momento inabili a partire.
Lo storico smentisce altresì le dicerie sulle condizioni della prigionia e quanto dello sterminio si è detto e scritto ,dimostrando come i soldati giunti a Fenestrelle, effettivamente stremati dal viaggio, furono regolarmente curati e ospedalizzati, non solo a Fenestrelle, ma anche in altri ospedali per essere meglio curati come a Pinerolo , centro specializzato nelle malattie veneree. .

L’autore visiona i registri militari che annotano i movimenti di ogni singolo soldato; pertanto è possibile stabilire quanti furono gli ospedalizzati, che raggiungessero il picco massimo di 143 il 17 di novembre , al fine di smentire le false affermazioni che non fossero curati, che fossero tenuti in condizioni brutali, quali quelle dei lager nazisti. 
Affermazioni assurde e ripetute a iosa in posti pubblici , come è assurda la diceria secondo cui l’aspettativa di vita media a Fenestrelle non superava i tre mesi, dato che la prigionia non superava le tre settimane.

Infine, per dimostrare l’infondatezza e un’ inaccettabile macchinazione che in questi anni è stata creata ad arte per inventare il caso, Barbero menziona un sito internet con tanto di fotografia in bianco e nero di presunti prigionieri borbonici, che Barbero smaschera in un lavoro di analisi storica seria e dimostra che l’immagine ritrae in realtà un gruppo di deportati in un campo nazista.

Alessandro Barbero, con documentazione più che rigorosa, sostiene che siano stati solo 5 ( CINQUE ) i deceduti a Fenestrelle regolarmente annotati sui registri parrocchiali della chiesa di Fenestrelle. Questo dà l’idea di quanto sia colossale la montatura storica : 5 morti diventano migliaia e migliaia, quasi 1.200 prigionieri diventano decine di migliaia di segregati, tre settimane di prigionia divengono anni e anni con prospettive di vita non superiore ai tre mesi.

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giovedì 5 settembre 2013

Alberto Bechi Luserna: eroe e martire

di Domenico Giglio

Avvicinandoci  alla  data  dell’8  settembre, di  cui  quest’anno  ricorre  il  settantesimo  anniversario  dell’armistizio, è  doveroso  ed  opportuno  ricordare  alcuni  eventi  relativi  a  tale  data.
L’ episodio  oggetto  di  questa  rievocazione  è  il  barbaro  assassinio  del  tenente  colonnello  Alberto  Bechi  Luserna, Capo  di  Stato  Maggiore  della  divisione  paracadutisti  Nembo, di  stanza in  Sardegna,  nel  Campidano. Avuta  la  comunicazione  dell’ armistizio  un  battaglione  della  divisione  ebbe  una  reazione   di  rifiuto  dell’accettazione  dello  stesso   decidendo  di  aggregarsi  alle  truppe  tedesche  per  proseguire  le  ostilità. A  tale  notizia  il  comandante  della  Nembo, generale  Ercole  Ronco, fedele  al  giuramento  al  Re  e  che  nel  dopoguerra  aderì  al  Partito  Nazionale  Monarchico, divenendone  a  Roma  un  suo  importante  esponente, ritenne  necessario  inviare  il  suo  Capo  di  Stato  Maggiore   dai  ribelli  per  convincerli  a  recedere  dal  loro  ammutinamento. Così  il  colonnello  Bechi  Luserna, il  10  settembre  1943, su   una  auto  di  servizio, con  due  reali  carabinieri  raggiunse   il  gruppo  verso  Macomer, e  fermato  dai  ribelli  ad  un  posto  di  blocco  istituito  sulla  statale  Carlo  Felice, dove  oggi  sorge  in  ricordo  un  cippo, in  località  “Castigadu”, fu  barbaramente  ucciso  da  una  raffica  di  mitra, insieme  con  uno  dei  carabinieri, mentre  cercava  di  parlare con  i  paracadutisti  sovversivi, ed  il  suo  corpo, chiuso  in  un  sacco  fu  successivamente  gettato  in   mare  dai  suoi  uccisori, alle  Bocche  di  Bonifacio .

Terminava  così  tragicamente, per  mano  fratricida, la  carriera  di  uno  dei  più  brillanti  ufficiali  del  Regio  Esercito, insignito  di  quattro  medaglie  di  bronzo,  per  le  sue  azioni  in  Libia, in  Etiopia  e  ad  El  Alamein, con  la  divisione  paracadutisti  Folgore, di  cui  narrò  le  vicende  in  un  suo  scritto  “ I  Ragazzi  della  Folgore “, da  cui   è  stata  poi  tratta  l’epigrafe  che  si  trova  nel  Sacrario  Militare  Italiano  di  El  Alamein, dove  si  recarono, in  doveroso  omaggio, il  Re,Vittorio  Emanuele  III, durante il  suo  esilio  in  Egitto, insieme  con  il  figlio, il  Re  Umberto  II, anche  Lui  ormai  esiliato : 

“Fra  le  sabbie  non  più  deserte  -  son  qui  di  presidio  per  l’eternità  i  ragazzi  della  Folgore – fior   fiore  di  un  popolo  e  di  un  Esercito  in  armi . – Caduti  per  un’idea, senza  rimpianto, onorati  nel  ricordo  dello  stesso  nemico , - essi  additano  agli  italiani, nella  buona  e  nell'avversa fortuna, - il  cammino  dell’onore  e  della  gloria. – Viandante  , arrestati  e  riverisci. – Dio  degli  Eserciti , - accogli  gli  spiriti  di  questi  ragazzi  in  quell'angolo  del  cielo  -  che  riserbi  ai  martiri  ed  agli  Eroi .”

