G I U S E P P E V E R D I
NEL II CENTENARIO DELLA NASCITA
(1813-1901)
Roma, 2013
Cade
quest’anno, il II Centenario della nascita di uno dei più grandi ed innovatori
musicisti italiani: Giuseppe Verdi.
Il padre Carlo
proveniva da una famiglia di agricoltori piacentini (stesse origini della moglie) e,
dopo aver messo da parte un po’ di denaro, aveva aperto una modesta osteria nella
casa de Le Roncole, la cui conduzione alternava con il lavoro dei campi.
Il
registro dei battesimi, del giorno 11 ottobre 1813, indica Giuseppe Verdi come
“nato ieri”.
Il giorno
successivo venne battezzato nella chiesa locale di San Giovanni Battista e gli
vennero imposti, come poca’anzi detto, i nomi di Giuseppe Fortunino Francesco.
Il terzo giorno della sua nascita il padre di Verdi raggiunse Busseto per
notificare la nascita alle autorità locali e venne indicato nel registro
comunale coi nomi di “Joseph Fortunin François”.
L’atto di
nascita fu redatto in lingua francese, appartenendo in quegli anni Busseto ed il
suo territorio all’Impero creato da Napoleone
Bonaparte (1769-1821).
Pur
essendo un giovane di umile condizione sociale, riuscì tuttavia a seguire la
propria vocazione di compositore grazie alla buona volontà ed al desiderio di
apprendere dimostrato.
L’organista
della chiesa de Le Roncole lo prese a benvolere e gratuitamente lo indirizzò
verso lo studio della musica ed alla pratica dell’organo. Più tardi, Antonio
Barezzi (1787-1867), un negoziante amante della musica e direttore della
locale società filarmonica, convinto che la fiducia nel giovane non fosse mal
riposta, divenne suo mecenate e protettore aiutandolo a proseguire gli studi
intrapresi.
La prima
formazione del futuro compositore avvenne tuttavia sia frequentando la ricca biblioteca
della Scuola dei Gesuiti
sita in Busseto,
ancora esistente, sia prendendo lezioni da Ferdinando Provesi
(1770-1833), maestro dei locali filarmonici, che gli insegnò i principi della
composizione musicale e della pratica strumentale.
Verdi
aveva solo quindici anni quando, nel 1828, una sua sinfonia d’apertura venne eseguita, in luogo di
quella di Gioacchino Rossini (1792-1868), nel corso di una
rappresentazione de “Il barbiere di Siviglia” al teatro di Busseto.
Nel 1832 il Nostro si
stabilì in Milano, grazie all’ulteriore aiuto economico di Antonio
Barezzi ed a una “pensione”
elargitagli dal Monte di Pietà di Busseto.
A Milano
tentò inutilmente di essere ammesso presso il locale prestigioso Conservatorio e fu per
diversi anni allievo di Vincenzo Lavigna (1776-1836), maestro concertatore
alla Scala.
Nel 1836 sposò Margherita Barezzi (1814-1840), ventiduenne
figlia del suo benefattore, con la quale due anni più tardi andò a vivere a
Milano in una modesta abitazione a Porta
Ticinese.
Nel 1839 riuscì finalmente,
dopo quattro anni di lavoro, a far rappresentare la sua prima opera alla Scala:
era l’“Oberto, Conte di San Bonifacio”, su libretto originale di Antonio Piazza (1742-1825),
largamente rivisto e riadattato da un altro librettista Temistocle
Solera (1815-1878). L’“Oberto”
era un lavoro di stampo donizettiano, ma alcune sue peculiarità drammatiche
piacquero al pubblico tanto che l’opera ebbe un buon successo e quattordici
repliche.
