NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 9 settembre 2013

La Monarchia e il Fascismo, quarto capitolo - XIV

Facta prospetta l'eventualità dello Stato d'assedio ma capi partito di sinistra, di centro, di destra, ex presidenti del Consiglio, i capi dell'Esercito e della Marina consigliano il Re di chiamare Mussolini al governo.

Alla mezzanotte del 27 ottobre la mobilitazione fascista è stata proclamata in tutta Italia, e poche ore dopo alle 4,30 di mattina del 28, si raduna il Consiglio dei Ministri e su proposta del Ministro dell'Interno Taddei viene decisa la proclamazione dello Stato d'assedio a partire dal mezzogiorno, e si fanno interrompere le linee ferroviarie intorno a Roma. Il governo ritiene di poter contenere il movimento per il solo fatto di questa misura di carattere eccezionale, ma dalle città specialmente della Toscana e dell'Umbria arrivano notizie che il movimento fascista ha avuto il sopravvento Ecco la cronaca dell'avvenimento, quale la riferisce il corrispondente del Corriere della Sera e che ci è risultata - nella sostanza - concordante con quella degli altri quotidiani:
«Alle ore 16 del mattino di sabato 28 ottobre si presentano al Viminale e chiedono di conferire con l'on. Facta, l'on. Federzoni e Forges-Davanzati, segretario della Giunta Esecutiva Nazionalista. I due delegati chiedono all'on. Facta se avesse ancora contatti coi dirigenti del movimento fascista. Alla risposta negativa i due si offrono di ristabilirli, e dallo stesso ufficio del Presidente del Consiglio si mettono in comunicazione con Mussolini a Milano e con De Vecchi a Perugia. De Vecchi consente a partire per Roma ma Mussolini, già invitato a venire a Roma dall'on. Facta la sera prima, rinnova il rifiuto di muoversi.
«L'on. Facta, recatosi alle ore 9 al Quirinale per presentare alla firma il decreto per lo stato d'assedio, riceve un rifiuto e deve tornare al Viminale per riferire sulla nuova situazione al Consiglio. Allo scopo di ottenere un parere chiama al Viminale anche l'on. Tittoni e De Nicola ed ha con essi un lungo colloquio. Si presume che la situazione abbia uno sbocco convergente delle due parti contrastanti, e cioè un accordo per un ministero nel quale entrino a far parte i fascisti.
«II Consiglio dei Ministri, di fronte alla nuova situazione autorizza l'Agenzia Stefani a diramare il comunicato con cui avverte che il provvedimento per la dichiarazione dello stato d'assedio non ha più corso. Poiché questo comunicato viene diramato pochi minuti dopo mezzogiorno, in realtà lo stato d'assedio non è mai stato applicato» (1).
Le forze fasciste intanto si avvicinano alla Capitale, acclamate al loro passaggio dalle popolazioni rurali dei paesi e dei villaggi. Contemporaneamente il Re inizia le sue consultazioni. In mattinata ha ricevuto l'on. Federzoni e quindi il Presidente del Senato on. Tittoni. A mezzogiorno si reca dal Sovrano l'on. Facta a comunicare le ultime notizie giunte dalle provincie. Nel pomeriggio riceve il Presidente della Camera De Nicola e successivamente gli on. Cocco-Ortu, De Vecchi Orlando, De Nava e Salandra. Sono stati invitati ma non sono ancora giunti gli on. Giolitti (2) e Mussolini. Alle 17 il Re riceve nuovamente il Presidente del Consiglio dimissionario e poi, per la seconda volta sia l'on. De Vecchi che l'on. Salandra. Questi intanto si abbocca con Ciano, De Vecchi e Federzoni con Grandi e poi ancora con De Vecchi e Ciano. Evidentemente vi è un orientamento a costituire un Ministero Salandra con la partecipazione dei fascisti. Manca soltanto la risposta di Mussolini, che finisce di rifiutare, mentre alcuni parlamentari affacciano l'ipotesi che la situazione non possa avere altra via d'uscita che con un incarico a Mussolini: il partito che ha determinato la crisi è il fascista e poiché si tratta di crisi extra parlamentare, è Mussolini che deve avere l'incarico. Egli pertanto fa sapere che non intende formare un ministero di minoranza, cioè esclusivamente di fascisti, ma è sua intenzione allargare notevolmente la base del futuro gabinetto con la partecipazione di alcuni gruppi parlamentari.
In un primo tempo pare che Mussolini voglia rivolgersi piuttosto verso sinistra per arrivare sino ai gruppi di avanguardia repubblicana. Infatti questi lanciano subito un ordine del giorno di adesione: «I  repubblicani dissidenti, anche a nome dei tanti che solo l'abitudine della tessera tiene apparentemente disciplinati e sostanzialmente ignari; il Partito Mazziniano Italiano, che da due anni, antesignano solitario, additò ai repubblicani il fascismo come movimento e fenomeno nel quale poteva trovare i suoi termini iniziali l'avvento della nuova Italia; l'Unione Mazziniana Nazionale sorta recentemente per raccogliere in un fascio tutti coloro che vogliono redenta e grande l'Italia nel sistema mazziniano; l'Unione Socialista Nazionale che affratella in una decisa volontà di lavoro e di redenzione morale e civile tutti i figli d'Italia per il fine della sua grandezza allo interno e all’estero per sostituire alle divisioni e alle lotte di classe l'unità del popolo; dinanzi al fascismo militante, che lotta per il rinnovamento della vita nazionale, dispiegano le loro bandiere e affiancano le loro milizie pronti a vincere e a immolarsi perché la patria viva e rifioriscano le speranze e le forze del popolo lavoratore che delle fortune della Patria è il sovrano artefice».
