NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 27 giugno 2013

Castelli Aperti: tutti gli appuntamenti del 30 giugno

Un emozionante itinerario tra Racconigi e Savigliano



Domenica 30 giugno la rassegna propone un itinerario che parte da Racconigi e prosegue alla scoperta delle bellezze architettoniche di Savigliano.
Cuore dell’itinerario è il castello Reale di Racconigi residenza molto amata dai Savoia e oggi ritornata agli antichi fasti. 
Del castello si apprezzano i grandi saloni e gli appartamenti della vita quotidiana della corte, ma anche il grande parco romantico che si estende per più ettari, frutto dell’architetto paesaggista X. Kurten. E’ un luogo incantevole per passeggiare, meditare e godere delle belle giornate di sole. 
Inoltre, il parco, ospita fino al 13 ottobre, l’edizione 2013 della Biennale Internazionale di Scultura dal titolo Pensare lo spazio. Dialoghi tra natura e immaginazione.(ore 10.00 – 19.00; ingresso 2 euro). L’esposizione consiste in 62 sculture di grande dimensione realizzate da artisti provenienti da Italia, Spagna e Germania. La mostra è un esempio di espressione artistica multigenerazionale, con scultori che provengono da percorsi culturali eterogenei. Sono artisti affermati nel pieno della loro maturità creativa, noti per le personali scelte di poetica e di linguaggio.
Nei locali sottostanti la serra della Margaria sarà presentata una sezione storica di scultori operanti nel secondo dopoguerra in Italia, una sorta di “numi tutelari” degli artisti le cui opere sono disseminate nel grande Parco. 


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http://www.targatocn.it/2013/06/27/leggi-notizia/argomenti/eventi/articolo/castelli-aperti-tutti-gli-appuntamenti-del-30-giugno.html#.UcywsDtM_Z0

Rimpiangiamo la monarchia

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it


Giovedì, 27 giugno 2013 - 09:29:00
Tutti siamo soliti pensare a Montesquieu come ad uno dei padri della moderna concezione dello Stato e in effetti la sua teoria della divisione dei poteri, per non citare che questa, è un prezioso principio di buon governo. Tuttavia molti sarebbero sorpresi di sapere che per questo philosophe il regime ideale non è la democrazia, di cui sembra essere il padre, ma la monarchia. Proprio quella monarchia francese assoluta in cui era nato e che ancora dominava la Francia quando lui morì.

Il fatto si spiega tenendo conto che egli aveva sotto gli occhi una nazione con un forte senso di quella che inglesi chiamerebbero "decency". Il re aveva un potere assoluto ma era lungi dall'abusarne, tanto che, nella concezione di Montesquieu, nella monarchia, nel quadro di leggi stabilite, l'individuo è libero anche più che in democrazia, dove il moralismo del popolo può divenire opprimente. Infine la monarchia si distingue dal dispotismo perché mentre quest'ultimo riposa sulla paura che il dittatore incute a tutti, il sovrano  fonda il suo potere sul consenso e sul senso del dovere dei sudditi. Anche per ambizione, gli stessi aristocratici che gli fanno corona desiderano piacergli e dimostrarsi degni della sua stima. In una parola, il collante dell'intero Paese è il sentimento dell'onore che domina tutti, re compreso.

Qui non si tratta tanto di sostenere teorie che oggi suonano più sorprendenti che convincenti, quanto di notare perché un pensatore come Raymond Aron ha considerato Montesquieu uno dei padri della moderna sociologia. Pur essendo il più noto sostenitore della teoria della divisione dei poteri - cioè dello strumento tecnico fondamentale per evitare l'assolutismo - il giurista francese era infatti molto sensibile al dato (anche economico e climatico) della società cui si riferiva. Ciò che egli sostanzialmente diceva di Luigi XIV, del Reggente e di Luigi XV non l'avrebbe certo detto di Ivan il Terribile. Ed è a questo punto che si inserisce un problema riguardante l'Italia attuale.
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mercoledì 26 giugno 2013

IL SENSO DEL RIDICOLO

dell'Ing. Domenico Giglio

“Liberiamo  Roma“, ”Roma  è  stata  liberata“:  siamo  nel  1944  o  nel   2013 ? Io  penserei  al  1944, quando  Roma  è  stata  liberata  dopo  i  nove  mesi  dell’occupazione  tedesca  con  le  perquisizioni, le deportazioni , le  retate, le  fucilazioni  e  le  stragi, perpetrate  dalle  S.S.  naziste. Invece  queste  frasi  sono  del  2013  ed  hanno  fatto  parte  della  campagna  elettorale  del   candidato  Sindaco  della  sinistra  e  si  riferivano  ai  5  anni  dell’amministrazione  Alemanno.

Ora  io  ho  vissuto  a  Roma  tutti  questi  anni  e  non  mi  sono  mai  sentito  prigioniero  se  non  in  occasione  di  assembramenti,  sit-in, manifestazioni , comizi , marce  organizzate  dal  sindacato  di  sinistra, o  da  partiti  sempre  di  sinistra  o  dalla  sinistra  extraparlamentare   quando  polizia  e  carabinieri  hanno  dovuto  bloccare  strade, dirottare  il  traffico  degli  effettivi  lavoratori  romani,intendendo  per tali  l’operaio, il  commerciante, l’impiegato  e   il  professionista  o  fronteggiare  attacchi  se  non  addirittura  sommosse.

In  questo  stesso   periodo  non  ho  sentito  il  passo  cadenzato  di  truppe,  né  visto  cannoni  e  carri  armati , né  posti  di  blocco  se  non  per  i  controlli  della  polizia  stradale, ma  forse  ero  sordo  o  cieco.  Perciò  parlare  di  “liberazione”  , paragonando  Alemanno, a  suo  tempo  elettoralmente  eletto  da  una  larga  maggioranza  di  romani, accorsi  a  votare  in  un  numero  molto  superiore  a  quello  registrato  il  26  maggio  ed  il  9  giugno, ad  un  “gauleiter”  è  ridicolo, se  non  offensivo, ma  la  cosa  non  deve  stupirci  perché  la  tipologia  della  propaganda  di  sinistra  è  sempre  stata  improntata  alla  esagerazione, od  al  ricatto  od  all’invenzione, esempi  tipici  “O  la  repubblica  o  il  caos “( Nenni  all’epoca  del  referendum), ”le  forze  oscure  della  reazione  in  agguato” ( !!!,sempre  nel  1946  e  seguenti),  “Il  generale  Peste” (riferendosi  al  comandante  americano  delle  Forze  della  Nato  in  Europa), senza  mai  un  filo  di  umorismo  anche  nella  satira ,eredità  storica  dei  loro  vecchi  giornali  satirici, pesanti  e  volgari  nelle  battute  e  nelle  vignette, di  cui  il  famoso  “Asino”  di  Podrecca   fu  l’esempio  più  tipico.