Ma, in quei giorni lieti, un tremendo dolore famigliare attanagliava
Verdi a causa della tragedia che aveva
vissuto: la morte della moglie e dei figli avuti da lei. La prima ad andarsene
era stata la piccola Virginia Maria, nata nel marzo 1837 e deceduta nell’agosto 1838; quindi Icilio
Romano, nato nel luglio
1838, e deceduto
invece nell’ottobre
1839. Infine la loro
madre Margherita era spirata nel giugno 1840.
Verdi era solo, privo ormai della sua famiglia. Ciò aveva
gettato il musicista nel più profondo sconforto, e per ironia della sorte l’opera
che gli era stata richiesta doveva essere comica: “Un giorno di
regno”, che si rivela un clamoroso fiasco.
Verdi dichiara che non avrebbe più composto musica.
Fu un libretto, una storia che poteva funzionare, a fargli
cambiare idea.
L’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli (1794-1879), lo
fece leggere al Maestro e lo convinse a non abbandonare la lirica. Era un soggetto biblico, il “Nabucco”, scritto ancora da Temistocle
Solera.
Verdi, però, ancora scosso dalla tragedia familiare ripose il
libretto senza neanche leggerlo, senonché, una sera per spostarlo gli cadde per
terra e si aprì, caso volle proprio sulle pagine del “Va, pensiero”, e quando lesse il testo del famoso
brano rimase pressoché scosso...
Dopodiché andò a dormire ma non riuscì a prendere sonno, si
alzò e rilesse il testo più volte, ed alla fine lo musicò, e una volta musicato
il “Va, pensiero”,
decise di leggere e musicare l’intero libretto. L’opera andò in scena il 9 marzo 1842 al Teatro
alla Scala ed il successo fu questa volta trionfale. Venne replicata ben sessantaquattro
volte solo nel suo primo anno di esecuzione.
Con il “Nabucco” iniziò la parabola ascendente di
Verdi. Sotto il profilo musicale l’opera presenta ancora un impianto
belcantistico, in linea con i gusti del pubblico italiano del tempo, ma
teatralmente è un’opera riuscita, nonostante la debolezza e alcune ingenuità
del libretto.
Lo
sviluppo dell’azione è rapido, incisivo, e tale caratteristica avrebbe
contraddistinto anche la successiva, e più matura, produzione del compositore.
Alcuni personaggi, come Nabucodonosor e Abigaille, sono fortemente
caratterizzati sotto il profilo drammaturgico, così come il popolo ebraico, che
si esprime in forma corale, unitaria, e che forse rappresenta il protagonista
vero di questa prima, significativa, creazione verdiana. Uno dei cori dell’opera,
appunto il celebre “Va,
pensiero”, finì con il divenire una sorta di canto doloroso o inno
contro l’occupante austriaco, diffondendosi rapidamente in Lombardia e
nel resto d’Italia, tanto da venir cantato e suonato perfino per le strade.
Sempre in quel 1842 Verdi conosce due donne importantissime
nella sua vita: la soprano e pianista Giuseppina
Strepponi (1815-1897), che sarebbe diventata sua compagna e poi sua
seconda moglie, e la contessa Chiarina Maffei (1814-1886), grazie alla
quale gli si aprirono le porte dei salotti milanesi.
Iniziano anni di lavoro durissimo e indefesso, grazie alle
continue richieste, e al sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle, anni
che Verdi chiamerà “gli anni di galera”.
Il “Nabucco” segnò l’inizio di
una folgorante e lunga carriera. Per quasi dieci anni Verdi scrisse mediamente
un’opera all’anno.
Tali opere giovanili, ad eccezione delle due ultime, pur
presentando talvolta al loro interno pagine di acceso lirismo ed una lucida
visione dei meccanismi e delle dinamiche teatrali, non danno testimonianza di
un’evoluzione del maestro verso forme musicali e drammaturgiche più personali e
si adagiano su schemi già sperimentati in passato e legati alla tradizione
melodica italiana precedente. Furono creazioni generalmente di successo
rappresentate in molti teatri italiani ed europei, ma
composte spesso su commissione, con ritmi di lavoro talvolta massacranti e non
sempre sorrette da una genuina ispirazione.