In seguito al rifiuto di Mussolini a partecipare al Ministero Salandra, questi si reca la domenica mattina - 29 ottobre - alle ore 10 al Quirinale ad annunziare al Re che declina l'incarico di comporre il nuovo gabinetto e designa Mussolini come l'uomo che possa, nelle presenti circostanze, formare il nuovo ministero. Mussolini, chiamato dal Re, parte immediatamente per Roma.
Più o meno sono tutti favorevoli alla soluzione Mussolini, esclusi i socialisti e i comunisti. La verità è che oramai il socialismo è debellato: la grande lotta col fascismo, iniziatasi sul finire del 1920, minata anche dai contrasti di tendenze, dopo la sconfitta dell'occupazione delle fabbriche è costretto a mettersi sulla difensiva. Alla vigilia della marcia su Roma è sloggiato anche dalle ultime posizioni. Nelle competizioni con massimalisti e comunisti il proletariato, preso fra due fuochi, anzi fra tre fuochi, disilluso e stanco passa dall'altra parte. Lo sciopero dell'agosto, proclamato dall'Alleanza del Lavoro aveva determinato la grande disfatta. Fu da quel momento che il potere effettivo passò nelle mani dei fascisti, essendosi Facta dimostrato impotente a ristabilire l'autorità dello Stato.
Il Partito Popolare, che alla vigilia degli avvenimenti era ancora diviso fra chi voleva stringere un blocco coi fascisti e quelli che avrebbero voluto accordarsi con le masse avverse, finisce ad essere il primo a dare esplicitamente la sua adesione. Questa improvvisa decisione rappresenta una sterzata a destra di don Sturzo, ancora sotto l'influenza delle proteste dei senatori e della circolare del Cardinal Gasparri, in seguito alla quale qualcuno aveva addirittura preannunciata la sconfessione del P.P.. E poiché durante l'acutizzarsi della crisi don Sturzo tacque e non si è compromesso trincerandosi dietro un prudente e calcolato riserbo, così può farsi subito avanti coi primi suoi candidati al nuovo governo.
L'associazione liberale di Milano, la più autorevole del partito, auspica addirittura «la formazione di un governo anche di minoranza (cioè composto unicamente di fascisti) che, rispecchiando veramente l'anima e la coscienza nazionale sappia provvedere con vigore al rinnovamento e alla ricostruzione della vita del Paese». Intanto Mussolini da Milano, prima di partire ha già fatto invitare - tramite D'Annunzio - l'on. Baldesi socialista unitario e segretario della Confederazione del lavoro ad un colloquio per trattare la partecipazione al governo. I massimalisti ed i comunisti, pur rimanendo ostili al fascismo incitano gli unitari a parteciparvi. Il Baldesi che tratta con Acerbo, fiduciario di Mussolini, è favorevole all'accordo ma i suoi compagni così detti collaborazionisti temono che le masse non comprendano il valore ed il significato di questa loro adesione, e tutto va a monte.
In questo episodio sta la rivelazione del successo di Mussolini. I socialisti per trent'anni hanno contestato alla borghesia la capacità di governare, ma confessano ancora una volta con il loro atteggiamento, di non essere pronti ad assumere il potere: immaturi per il governo, immaturi ed incapaci di scatenare una rivoluzione. Infatti la Confederazione del Lavoro respinge un invito dei comunisti per uno sciopero generale in tutta Italia, inteso a contrastare la marcia su Roma. Cesare Rossi riferirà più tardi le impressioni di Mussolini su questo periodo, la sera del 31 ottobre dopo la sfilata delle camicie nere davanti al Quirinale:... «Ti raccomando poi la passività dell'antifascismo. Sì, va bene, dopo lo «sciopero legalitario» quella barca faceva acqua da tutte le parti; l'Alleanza del Lavoro l'aveva portata a picco. Ma, insomma anche uno scioperetto generale purchessia, gettato fra le nostre gambe ci avrebbe assai entravés» (3).
Lo stesso Rossi così riferisce il colloquio da lui avuto presente Aldo Finzi, con Pietro Nenni a Milano il giorno precedente la marcia: «All'invito nostro perché il giornale socialista mantenesse un contegno di neutralità, Nenni rispose che quanto si preparava a fare il fascismo era cosa che riguardava soltanto lo Stato liberale e non il proletariato ed il Partito Socialista. A riprova ci lesse un suo breve commento ispirato a questo concetto. Ci lasciammo colla stessa cordialità con cui ci eravamo salutati all'arrivo» (4).
In questa situazione Mussolini si pone fra le due parti ed ordina ai suoi di marciare alla volta di Roma. Egli arriva in treno fino a Civitavecchia acclamato nelle stazioni di passaggio prossime alla Capitale, e in alcune deve parlare alla folla; in certe località fascisti e soldati fraternizzano. Dopo aver passato in rassegna un concentramento di camicie nere riparte per Roma e vi entra al mattino di lunedì 30 ottobre alle ore il e si reca subito al Quirinale dove è ricevuto dal Sovrano. All'uscita la popolazione che lo attendeva entusiasta lo acclama e acclama il Re che deve presentarsi tre volte, al balcone a ringraziare. E' l'assenso clamoroso del popolo verso la Corona per la via seguita, assenso consacrato al pomeriggio quando il sindaco di Roma Cremonesi, convocata d'urgenza la giunta si reca al Quirinale a confermare al Re la solidarietà della cittadinanza romana.