In  ogni  caso  siamo  stati  “liberati”  e  vediamo  subito   come  il  “liberatore”  inizi  la  sua  attività  con  un  divieto  della  circolazione  automobilistica  in  Via  dei  Fori  Imperiali  a  partire  dal  15   agosto  prossimo, provvedimento  di  cui  tutti  i   romani  votanti  e  non  votanti  sentivano  l’impellente  necessità ,mentre  le  buche  nelle  strade, la  raccolta  e  lo  smaltimento  delle  immondizie, il  (dis)servizio  pubblico  possono  logicamente  aspettare ! Ora  il  discorso  sulle  pedonalizzazioni  è  un  discorso  da  tecnici  del  traffico ,in  quanto  le  stesse  possono  riuscire  quando  non  strangolano  il  traffico  veicolare ,che  non  è  né  di  destra, né  di  sinistra, ma  di  centinaia  di  migliaia  di romani  di  tutte  le  opinioni  politiche, se    continua  a  svolgersi  ai  suoi  margini, come  nel  caso  della  Piazza  di  San  Lorenzo  in  Lucina, dove  appunto  la  pedonalizzazione  è  ottimamente  riuscita, di  Piazza  San  Silvestro, riuscita  meno  bene, così  pure  di  Piazza  del  Popolo  e  della  zona  tra  il  Colosseo  e  l’arco  di  Costantino, nonché  della  chiusura  della  vecchia  via  del  Carcere  Tulliano.

Il  flusso  veicolare  è  infatti  molto  simile   all’acqua : bloccata  o  crea  un  invaso  od  esonda, ma  per  il  traffico  questo  non  è  possibile,  o  cerca  e  trova  altre  strade  ed  altri  sbocchi, aumentando  la  portata  di  corsi  d’acqua  preesistenti  e  creandosi  una  via  nuova , il  che  anche  qui  è  possibile  per  l’acqua, ma  lo  è  molto  meno  o  addirittura  impossibile  per  il  traffico  in  una  città  già  intensamente  costruita  ed  abitata  come  Roma, se  non  con  sventramenti  massicci  come  quelli  effettuati  a  suo  tempo  per  realizzare   proprio  la  via  dei  Fori  Imperiali  e  per  Via  della  Conciliazione, con  l’abbattimento  della  famosa  spina  dei  Borghi , oggi  irrealizzabili  per  l’assoluta  mancanza  di  spazi. La  chiusura  proposta  saturerà  quindi  oltre  ogni  limite  strade  come  Via  del  Teatro  di  Marcello, Via Petroselli , Via  degli  Annibaldi, cambiandone  il  senso  di  marcia  e  lascerà  un  enorme  senso  di  vuoto  nel   tratto  della  Via  dei  Fori  dal  momento  che  per  i  turisti, gli  unici  a  percorrerla, sono  più  che  sufficienti  i  normali  ampi  marciapiedi  esistenti. Se  poi  il  divieto  sarà  parziale  e  vi  transiteranno  i  mezzi  pubblici, avremo  la  conferma  di  un  atteggiamento  politico  contro  gli  automobilisti  privati  che  ripetiamo  non  girano  per  turismo, ma  per  lavoro, forse  che  gli  elettori  del  nuovo  Sindaco  non  hanno  anche  loro  un’automobile  od  un  motorino ?


Domenico  Giglio – dottore  in  ingegneria  civile -

sabato 22 giugno 2013

IL RUOLO DELLA MONARCHIA E L’AZIONE DEI MONARCHICI DOPO IL REFERENDUM

Recensione al libro: "I monarchici e la politica estera italiana nel secondo dopoguerra",
del Nostro Amico, benemerito per i suoi preziosi consigli e collaborazione, 
Ing Domenico Giglio.