Fra la produzione verdiana dell’epoca spiccano senz’altro, per
forza drammaturgica e fascino melodico due opere, “Ernani” e “Macbeth”.
Tratta dall’omonimo dramma di Victor-Marie Hugo (1802-1885), l’“Ernani” fu
concepito dal nostro fin dall’estate del 1843.
Musicato nell’inverno successivo su libretto di Francesco Maria Piave (1810-1876), venne
presentato al pubblico veneziano in marzo. La vicenda, ricca di colpi di scena
e incentrata su un triplice amore, diede la possibilità a Verdi di approfondire
la caratterizzazione di alcuni personaggi dal punto di vista drammaturgico e di
iniziare ad affrancarsi dall’ingombrante influsso dei grandi compositori
italiani dei primi decenni dell’Ottocento: Gioachino
Rossini, Vincenzo Bellini (1801-1835) e Gaetano
Donizetti (1797-1848).
“Macbeth”, presentata al Teatro
La Pergola di Firenze
nel 1847, è, con
ogni probabilità, il capolavoro giovanile di Verdi. Musicata su libretto dello
stesso Francesco Maria Piave, si ispira alla
tragedia omonima di William Shakespeare (1564-1616). Negli ultimi
decenni è stata sottoposta a un intenso processo di rivalorizzazione, anche se
generalmente viene rappresentata nella sua veste definitiva del 1865, riveduta e
ampliata dal compositore bussetano. L’opera, dalle potenti connotazioni
drammatiche, si differenzia dalle precedenti per un maggiore approfondimento
psicologico dei protagonisti della tragedia (Macbeth e Lady Macbeth),
preannunciando, con il suo debordante lirismo, la trilogia popolare di un Verdi
entrato nella sua piena maturità espressiva.
Nel 1849, venne presentata
al pubblico napoletano “Luisa Miller”, opera meno
affascinante di “Macbeth”, ma importante per l’evoluzione
dello stile musicale e della drammaturgia verdiana. L’orchestrazione si fa più
raffinata che in passato, il recitativo più incisivo ed il compositore scava
nella psiche della protagonista come mai aveva forse fatto prima di allora.
Anche
nella creazione successiva, “Stiffelio”, rappresentata per
la prima volta a Trieste
nel 1850, Verdi
portò avanti quel lavoro di caratterizzazione psicologica del personaggio
centrale, iniziato con “Macbeth” e proseguito in “Luisa
Miller”. L’opera presentava però alcune debolezze strutturali, dovute
in parte ai drastici tagli operati dalla censura
austriaca, che non gli permisero di imporsi al grande pubblico italiano ed
europeo. Ancor oggi “Stiffelio”
è rappresentato raramente.
Un anno
più tardi, con “Rigoletto” (Venezia, 1851), Verdi si sarebbe
imposto come il massimo operista italiano del suo tempo. “Rigoletto” fu seguito da altri due capolavori
assoluti, “Il trovatore” e “La traviata”, che formano con
esso la cosiddetta “trilogia popolare”,
o (più impropriamente) “romantica”,
del compositore bussetano. Tratto da una “pièce” di Victor Hugo, “Le roi s’amuse”,
“Rigoletto” è un’opera
profondamente innovativa, sotto il profilo drammaturgico e musicale. Per la
prima volta al centro della vicenda di un’opera drammatica troviamo un buffone
di corte, cioè un personaggio che, utilizzando una terminologia moderna,
potremmo definire un c. d. “emarginato
sociale”. La dimensione emotiva dei protagonisti è colta da Verdi
magistralmente attraverso una partitura messa al servizio del dramma e di
straordinaria bellezza melodica. Azione e musica sembrano rincorrersi e
sostenersi mutuamente in una vicenda che ha un ritmo di sviluppo rapido, senza
cedimenti né parti superflue.