L’ Esercito  ha  giustamente  ricordato  Alberto  Bechi  Luserna  intitolando  al  suo  nome  la  Caserma  di  Macomer, attualmente  sede  del  quinto  reggimento  del   Genio  Guastatori, appartenente  alla  Brigata  Sassari   e  recentemente  il  28  maggio  2010  il  locale  Lions  Club  di  Macomer, con  grande  sensibilità   e  coerenza  con  i  propri  valori  fondamentali,  ha  donato  un  busto, in  pietra  basaltica, sorretto  da  una  colonna, con  l’ effigie  del  martire, esposto    ad  un  lato  dell’ ingresso  principale  della  Caserma .

Il  miglior  suggello  alla  figura  di  Alberto  Bechi  Luserna, esempio  fulgido  di  fedeltà  al  giuramento  al  Re, è  la  motivazione  della  medaglia  d’oro  conferitaGli  alla  memoria:

“Ufficiale  di  elevate  qualità  morali  ed  intellettuali, più  volte  decorato  al  valore, Capo  di  S.M.  di  una  divisione  di  paracadutisti, all’atto  dell’ armistizio, fedele al  giuramento  prestato  ed  animato  solo  da  inestinguibile  fede  e  da  completa  dedizione  alla  Patria, assumeva  senza  esitazione  e  contro  le  insidie  e  le  prepotenze  tedesche, il  nuovo  posto  di  combattimento. Venuto  a  conoscenza  che  uno  dei  reparti  dipendenti, sobillati  da  alcuni  facinorosi, si  era  affiancato  ai  tedeschi,  si  recava  con  esigua   scorta  e  attraverso  una  zona  insidiata  da  mezzi  blindati  nemici, presso  il  reparto  stesso  per  richiamarlo  al  dovere. Affrontato  con  le  armi  in  pugno  dai  più  accesi  istigatori  del  movimento  sedizioso, non  desisteva  dal  suo  nobile  intento, finché, colpito , cadeva  in mezzo  a  coloro  che  Egli  aveva  tentato  di  ricondurre  sulla  via  del  dovere  e  dell’onore. Coronava  così, col  cosciente  sacrificio  della  vita, la  propria  esistenza   di  valoroso  soldato, continuatore  di  una  gloriosa  tradizione  familiare  di  eroismo .  

Sardegna , 10  settembre  1943 .”



mercoledì 4 settembre 2013

Lettere al Corriere: Rientro delle spoglie

Caro Romano, bentornato! Anche una repubblicana ardente come sono io si trova perfettamente d’accordo con lei. La salma del re Vittorio Emanuele dovrebbe tornare in Italia. Speriamo che il buon senso prevalga.

Franca Arena , 

Il 2 giugno 1946 non potei votare perché avevo 17 anni (allora bisognava averne 21), ma mia nonna mi offrì il suo voto e io le chiesi di votare per la Repubblica. Ma la storia d’Italia non comincia il 2 giugno 1946.

Lettere al Corriere: Vittorio Emanuele III dimenticato in Egitto

Sergio Romano

Le vicende egiziane di questi giorni mi hanno indotto una volta di più a riflettere sulla precarietà dell’attuale sepoltura di Vittorio Emanuele III nella chiesa di Santa Caterina, nell'Alessandria d'Egitto dove sono nata quando il re era in esilio. Mi chiamo Jela Gasche, sono figlia di Maria Ludovica Calvi di Bergolo e nipote di Jolanda di Savoia. Cerco di vincere l’immagine di quella chiesa assaltata da fanatici e profanata, come già avvenuto per tante altre, ma non ci riesco. È un’eventualità non remota, e non credo che mio bisnonno meriti anche questo oltraggio. Spero che molti Italiani la pensino come me. In questo nostro Paese sono sepolte tante persone che secondo i parametri applicati a Re Vittorio potrebbero giacere altrove. È per questo che rivolgo a lei un accorato appello perché voglia sollevare il problema, al fine di consentire che la salma possa rientrare in Italia; il Pantheon sarebbe troppo chiedere all’attuale classe politica, ma sono certa, anche dai ricordi di mia madre, che il Re vorrebbe essere vicino ai suoi soldati al cimitero di Redipuglia.