Il diplomatico Raffaele Guariglia,
esponente del PNM
Dopo  silenzi  ultra decennali  qualcosa  si  sta  muovendo  nella  pubblicistica, relativamente  alla  Monarchia  Sabauda  nella  storia  dell’Italia  unita  ed  ai  monarchici  dopo  il  referendum  del  1946. Nel  giro  di  qualche  mese  dall'uscita  del  fondamentale  testo  di  Domenico  Fisichella, ”Dal  Risorgimento  al  fascismo”, (editore  Carocci), ricco  di  dati  statistici  e  di  analisi  storico-politiche  sul  ruolo  della  Monarchia  nello  sviluppo  e  nel  progresso  dell’Italia, insieme  con  il  giudizio  durissimo  sulle  responsabilità  del  partito  popolare  e   di  quello  socialista  nell'avvento  al  potere  del  fascismo, tema  sul  quale, più  recentemente, ha  portato  un  ulteriore  contributo  di  documenti  inoppugnabili, oltre  ad  un  commento  rigoroso  delle  vicende  dei  governi  Facta  nel  1922,  Aldo  Mola, con  il  suo  “Mussolini  a  pieni  voti”, (edizioni  del  capricorno), si  sono  aggiunti  contributi  più  specifici  sul  ruolo  dei  monarchici  dopo  il  referendum  del  1946, dal  libro  di  Fabio  Torriero  su  “Alfredo  Covelli – la  mia  destra” (i  libri  del  Borghese), arricchito  da  interventi  e  ricordi  di  qualificati  esponenti  monarchici, ancora  oggi  presenti  ed  attivi, da  uno  studio  sul  movimento  monarchico  in  Sicilia  ed  infine, recentissimo, “I  monarchici  e  la  politica  estera  italiana  nel  secondo  dopoguerra”, di  Luciano  Monzali  ed  Andrea  Ungari, (editore  Rubbettino), libro diviso  in  due  parti, la  prima  aderente  al titolo, di  Ungari, la  seconda  invece  specifica  sulla  figura  di  Raffaele  Guariglia, diplomatico, ambasciatore, ministro  degli  Esteri, nel  Governo  Badoglio, ed  infine  senatore  del  Partito  Nazionale  Monarchico  e  successivamente  Presidente  dell’Unione  Monarchica  Italiana.
Dal  nostro  punto  di  vista  la  prima  parte  di  Ungari, già  autore  de  “In  nome  del  RE - i  monarchici  italiani  dal  1943  al  1948 - “(edizioni  Le  lettere – anno  2004), affrontando  lo  studio  dell’azione  del  P.N.M., basandosi  principalmente  sul  periodico  “Italia   Monarchica”, e  su  articoli  di giornali  ideologicamente  vicini fra  i  quali  “Governo”, diretto  da  Cantalupo, e  di  cui  ricordo  la modestissima  sede  in  Via  del  Piè  di  marmo, il  tutto  con  ricchezza  di  citazioni  di  documenti  politici  e  partitici, e di  interventi  parlamentari, riveste  quel  necessario  carattere  di  documentazione  e  di  memoria, di  cui  oggi  vi  è  particolarmente  bisogno  per  rinforzare  le  convinzioni  degli  attuali  monarchici, che  lo  sono  diventati  quasi  per  germinazione  spontanea  non  avendo  conosciuto ,per  motivi  anagrafici  questi    loro  predecessori  ed  il  loro  operato, positivo  o  negativo  che  fosse.
Ungari  ad  esempio  sottolinea  il  significato  che  ebbe  l’ingresso  nel  P.N.M.  di  un  gruppo  qualificato  di  ambasciatori, da  Roberto  Cantalupo, a  Guido  Rocco, (questi  due ricordo  facevano  parte  della  Giunta  Esecutiva  del  Partito  fino  al  1958 ), ad  Emanuele  Grazzi, ad  Armando  Koch, a  Raffaele  Guariglia, il  tutto  pare  per  sollecitazione  del  Re  Umberto, che  Re  di  tutti  gli  italiani, non  poteva  non  guardare  con  particolare  interesse  e  simpatia, e  lo  provano  anche  alcuni  Suoi  iniziali  messaggi, a  questa  giovane  formazione  politica, il  P.N.M., dove  mancava  una  vera  classe  dirigente, che, appunto, poteva  essere  costituita  da  diplomatici, ricchi  di  personali  esperienze  nei  più  diversi  paesi  del  mondo, e dotati  di  una  cultura  storico -politica  di  elevato  livello, che  era  stato  il  vanto  della  nostra  scuola  diplomatica  durante  tutto  il  Regno. 
Sui  principali  ed  in  molti  casi  dolorosi  argomenti  che  si  susseguirono  dal  1946  al  1954, periodo  preso  in  esame in  quanto, come  dice  giustamente  Ungari, dopo  la  scissione  laurina  del  2  giugno  1954: “…da  quel  momento  il  monarchismo  come  partito  politico  organizzato  scivolò  progressivamente  verso  l’irrilevanza  politica…”; la  posizione  parlamentare  dei  monarchici  fu  da  un  lato  coerente  con  la  loro  ispirazione  nazionale, solo  in  alcuni,moderatamente  nazionalista, vedi  il  problema  della  ratifica  del  Trattato  di  Pace, di  Trieste  e  dei  confini  con  la Jugoslavia, e delle  Colonie  dell’Africa, e  dall'altra  aperta, concreta, moderna  e  lungimirante  come  per   l’adesione  al  Patto  Atlantico  e  per  gli  inizi  della  costruzione  europea, anche  se  sempre  sensibile,  propositiva  e  di  stimolo  nei  confronti  del  Governo, nel  riaffermare  la  posizione  storica  e  geopolitica  dell’Italia,ricollegandosi  in  questo più  all'Italia  liberale, e    sempre  con  ricchezza  di  argomenti, grazie  alla  preparazione  specifica  dei  suoi  esponenti, riconosciuta ed  in  diversi  casi  apprezzata anche  dai  nostri  avversari. Del  resto  se  vediamo  il  nome  dei  parlamentari  del  P.N.M., eletti  il  7  giugno  1953, tra  militari, giuristi, scienziati  e  tecnici  possiamo  affermare  che  i  monarchici  avrebbero  potuto  ricoprire  incarichi  in  tutti  i  ministeri  di  un  eventuale  Governo!
Da  questa  analisi  serena, ricca  anche  di  nominativi  di  altri  esponenti  del  movimento  monarchico, quale  ad  esempio  il  colonnello  Enzo  Avallone, esperto  di  problemi  militari, dobbiamo  trarre  il  convincimento  che  non  siamo  stati  né  figli  di  un  dio  minore  né  i  parenti  poveri  della  politica  italiana, almeno  sicuramente  fino  al  1954  ed  ancora  fino  al  1958.



Domenico  Giglio

giovedì 20 giugno 2013

"I monarchici e la politica estera italiana nel secondo dopoguerra" di Luciano Monzali, Andrea Ungari


La politica estera della “Repubblica dei partiti”, come lo storico Pietro Scoppola definì l’Italia in un libro del 1991, non può essere studiata prescindendo dalle decisioni e dalle preferenze dei movimenti politici organizzati. Soprattutto in un regime consociativo, infatti, dove “politics” e “policy” si stringono vicendevolmente senza lasciarsi un secondo, pesano i partiti di governo e anche quelli di opposizione, quelli grandi e quelli piccoli. Questo saggio, dunque, ha il merito di fare luce su un’area politica, quella monarchica, che ebbe un suo peso sulla scena italiana del Dopoguerra e che finora pareva trascurata dagli storici delle relazioni internazionali. Non che i legittimisti, negli anni in cui pure furono elettoralmente presenti (il risultato più significativo fu il 6,9 per cento dei consensi nel 1953), siano stati mai decisivi per le scelte del paese. Ma influenti e rappresentativi di un certo sentire dell’opinione pubblica e della diplomazia, questo sì. 
Andrea Ungari in particolare si concentra su tre fronti fondamentali di politica estera – il trattato di pace, la Guerra fredda e l’integrazione europea – studiando materiale archivistico vario e gli organi di partito come il quotidiano Corriere della Nazione e il settimanale Italia Monarchica, più il periodico d’area Governo. Sul trattato di pace, il Partito nazionale monarchico non smise mai di agire come pungolo del governo Dc, alternando critiche nette e non sempre consapevoli dei nuovi equilibri globali (vedi la totale contrarietà alla cessione delle colonie africane) a dosi di realismo e moderazione (quando ogni passo in più nel processo di integrazione atlantico ed europeo veniva visto come l’occasione per rinegoziare i confini dell’Italia con la Yugoslavia o rivedere i limiti imposti alla possibilità di armarsi).

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http://www.ilfoglio.it/recensioni/786

lunedì 17 giugno 2013

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II



Il consueto aggiornamento mensile del sito dedicato alla memoria del Sovrano.
Un bell'articolo con parole dalla viva voce del Re sui travagliati giorni del referendum istituzionale a cui seguiranno interventi del ministro Lucifero ed anche qualche parola di Romita, l'infame ministro degli Interni che truccò l'esito del referendum

Buona lettura!

http://www.reumberto.it/rizzi65.htm

martedì 11 giugno 2013

GIUBBA DEL PRINCIPE UMBERTO II DI SAVOIA E MILITARIA AL CASTELLO DI CASTELLAR (CN)