Il
miracolo si ripeté con “Il trovatore” (Roma, 1853), opera dall’impianto
più tradizionale, ma altrettanto affascinante.
Dramma di
grande originalità oltretutto, perché si struttura su una vicenda povera di
avvenimenti e dove i protagonisti o sono proiettati verso un futuro gravido di
incognite, o immersi nei ricordi di un passato lontano che ne condiziona l’azione
e che li sospinge verso un destino di morte ineluttabile. Con codesta opera
Verdi scrisse alcune fra le sue pagine più alte, ricche di patetismo e
suggestioni tardo-romantiche che sarebbero nuovamente emerse pochi mesi più
tardi, nella terza opera, in ordine cronologico, e precisamente “La Traviata” (Venezia, 1853), la quale ruota attorno alla storia di una cortigiana
travolta dall’amore per un giovane di buona famiglia. Più che su alcuni
accadimenti esteriori, la vicenda viene vissuta all’interno della coscienza
della protagonista la cui natura umana è scandagliata da Verdi in tutte le sue
minime sfumature. Le scelte stilistiche del grande compositore risultano sempre
adeguate alla complessa drammaturgia dell’opera e si traducono in un
raffinamento orchestrale ed in una complessità armonica la cui modernità non
venne all’epoca pienamente recepita. Attualmente alcuni critici considerano “La
Traviata” una vera e
propria pietra miliare nella creazione del dramma borghese degli ultimi decenni
dell’Ottocento e ne evidenziano l’influenza su Giacomo Puccini
(1858-1924) e gli autori veristi suoi contemporanei.
Con la “trilogia popolare”, Giuseppe Verdi si
era imposto come il più celebre musicista del suo tempo.
Augustine
Eugène
Scribe (1791-1861), all’epoca librettista dell’Opéra di Parigi, propose al
compositore un testo in francese per un’opera da rappresentare nella “Ville Lumière”.
Non senza
esitazioni, Verdi accettò.
Ne uscì
un’opera, “Les
vêpres siciliennes” (1855), di notevole impatto musicale ma poco convincente sotto il
profilo drammaturgico. L’opera, inquadrabile nel genere del “Grand
opéra”, con spettacolari messe in scena, coreografie e movimenti di
massa, poco si addiceva al genio verdiano, approdato con “la Traviata” ad un tipo di drammaturgia più intimista, psicologica.
Maggior
successo avrebbe avuto, pochi mesi più tardi, la versione italiana dell’opera, “I vespri
siciliani” (Parma, 1855),
con la quale si sono cimentati, nel secondo dopoguerra alcuni fra i maggiori
direttori d’orchestra ed interpreti della grande lirica internazionale (celebre
fu a rappresentazione scaligera del 1951).
In quegli
anni riaffiorò prepotente nel Maestro, ormai compositore affermato, ricco e
noto al pubblico internazionale, il fascino della campagna.
La
fattoria finì con l’assorbire gran parte del tempo del Maestro, almeno tutto
quello che la musica gli lasciava libero e così, via via, con il passare degli
anni, l’amore per la campagna diventò, per lui, quasi una mania. Le lettere,
indirizzate al fattore, sono una riprova di quanto il “il Cigno di Busseto” fosse esperto in fatto di pioppicultura, di
allevamento di cavalli, di irrigazione dei campi, di enologia.
Quanto
poi fosse competente e si tenesse al corrente delle ultime novità si puo’
dedurre da una lettera, datata marzo 1888
ed indirizzata a dei coltivatori emiliani, che gli avevano mandato in omaggio
sei cachi di cui avevano appena iniziato, in Italia, la coltivazione. Verdi se
ne mostrò subito entusiasta, auspicandone la diffusione su tutto il territorio
nazionale.
La
seconda metà degli anni cinquanta del Secolo XIX furono, per il compositore,
anni di vero e proprio travaglio.