Jela Gasche , 

Cara Signora, Temo che molti abbiano dimenticato o ignorino da sempre le ragioni per cui Vittorio Emanuele III, penultimo re d'Italia, morì ad Alessandria d’Egitto il 28 dicembre 1947. Non per lei, quindi, ma per questi lettori, ricordo le circostanze che lo persuasero all'esilio. Dopo la conclusione dell’armistizio e la fuga da Roma, gli Alleati e molti monarchici italiani (fra cui Enrico De Nicola e Benedetto Croce) temettero che la presenza al vertice dello Stato di un uomo che aveva lungamente convissuto con il fascismo avrebbe pregiudicato le sorti della monarchia e favorito le sinistre. De Nicola propose il ricorso all'istituto della Luogotenenza e Vittorio Emanuele accettò di trasmettere i suoi poteri al figlio Umberto non appena gli eserciti alleati fossero entrati a Roma. Ma agli inizi del 1946, mentre si avvicinava il giorno del referendum istituzionale, gli stessi consiglieri giunsero alla conclusione che soltanto la sua abdicazione avrebbe offerto a Umberto una maggiore speranza di vittoria. La cerimonia ebbe luogo a Posillipo, nella residenza della famiglia reale, alle 15 del 9 maggio. Quattro ore dopo, Vittorio Emanuele e la moglie Elena salirono a bordo dell’incrociatore Duca degli Abruzzi che li avrebbe portati in Egitto. Era stato deciso che l’abdicazione e la partenza avrebbero avuto luogo nello stesso giorno. Occorreva creare il fatto compiuto, impedire le obiezioni e le riserve di coloro che, come Palmiro Togliatti, avrebbero preferito fare campagna contro un re compromesso col fascismo ed ebbero la notizia soltanto a cose fatte. Ad Alessandria il re d’Egitto, Faruk, volle che Vittorio Emanuele avesse un'accoglienza regale e soggiornasse nel suo palazzo. Ma il vecchio re preferì una piccola villa nella via Constantin Chorem, alla periferia della città. Vi rimase più di un anno mezzo sino alla morte, il 28 dicembre 1947. Passò gli ultimi mesi passeggiando, pescando, ricevendo i parenti, riandando con la memoria alle vicende del suo regno e agli uomini che aveva conosciuto. Di Mussolini diceva: «Gran testa, intelligenza eccezionale... un giocoliere nella politica, un ignorante pretenzioso nelle cose militari...». Per la sua sepoltura, esclusa la possibilità del ritorno in Italia, furono discusse alcune proposte: il cimitero latino di Alessandria, una cappella di famiglia offerta dalla vedova di un irlandese nella chiesa del Sacro Cuore, una piccola chiesa nel quartiere di Moharren Bey. Ma Elena scelse la cattedrale di Santa Caterina dove la bara fu tumulata in un loculo dietro l’altare maggiore con una targa in cui è scritto «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947». Anch'io penso, cara Signora, che quella bara debba tornare in Italia. Vittorio Emanuele non fu soltanto l’uomo che convisse per 21 anni con il fascismo. Fu anche il re che favorì la svolta democratica di Giolitti agli inizi del Novecento, che trascorse al fronte gli anni della Grande guerra, che congedò Mussolini nel 1943. Nel bene e nel male appartiene alla storia d’Italia ed è giusto che torni a casa.

Sergio Romano

martedì 3 settembre 2013

L'ultima di D'Alfonso (l'assessore che s'è inventato il divieto di gelato) : "Vittorio Emanuele? Il corso cambi nome"

di Chiara Lampo
Se ci fosse ancora «La sai l'ultima?», il programma tv di barzellette che per sedici anni ha appassionato gli italiani, l'assessore Franco D'Alfonso sarebbe un campione.
Sindaco ed assessore
Come apre bocca, non si sa mai se c'è da prenderlo sul serio. E se non fosse un esponente importante della giunta di Milano (viene definito l'ideologo del movimento arancione che nel 2011 ha portato alla vittoria il sindaco, certamente è uno dei suoi uomini più fidati), non avesse in mano le deleghe al Commercio da cui dipendono le sorti di negozi e imprese, i settori che trainano la città, davvero ci sarebbe solo da riderci su. Un mese fa sfidava i giornalisti, «voglio vincere il premio “cazzata dell'estate“». Ce l'ha fatta. Ne ha inanellate parecchie ma ieri ha superato se stesso, in un'intervista al Corriere della Sera ha proposto addirittura - se ne sentiva il bisogno - di cambiare il nome a corso Vittorio Emanuele. «Meglio tornare all'antico e nobile Corsia De'Servi - sostiene l'assessore - è mai possibile che nella città più laica e blasonata d'Italia si identifichino con il nome di un re, che peraltro non ha mai amato la nostra città, alcuni dei suoi luoghi più significativi?». Poiché D'Alfonso è anche assessore all'Anagrafe, avrà tenuto conto eventualmente delle conseguenze pratiche? Si tratterebbe di cambiare l'indirizzo a qualche migliaio di residenti, negozi, bar, ristoranti, uffici. Per un revisionismo che di questi tempi non sembra proprio una priorità, almeno per le famiglie che hanno altri conti da fare, prima che con la storia.
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