1946: il tradimento verso i Savoia e il Risorgimento

Egregio Beppe et Italians tutti, ho seguito una trasmissione RAI, forse il canale 3, che raccontava particolari dei primi disgraziati giorni del giugno 1946 che determinarono il triste destino della Nazione ancora fino ai giorni nostri. Il conduttore citò dei tentativi che Umberto avrebbe fatto per non riconoscere il risultato del colpo di stato del ministro socialista in carica, un certo Romita, mi pare, diciamo del referendum. Ciò e’ falso. Nonostante i motivati dubbi, ad iniziare dal fatto che non si seppe mai il numero dei votanti, delle schede nulle e bianche, etc – il tutto, perciò andava annullato – e che le schede furono distrutte pochi giorni dopo il crimine, dal momento stesso che il governo di allora decise per il referendum, settimane prima, Umberto aveva gia’ avviata la dolorosa partenza lontano dalla Patria. Perche’ una monarchia non regna con le percentuali di una riunione di condominio – con tutto il rispetto – un Re non regna su un Popolo al 50% + uno. La monarchia Savoia necessitava di un “plebiscito”, dell’assoluto consenso del Popolo, cosa nella quale non si poteva neanche lontanamente sperare in quel momento psicologico unico di lutti freschi, di macerie attorno e col Partito Comunista armato al massimo della sua potenza in Italia. Umberto II attese con i bagagli già pronti, a De Gasperi che sollecitava la partenza – strano… forse costui tremava alla sola idea di una sicura “guerra civile” da lui e gli altri compari provocata, rispose che non si sarebbe mosso fino alla proclamazione “ufficiale” da parte della Cassazione. Cosa assolutamente corretta. Quindi partì, lasciando al Popolo il proprio messaggio dovuto, di una nobiltà unica e col quale, anche, scioglieva le forze armate dal giuramento al Re. Se parte del Popolo esultò per la vittoria sui fautori soli del nostro sacro Risorgimento, l’altra pianse amaramente. Pianto del Popolo del silenzio, cioè noi, gli eredi di allora, fino ad oggi.

Ernesto Fiorilloernesto55@msn.com

sabato 8 giugno 2013

GIUSEPPE VERDI nel II Centenario della nascita (1813-1901)

Gianluigi CHIASEROTTI



G I U S E P P E  V E R D I
NEL II CENTENARIO DELLA NASCITA
(1813-1901)