La città è imbandierata e le dimostrazioni sia a Mussolini che al Re hanno assunto proporzioni grandiose. I giornali del tempo dicono che le manifestazioni raggiungono la frenesia. Le donne lanciano fiori e sventolano fazzoletti. Alla sera vi è la terza dimostrazione della giornata: il corteo popolare con un gruppo di medaglie d'oro in testa torna al Quirinale ma il Re è a Villa Savoia e la folla sosta a lungo nella piazza.

(1) Venti e più anni dopo, infuriando la campagna del referendum e ripetendosi la stupida accusa al Re di avere ceduto senza resistenza alcuna il potere ad un gruppo di sediziosi, il generale Roberto Bencivenga interpellato dal prefetto Efrem Ferraris, già capo di gabinetto di Facta, gli rilasciava la seguente dichiarazione che troviamo inserita nel volume:
La marcia su Roma vista dal Viminale (Ed. Leonardo, Roma, 1946):  
Roma, 15 agosto 1945.
«Come le dissi a voce, nel '24 o nel '25 - non ricordo esattamente ebbi occasione di incontrarmi col maresciallo d’Italia Pecori Giraldi.
«Naturalmente la conversazione cadde sul mio atteggiamento nettamente antifascista. Tra l'altro sostenni che era stato un gravissimo errore da parte del Sovrano l'aver ritirato all'ultima ora il consenso dato al Presidente del Consiglio Facta di proclamare lo stato d'assedio nella notte del 28 ottobre.
<Il Maresciallo mi rispose che in quella notte S.M. aveva interpellato numerose personalità. Fra queste il Maresciallo d'Italia Diaz, Duca della Vittoria, nonché lui stesso. Grave preoccupazione turbava il Sovrano circa il contegno che avrebbe tenuto l'esercito. Al Maresciallo Diaz Egli rivolse la precisa domanda:
- Che cose avrebbe fatto l'esercito?
- Maestà - rispose il Maresciallo Diaz - l'esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova!
- Io - soggiunse il Maresciallo Pecori Giraldi - risposi presso a poco la stessa cosa.
«Il ricordo di questa dichiarazione è rimasto sempre vivo nella mia mente.
«Ella può tenerne il conto che crede.
«Coi più cordiali saluti.
ROBERTO BENCIVENGA »
(2)Giolitti non può arrivare a Roma causa l'interruzione delle linee ferroviarie.
(3) L'Elefante, Roma, 4 agosto 1949.
(4)Giornale della Sera, Roma, 25 maggio 1947



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