Roma, 2013

Cade quest’anno, il II Centenario della nascita di uno dei più grandi ed innovatori musicisti italiani: Giuseppe Verdi.
Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nacque nelle campagne della bassa parmense, a Le Roncole, frazione di Busseto, il 10 ottobre 1813 da Carlo, oste e rivenditore di generi alimentari, e Luigia Uttini, filatrice.
Il padre Carlo proveniva da una famiglia di agricoltori piacentini (stesse origini della moglie) e, dopo aver messo da parte un po’ di denaro, aveva aperto una modesta osteria nella casa de Le Roncole, la cui conduzione alternava con il lavoro dei campi.
Il registro dei battesimi, del giorno 11 ottobre 1813, indica Giuseppe Verdi come “nato ieri”.
Il giorno successivo venne battezzato nella chiesa locale di San Giovanni Battista e gli vennero imposti, come poca’anzi detto, i nomi di Giuseppe Fortunino Francesco. Il terzo giorno della sua nascita il padre di Verdi raggiunse Busseto per notificare la nascita alle autorità locali e venne indicato nel registro comunale coi nomi di “Joseph Fortunin François”.
L’atto di nascita fu redatto in lingua francese, appartenendo in quegli anni Busseto ed il suo territorio all’Impero creato da Napoleone Bonaparte (1769-1821).
Pur essendo un giovane di umile condizione sociale, riuscì tuttavia a seguire la propria vocazione di compositore grazie alla buona volontà ed al desiderio di apprendere dimostrato.
L’organista della chiesa de Le Roncole lo prese a benvolere e gratuitamente lo indirizzò verso lo studio della musica ed alla pratica dell’organo. Più tardi, Antonio Barezzi (1787-1867), un negoziante amante della musica e direttore della locale società filarmonica, convinto che la fiducia nel giovane non fosse mal riposta, divenne suo mecenate e protettore aiutandolo a proseguire gli studi intrapresi.
La prima formazione del futuro compositore avvenne tuttavia sia frequentando la ricca biblioteca della Scuola dei Gesuiti sita in Busseto, ancora esistente, sia prendendo lezioni da Ferdinando Provesi (1770-1833), maestro dei locali filarmonici, che gli insegnò i principi della composizione musicale e della pratica strumentale.
Verdi aveva solo quindici anni quando, nel 1828, una sua sinfonia d’apertura venne eseguita, in luogo di quella di Gioacchino Rossini (1792-1868), nel corso di una rappresentazione de “Il barbiere di Siviglia” al teatro di Busseto.
Nel 1832 il Nostro si stabilì in Milano, grazie all’ulteriore aiuto economico di Antonio Barezzi ed a una “pensione” elargitagli dal Monte di Pietà di Busseto.
A Milano tentò inutilmente di essere ammesso presso il locale prestigioso Conservatorio e fu per diversi anni allievo di Vincenzo Lavigna (1776-1836), maestro concertatore alla Scala.
Nel 1836 sposò Margherita Barezzi (1814-1840), ventiduenne figlia del suo benefattore, con la quale due anni più tardi andò a vivere a Milano in una modesta abitazione a Porta Ticinese.
Nel 1839 riuscì finalmente, dopo quattro anni di lavoro, a far rappresentare la sua prima opera alla Scala: era l’“Oberto, Conte di San Bonifacio”, su libretto originale di Antonio Piazza (1742-1825), largamente rivisto e riadattato da un altro librettista Temistocle Solera (1815-1878). L’“Oberto” era un lavoro di stampo donizettiano, ma alcune sue peculiarità drammatiche piacquero al pubblico tanto che l’opera ebbe un buon successo e quattordici repliche.
Ma, in quei giorni lieti, un tremendo dolore famigliare attanagliava Verdi a causa della tragedia  che aveva vissuto: la morte della moglie e dei figli avuti da lei. La prima ad andarsene era stata la piccola Virginia Maria, nata nel marzo 1837 e deceduta nell’agosto 1838; quindi Icilio Romano, nato nel luglio 1838, e deceduto invece nell’ottobre 1839. Infine la loro madre Margherita era spirata nel giugno 1840.
Verdi era solo, privo ormai della sua famiglia. Ciò aveva gettato il musicista nel più profondo sconforto, e per ironia della sorte l’opera che gli era stata richiesta doveva essere comica: “Un giorno di regno”, che si rivela un clamoroso fiasco.
Verdi dichiara che non avrebbe più composto musica. 
Fu un libretto, una storia che poteva funzionare, a fargli cambiare idea.
L’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli (1794-1879), lo fece leggere al Maestro e lo convinse a non abbandonare la lirica. Era un  soggetto biblico, il “Nabucco”, scritto ancora da Temistocle Solera.
Verdi, però, ancora scosso dalla tragedia familiare ripose il libretto senza neanche leggerlo, senonché, una sera per spostarlo gli cadde per terra e si aprì, caso volle proprio sulle pagine del “Va, pensiero”, e quando lesse il testo del famoso brano rimase pressoché scosso...
Dopodiché andò a dormire ma non riuscì a prendere sonno, si alzò e rilesse il testo più volte, ed alla fine lo musicò, e una volta musicato il “Va, pensiero”, decise di leggere e musicare l’intero libretto. L’opera andò in scena il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala ed il successo fu questa volta trionfale. Venne replicata ben sessantaquattro volte solo nel suo primo anno di esecuzione.
Con il “Nabucco” iniziò la parabola ascendente di Verdi. Sotto il profilo musicale l’opera presenta ancora un impianto belcantistico, in linea con i gusti del pubblico italiano del tempo, ma teatralmente è un’opera riuscita, nonostante la debolezza e alcune ingenuità del libretto.
Lo sviluppo dell’azione è rapido, incisivo, e tale caratteristica avrebbe contraddistinto anche la successiva, e più matura, produzione del compositore. Alcuni personaggi, come Nabucodonosor e Abigaille, sono fortemente caratterizzati sotto il profilo drammaturgico, così come il popolo ebraico, che si esprime in forma corale, unitaria, e che forse rappresenta il protagonista vero di questa prima, significativa, creazione verdiana. Uno dei cori dell’opera, appunto il celebre “Va, pensiero”, finì con il divenire una sorta di canto doloroso o inno contro l’occupante austriaco, diffondendosi rapidamente in Lombardia e nel resto d’Italia, tanto da venir cantato e suonato perfino per le strade.
Sempre in quel 1842 Verdi conosce due donne importantissime nella sua vita: la soprano e pianista Giuseppina Strepponi (1815-1897), che sarebbe diventata sua compagna e poi sua seconda moglie, e la contessa Chiarina Maffei (1814-1886),  grazie alla quale gli si aprirono le porte dei salotti milanesi.
Iniziano anni di lavoro durissimo e indefesso, grazie alle continue richieste, e al sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle, anni che Verdi chiamerà “gli anni di galera”.
Il “Nabucco” segnò l’inizio di una folgorante e lunga carriera. Per quasi dieci anni Verdi scrisse mediamente un’opera all’anno.
Da “I Lombardi alla prima crociata” a “La battaglia di Legnano”, passando per “I due Foscari”, “Giovanna d’Arco”, “Alzira”, “Attila”, “Il corsaro”, “I masnadieri”, “Ernani” e “Macbeth”.
Tali opere giovanili, ad eccezione delle due ultime, pur presentando talvolta al loro interno pagine di acceso lirismo ed una lucida visione dei meccanismi e delle dinamiche teatrali, non danno testimonianza di un’evoluzione del maestro verso forme musicali e drammaturgiche più personali e si adagiano su schemi già sperimentati in passato e legati alla tradizione melodica italiana precedente. Furono creazioni generalmente di successo rappresentate in molti teatri italiani ed europei, ma composte spesso su commissione, con ritmi di lavoro talvolta massacranti e non sempre sorrette da una genuina ispirazione.
Fra la produzione verdiana dell’epoca spiccano senz’altro, per forza drammaturgica e fascino melodico due opere, “Ernani” e “Macbeth”.
Tratta dall’omonimo dramma di Victor-Marie Hugo (1802-1885), l’“Ernani” fu concepito dal nostro fin dall’estate del 1843.
Musicato nell’inverno successivo su libretto di Francesco Maria Piave (1810-1876), venne presentato al pubblico veneziano in marzo. La vicenda, ricca di colpi di scena e incentrata su un triplice amore, diede la possibilità a Verdi di approfondire la caratterizzazione di alcuni personaggi dal punto di vista drammaturgico e di iniziare ad affrancarsi dall’ingombrante influsso dei grandi compositori italiani dei primi decenni dell’Ottocento: Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini (1801-1835) e Gaetano Donizetti (1797-1848).
Macbeth”, presentata al Teatro La Pergola di Firenze nel 1847, è, con ogni probabilità, il capolavoro giovanile di Verdi. Musicata su libretto dello stesso Francesco Maria Piave, si ispira alla tragedia omonima di William Shakespeare (1564-1616). Negli ultimi decenni è stata sottoposta a un intenso processo di rivalorizzazione, anche se generalmente viene rappresentata nella sua veste definitiva del 1865, riveduta e ampliata dal compositore bussetano. L’opera, dalle potenti connotazioni drammatiche, si differenzia dalle precedenti per un maggiore approfondimento psicologico dei protagonisti della tragedia (Macbeth e Lady Macbeth), preannunciando, con il suo debordante lirismo, la trilogia popolare di un Verdi entrato nella sua piena maturità espressiva.
Nel 1849, venne presentata al pubblico napoletano “Luisa Miller”, opera meno affascinante di “Macbeth”, ma importante per l’evoluzione dello stile musicale e della drammaturgia verdiana. L’orchestrazione si fa più raffinata che in passato, il recitativo più incisivo ed il compositore scava nella psiche della protagonista come mai aveva forse fatto prima di allora.
Anche nella creazione successiva, “Stiffelio”, rappresentata per la prima volta a Trieste nel 1850, Verdi portò avanti quel lavoro di caratterizzazione psicologica del personaggio centrale, iniziato con “Macbeth” e proseguito in “Luisa Miller”. L’opera presentava però alcune debolezze strutturali, dovute in parte ai drastici tagli operati dalla censura austriaca, che non gli permisero di imporsi al grande pubblico italiano ed europeo. Ancor oggi “Stiffelio” è rappresentato raramente.
Un anno più tardi, con “Rigoletto” (Venezia, 1851), Verdi si sarebbe imposto come il massimo operista italiano del suo tempo. “Rigoletto” fu seguito da altri due capolavori assoluti, “Il trovatore” e “La traviata”, che formano con esso la cosiddetta “trilogia popolare”, o (più impropriamente) “romantica”, del compositore bussetano. Tratto da una “pièce” di Victor Hugo, “Le roi s’amuse”, “Rigoletto” è un’opera profondamente innovativa, sotto il profilo drammaturgico e musicale. Per la prima volta al centro della vicenda di un’opera drammatica troviamo un buffone di corte, cioè un personaggio che, utilizzando una terminologia moderna, potremmo definire un c. d. “emarginato sociale”. La dimensione emotiva dei protagonisti è colta da Verdi magistralmente attraverso una partitura messa al servizio del dramma e di straordinaria bellezza melodica. Azione e musica sembrano rincorrersi e sostenersi mutuamente in una vicenda che ha un ritmo di sviluppo rapido, senza cedimenti né parti superflue.
Il miracolo si ripeté con “Il trovatore” (Roma, 1853), opera dall’impianto più tradizionale, ma altrettanto affascinante.
Dramma di grande originalità oltretutto, perché si struttura su una vicenda povera di avvenimenti e dove i protagonisti o sono proiettati verso un futuro gravido di incognite, o immersi nei ricordi di un passato lontano che ne condiziona l’azione e che li sospinge verso un destino di morte ineluttabile. Con codesta opera Verdi scrisse alcune fra le sue pagine più alte, ricche di patetismo e suggestioni tardo-romantiche che sarebbero nuovamente emerse pochi mesi più tardi, nella terza opera, in ordine cronologico, e precisamente “La Traviata” (Venezia, 1853), la quale  ruota attorno alla storia di una cortigiana travolta dall’amore per un giovane di buona famiglia. Più che su alcuni accadimenti esteriori, la vicenda viene vissuta all’interno della coscienza della protagonista la cui natura umana è scandagliata da Verdi in tutte le sue minime sfumature. Le scelte stilistiche del grande compositore risultano sempre adeguate alla complessa drammaturgia dell’opera e si traducono in un raffinamento orchestrale ed in una complessità armonica la cui modernità non venne all’epoca pienamente recepita. Attualmente alcuni critici considerano “La Traviata” una vera e propria pietra miliare nella creazione del dramma borghese degli ultimi decenni dell’Ottocento e ne evidenziano l’influenza su Giacomo Puccini (1858-1924) e gli autori veristi suoi contemporanei.
Con la “trilogia popolare”, Giuseppe Verdi si era imposto come il più celebre musicista del suo tempo.
Augustine Eugène Scribe (1791-1861), all’epoca librettista dell’Opéra di Parigi, propose al compositore un testo in francese per un’opera da rappresentare nella “Ville Lumière”.
Non senza esitazioni, Verdi accettò.
Ne uscì un’opera, “Les vêpres siciliennes” (1855), di notevole impatto musicale ma poco convincente sotto il profilo drammaturgico. L’opera, inquadrabile nel genere del “Grand opéra”, con spettacolari messe in scena, coreografie e movimenti di massa, poco si addiceva al genio verdiano, approdato con “la Traviata” ad un tipo di drammaturgia più intimista, psicologica.
Maggior successo avrebbe avuto, pochi mesi più tardi, la versione italiana dell’opera, “I vespri siciliani” (Parma, 1855), con la quale si sono cimentati, nel secondo dopoguerra alcuni fra i maggiori direttori d’orchestra ed interpreti della grande lirica internazionale (celebre fu a rappresentazione scaligera del 1951).
In quegli anni riaffiorò prepotente nel Maestro, ormai compositore affermato, ricco e noto al pubblico internazionale, il fascino della campagna.
Pertanto, nel maggio 1848 Verdi acquistò dai signori Merli la villa di Sant’Agata, una frazione di Villanova sull’Arda (provincia di Piacenza), dove diventò anche consigliere comunale.
Qui si stabilì tre anni più tardi, insieme alla sua nuova compagna, il soprano Giuseppina Strepponi, che sposò poi nel 1859.
La fattoria finì con l’assorbire gran parte del tempo del Maestro, almeno tutto quello che la musica gli lasciava libero e così, via via, con il passare degli anni, l’amore per la campagna diventò, per lui, quasi una mania. Le lettere, indirizzate al fattore, sono una riprova di quanto il “il Cigno di Busseto” fosse esperto in fatto di pioppicultura, di allevamento di cavalli, di irrigazione dei campi, di enologia.
Quanto poi fosse competente e si tenesse al corrente delle ultime novità si puo’ dedurre da una lettera, datata marzo 1888 ed indirizzata a dei coltivatori emiliani, che gli avevano mandato in omaggio sei cachi di cui avevano appena iniziato, in Italia, la coltivazione. Verdi se ne mostrò subito entusiasta, auspicandone la diffusione su tutto il territorio nazionale.
Il 31 agosto 1857 Verdi ottenne, dalla Repubblica di San Marino, il titolo di Patrizio Sanmarinese.
La seconda metà degli anni cinquanta del Secolo XIX furono, per il compositore, anni di vero e proprio travaglio.
Giuseppe Verdi poteva finalmente comporre senza fretta, ma l’intero mondo musicale stava lentamente cambiando.
Sui palcoscenici italiani, il “Simon Boccanegra”, presentato al pubblico veneziano nel 1857, non piacque. Il dramma, prettamente politico, non aveva quei risvolti sentimentali che tanto appassionavano il pubblico del tempo e quindi si attese quasi cinque lustri ed una rielaborazione radicale [cui collaborò anche Arrigo Boito (1842-1918)] per imporsi definitivamente nel repertorio lirico italiano ed internazionale (1881).
Due anni più tardi vedeva la luce, dopo varie vicissitudini prima con la censura napoletana (che in pratica rese impossibile la sua rappresentazione), poi con quella romana, “Un ballo in maschera” (Roma, 1859), opera di successo nella quale Verdi mescolò, con sapiente dosaggio, elementi procedenti dal teatro tragico e da quello leggero. Creazione musicalmente e drammaturgicamente raffinata, dallo stile elegante e delicato, in codesta opera affiora un’umanità vagamente inquieta, non esente da ambiguità, che trova nella relazione fra i due protagonisti i suoi momenti liricamente più elevati.
Un interessante connubio di elementi comici e tragici (con decisa prevalenza di questi ultimi), si realizza ne “La forza del destino” (San Pietroburgo, 1862). L’opera possiede un indubbio vigore musicale anche se appare in alcuni punti meno compatta, meno unitaria della precedente sotto il profilo teatrale. Ne “La forza del destino” Verdi riesce tuttavia ad elaborare un linguaggio ancor più realistico che in passato, anticipando l’opera successiva, il “Don Carlos”, presentato al pubblico parigino nel 1867.
Don Carlos” è oggi considerato uno dei grandi capolavori verdiani.
In quest’opera il compositore, pur facendo proprie alcune impostazioni del “Grand opéra” (fra cui l’articolazione in cinque atti, l’inserimento di un balletto fra il terzo e quarto, e la creazione di alcune scene particolarmente spettacolari), riesce a scavare in profondità nella psicologia dei protagonisti, offrendoci una poderosa raffigurazione del dramma umano e politico che sconvolse la Spagna nella seconda metà del XVI secolo e che ruota attorno alla logica spietata della Ragion di Stato.
Tale periodo di massima maturazione umana ed artistica culminò con l’“Aida”, andata in scena a Il Cairo la vigilia di Natale del 1871. L’opera fu il risultato finale dei contatti tra Verdi e il kedivè d’Egitto, che nel 1869 aveva invano tentato di ottenere dal maestro un inno per l’inaugurazione del Canale di Suez.
Aida” costituisce un ulteriore, grande passo in avanti verso la modernità. Il quasi completo abbandono dei pezzi a forma chiusa, l’uso ancor più accentuato che in passato di temi e motivi musicali ricorrenti potrebbero fare accostare tale opera al dramma wagneriano. In realtà Verdi aveva seguito un percorso del tutto autonomo in quest’opera, fondamentalmente intimista e poggiata su una vocalità dalle caratteristiche prettamente italiane. Ricordiamo a questo proposito che la prima opera di Wilhelm Richard Wagner (1813-1883) (di cui cadono quest’anno anche per lui i duecento anni dalla nascita) ad essere rappresentata in Italia fu il “Lohengrin” a Bologna, e ciò avvenne dopo la prima esecuzione dell’“Aida”. Verdi era tuttavia già al corrente di alcune innovazioni musicali del grande compositore tedesco, verso il quale inizialmente non nutriva molta stima.
Dopo “Aida”, Verdi decise di ritirarsi a vita privata.
Iniziò così il periodo del grande silenzio – sia pure interrotto dalla “Messa di Requiem” scritta in occasione della morte di Alessandro Manzoni (1785-1873) – durante il quale il rude contadino de Le Roncole meditò sui grandi mutamenti artistici in corso nel mondo. A far uscire Verdi dall’isolamento fu Arrigo Boito, il compositore scapigliato che lo aveva pubblicamente offeso nel 1863 ritenendolo causa del provincialismo e dell’arretratezza della musica italiana del tempo.
Con gli anni Boito aveva compreso che solo Verdi avrebbe potuto portare l’Italia musicale al passo con l’Europa e, con il fondamentale aiuto dell’editore Giulio Ricordi (1840-1912), si riconciliò con lui. Primo frutto della collaborazione fra il grande musicista e l’ex scapigliato fu il rifacimento del “Simon Boccanegra” rappresentato con grande successo al Teatro alla Scala di Milano nel 1881.
Seguirono a distanza di alcuni anni due opere memorabili: “Otello” e “Falstaff”, entrambi frutto delle fatiche letterarie di Boito, che si occupò della stesura dei rispettivi libretti, e di Verdi che ne compose la musica.
Si tratta di due capolavori assoluti del grande bussetano, ormai prossimo alla concezione wagneriana del dramma ma senza pagare un solo tributo allo stile del suo coetaneo d’oltralpe. In Boito Verdi poté trovare un collaboratore prezioso, che seppe essere all’altezza delle proprie concezioni drammaturgiche, un intellettuale di notevole spessore culturale, duttile nella versificazione ed, a sua volta, musicista, ovvero capace di pensare la poesia in funzione della musica. Le due opere, entrambe rappresentate alla Scala, ebbero esiti diversi. Se l’“Otello” incontrò immediatamente i gusti del pubblico, affermandosi stabilmente in repertorio, “Falstaff” lasciò, in un primo momento, perplesso il grande pubblico verdiano e, più in generale, i melomani italiani. Per la prima volta dopo lo sfortunato “Un giorno di regno” infatti, l’anziano Verdi si cimentava nel teatro comico, ma con la sua estrema commedia aveva accantonato in un sol colpo tutte le convenzioni formali dell’opera italiana, dando prova di una vitalità artistica, di uno spirito aperto alla modernità e di un’energia creativa sorprendenti. “Falstaff” fu sempre amato dai compositori ed esercitò un influsso decisivo sui giovani operisti, da Puccini agli autori della Generazione dell’Ottanta.
Il Maestro trascorse gli ultimi anni tra Sant’Agata e Milano. Aveva oramai perso gli ultimi amici di gioventù: Andrea Maffei e sua moglie Clara, Tito, I Ricordi ed Emanuele Muzio. Nel 1897 la moglie Giuseppina morì, lasciandolo solo nella sua lunga vecchiaia. Nel 1899 istituì l’Opera Pia - Casa di Riposo per i Musicisti: redigendo il testamento, stabilì molti legati destinati ad essa ed a vari altri enti sociali, mentre istituì erede universale delle sue ingenti ricchezze una cugina (da parte di padre) di Busseto, Filomena Verdi, la cui storia è come quella di una fortunata Cenerentola. Di famiglia poverissima, aveva abitato con Carlo Verdi, che aveva voluto strapparla alla miseria di casa sua. Quando il padre di Verdi morì (14 gennaio 1867), il musicista e Giuseppina presero a loro volta in casa la bambina di sette anni, che ribattezzarono Maria ed educarono con ogni cura, considerandola una figlia a tutti gli effetti. In seguito la ragazza si sposò con il figlio del notaio Carrara, loro buon amico, ed ebbe quattro figli maschi. Fu lei a prendersi cura del Maestro rimasto vedovo, e fu lei presente al suo letto di morte, insieme alla cantante Teresa Stolz (1834-1902).
Verdi morì a Milano in un appartamento dove era solito alloggiare dal 1872 al Grand Hotel et De Milan alle 2:50 del 27 gennaio 1901, all’età di 87 anni. Era venuto nella città lombarda per trascorrervi l’inverno, come faceva da tempo. Colto da malore, spirò dopo sei giorni di agonia. Il Maestro lasciò istruzioni per i suoi funerali: si sarebbero dovuti svolgere all’alba, od al tramonto, senza sfarzo né musica. Volle esequie semplici, come semplice era sempre stata la sua vita. Le ultime volontà del compositore vennero rispettate, ma non meno di centomila persone seguirono in silenzio il feretro. Nei giorni che precedettero la morte di Verdi, via Manzoni e le strade circostanti vennero cosparse di paglia affinché lo scalpitio dei cavalli ed il rumore delle carrozze non ne disturbassero il riposo. Venne sepolto a Milano presso la Casa di Riposo per i Musicisti che lui stesso istituì.
Tra le cerimonie svoltesi in tutta Italia per commemorare la morte di Verdi, particolarmente suggestiva fu quella che si svolse, alla presenza del principe Tommaso di Savoia-Genova (1854-1931), Duca di Genova, fratello germano della Regina Madre Margherita di Savoia (1851-1926), nel teatro greco di Siracusa. Fu stampata anche una cartolina commemorativa in occasione del luttuoso evento, mentre sia Giovanni Pascoli (1855-1912) che Gabriele d’Annunzio (1863-1938) scrissero composizioni poetiche in sua memoria. Al Museo Verdiano Casa Barezzi di Busseto è conservata la prima stesura del manoscritto originale dell’ode “In morte di Giuseppe Verdi” (1901) del d’Annunzio medesimo.
Verdi si cimentò anche al di fuori dal campo operistico.
Dopo aver ricevuto la formazione di maestro di cappella - secondo la prassi italiana dell’epoca - scrisse molta musica sacra e strumentale, destinata per lo più alla locale Società Filarmonica. Ricordiamo di questo periodo (1836-1839) un “Tantum ergo”, che il compositore giudicò molto severamente negli anni della propria maturità. Dall’”Oberto” (1839) abbandonò, per oltre vent’anni, i generi non operistici, con l’eccezione della musica da camera (fra cui alcune romanze da salotto).
Nel 1862 il Nostro compose, per l’Esposizione Universale di Londra, il c. d. “Inno delle Nazioni” su testo del Boito.
Molti anni più tardi, Verdi scrisse, come abbiamo di già detto, anche una “Messa di requiem” per la morte di Alessandro Manzoni (rappresentata nella Chiesa di San Marco a Milano il 22 maggio 1874). In realtà, di già dopo la morte di Rossini, era stato proposto a ben undici compositori italiani del tempo, come omaggio collettivo al compositore pesarese, un “Requiem” mai realizzato. Verdi per sé aveva riservato l’ultimo brano, quel “Libera me, Domine” che avrebbe recuperato successivamente, inserendolo, con alcuni cambiamenti, nel “Requiem” medesimo per il Manzoni.
Sempre nel campo della musica sacra, Verdi compose un “Pater noster”, su testo in volgare di Dante, pubblicato nel 1880 ed i Quattro pezzi sacri, composti nella tarda maturità e pubblicati nel 1898: “Ave Maria”, “Stabat Mater”, “Laudi” (alla Vergine) ed un “Te Deum”.
Di Verdi, nel genere cameristico, ricordiamo alcune opere giovanili come le “Sei romanze” (ed. 1838) ed un “Album di sei romanze” (ed. 1845) per voce e pianoforte ed il “Quartetto” per archi in mi minore (1873).
Giuseppe Verdi partecipò anche attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu, come si è accennato, un patriota convinto, anche se nell’ultima parte della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle proprie aspettative.
In occasione delle celebrazioni del CL Anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, nell’articolo “I motivi che portarono all’Unità d’Italia”, tra l’altro, scrissi:
(…) Ma la “Restaurazione” fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.
Agli ideali illuministici, razionali, che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre quel nuovo movimento culturale che è il Romanticismo.
Fra tutti gli avversari  della Restaurazione, gli ex-ufficiali napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperiale ed impazienti dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento più combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi restaurati. Ed accanto a loro  un grosso contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto predominio dell’aristocrazia, oppure  da nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati, come si diceva poc’anzi, dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo dalla Germania verso il resto dell’Europa.
Da principio puo’ apparire che il Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il sentimento, in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla Restaurazione. Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle tradizioni nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo l’alimento del patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento individuale, alla libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi alle regole del classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà contro lo spirito autoritario della Restaurazione.
Romantico diviene sinonimo ovunque di liberale e patriota.
Non dimentichiamoci che il Romanticismo nasce in Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato “Sturm und Drang”, “impeto ed assalto”.
La cultura del Romanticismo, infatti, non vive isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma partecipa caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.
In ogni paese, le università con i loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista [Vincenzo Bellini (1801-1835), Giuseppe Verdi (1813-1901)] si sentono investiti di una specie di missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro contemporanei. (…)”.    

Nel corso della vita di Verdi, lunga quasi un secolo, l’Italia si trasforma appunto da paese soggiogato al dominio straniero in uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi potenze europee. 

Il Risorgimento, le lotte per l’unificazione d’Italia, non potevano lasciare indifferente l'animo del compositore. “Nabucco” (con il famoso coro “Va’ pensiero, sull’ali dorate), “I Lombardi alla prima crociata” (famoso è “O Signore dal tetto natio”), “Macbeth”, “Don Carlo esprimono il sincero amore patriottico di Verdi  ed il suo dolore per un popolo oppresso.
A Milano, come detto, frequentò i salotti intellettuali della città, primo tra tutti quello dell'amica Chiarina Maffei,  dove fervevano sentimenti ed iniziative anti-austriache.

I moti del 1848 lo portarono sicuramente ed apertamente a manifestare i di lui ideali patriottici.

Il nome del Maestro rimarrà per sempre legato agli ideali del Risorgimento, trasformandosi in un acrostico rivoluzionario, “Viva Verdi!”, da leggersi "Viva Vittorio Emanuele re d’Italia!", scritto per la prima volta sulle mura di Roma all’epoca di “Un ballo in maschera. Il graffito alludeva ad un’aspirazione che con gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa.
Lo stesso Verdi finisce per credere in questo progetto quando soprattutto comprende che l’unità del paese si potè concretizzare non tanto attraverso l’insurrezione popolare e l’inutile e fuori luogo utopia repubblicana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), ma esclusivamente con un paziente lavoro diplomatico.
Fu Camillo Benso di Cavour (1810-1861) che lo volle, quasi a viva forza, membro del primo parlamento del Regno d’Italia (1861-1865), eletto come Deputato nel Collegio di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza.
Tuttavia, le alchimie politiche si rivelano estranee alla personalità del Maestro.
Quindi entrò in Parlamento, ma ci rimase solo per soli cinque anni (1861-1865), convinto di essere più utile al suo paese come artista che come deputato.
Ma successivamente, Giuseppe Verdi fu giustamente creato senatore del Regno (dal 15 novembre 1874), e ciò ai sensi dell’art. 33, categorie 20 (“Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrato la Patria”) e 21 (“Le persone che da tre anni pagano tremila lire di imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria”) dello Statuto Albertino.
Per le sue alte benemerenze verso  la Patria, il Nostro fu creato anche Cavaliere Civile di Savoia (1867),  Cavaliere di Gran Croce decorato del Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e dell’Ordine della Corona d’Italia (entrambi nel 1887), nonché di numerosi ordini equestri stranieri (tra cui la Legion d’Onore francese) e quindi Cittadino Onorario di Parma con medaglia d’oro (1872).  
Fu anche consigliere provinciale di Piacenza. Rappresentò, e continua a rappresentare per molti italiani la somma di tutti quei simboli che li hanno guidati all’unificazione nazionale contro l’oppressione straniera.
Per lungo tempo Verdi è stato considerato un tranquillo uomo di campagna toccato dal genio, un uomo rustico e schietto, integerrimo, e di rara onestà intellettuale.
Tale immagine si univa a quella del patriota ardente, che a giusto titolo sedette come deputato nel primo parlamento dell’Italia unita. Aspetti tutti codesti, facenti sicuramente parte della di lui personalità ma che da soli non possono spiegare la grandezza dell’artista e delle sue immortali creazioni.
In realtà Verdi fu un operista attento alle grandi correnti di pensiero che percorrevano l’Italia e l’Europa del tempo, pronto a mettersi in discussione e nel contempo profondamente conscio del proprio valore. Sempre aggiornatissimo, alla ricerca di nuovi soggetti cui ispirare le proprie opere, fu un grande frequentatore della capitale artistica dell’Europa del tempo, Parigi. Il suo primo viaggio nella “Ville Lumière” risale al 1847, l’ultimo, al 1894, in occasione dell’allestimento dell’“Otello” che egli stesso volle seguire personalmente.
Compositore meticoloso, dotato di un’eccezionale sensibilità drammaturgica che aveva ulteriormente affinato con gli anni, Verdi fu per tutta la sua vita uno sperimentatore, proteso verso traguardi sempre più alti e dotato di un senso critico fuori del comune, che gli permise di andare incontro ai gusti di un pubblico sempre più esigente pur senza mai rinunciare ai propri convincimenti di uomo ed artista.
L’ampio epistolario che ci ha lasciato, oltre a rappresentare un affascinante affresco di quasi settant’anni di storia italiana (dalla metà degli anni trenta del secolo XIX sino alla fine del secolo medesimo), è uno strumento per conoscere un Verdi “inedito”, orgoglioso della propria estrazione contadina, ma allo stesso tempo uomo fondamentalmente colto ed osservatore fine della realtà e dell’ambiente che lo circondavano, personaggio inquieto e protagonista carismatico di un’epoca memorabile.

Stimato ed amato da un ampio pubblico internazionale, Giuseppe Verdi è sicuramente, con Giacomo Puccini, l’operista più rappresentato al mondo, occupando un posto privilegiato nell’olimpo dei più grandi creatori musicali di tutti i tempi.