Giuseppe Verdi
poteva finalmente comporre senza fretta, ma l’intero mondo musicale stava
lentamente cambiando.
Sui palcoscenici
italiani, il “Simon Boccanegra”, presentato
al pubblico veneziano nel 1857, non piacque. Il dramma, prettamente politico, non aveva
quei risvolti sentimentali che tanto appassionavano il pubblico del tempo e quindi
si attese quasi cinque lustri ed una rielaborazione radicale [cui collaborò
anche Arrigo
Boito (1842-1918)] per imporsi definitivamente nel repertorio lirico
italiano ed internazionale (1881).
Due anni
più tardi vedeva la luce, dopo varie vicissitudini prima con la censura
napoletana (che in pratica rese impossibile la sua rappresentazione), poi con
quella romana, “Un ballo
in maschera” (Roma, 1859),
opera di successo nella quale Verdi mescolò, con sapiente dosaggio, elementi
procedenti dal teatro tragico e da quello leggero. Creazione musicalmente e
drammaturgicamente raffinata, dallo stile elegante e delicato, in codesta opera
affiora un’umanità vagamente inquieta, non esente da ambiguità, che trova nella
relazione fra i due protagonisti i suoi momenti liricamente più elevati.
Un
interessante connubio di elementi comici e tragici (con decisa prevalenza di
questi ultimi), si realizza ne “La forza
del destino” (San Pietroburgo, 1862). L’opera possiede un indubbio vigore musicale anche se
appare in alcuni punti meno compatta, meno unitaria della precedente sotto il
profilo teatrale. Ne “La forza del destino” Verdi riesce tuttavia ad elaborare un linguaggio ancor più
realistico che in passato, anticipando l’opera successiva, il “Don Carlos”,
presentato al pubblico parigino nel 1867.
“Don
Carlos” è oggi considerato
uno dei grandi capolavori verdiani.
In quest’opera
il compositore, pur facendo proprie alcune impostazioni del “Grand
opéra” (fra cui l’articolazione in cinque atti, l’inserimento di un
balletto fra il terzo e quarto, e la creazione di alcune scene particolarmente
spettacolari), riesce a scavare in profondità nella psicologia dei
protagonisti, offrendoci una poderosa raffigurazione del dramma umano e politico
che sconvolse la Spagna
nella seconda metà del XVI secolo e che ruota attorno alla logica spietata
della Ragion di Stato.
Tale
periodo di massima maturazione umana ed artistica culminò con l’“Aida”, andata in scena a Il Cairo la
vigilia di Natale del 1871.
L’opera fu il risultato finale dei contatti tra Verdi e il kedivè d’Egitto,
che nel 1869 aveva
invano tentato di ottenere dal maestro un inno per l’inaugurazione del Canale
di Suez.
“Aida” costituisce un ulteriore, grande
passo in avanti verso la modernità. Il quasi completo abbandono dei pezzi a
forma chiusa, l’uso ancor più accentuato che in passato di temi e motivi
musicali ricorrenti potrebbero fare accostare tale opera al dramma wagneriano. In
realtà Verdi aveva seguito un percorso del tutto autonomo in quest’opera,
fondamentalmente intimista e poggiata su una vocalità dalle caratteristiche
prettamente italiane. Ricordiamo a questo proposito che la prima opera di Wilhelm
Richard Wagner (1813-1883) (di cui cadono quest’anno anche per lui i duecento
anni dalla nascita) ad essere rappresentata in Italia fu il “Lohengrin” a Bologna, e ciò
avvenne dopo la prima esecuzione dell’“Aida”.
Verdi era tuttavia già al corrente di alcune innovazioni musicali del grande
compositore tedesco, verso il quale inizialmente non nutriva molta stima.
Dopo “Aida”, Verdi decise di ritirarsi a vita
privata.
Iniziò
così il periodo del grande silenzio – sia pure interrotto dalla “Messa
di Requiem” scritta in occasione della morte di Alessandro Manzoni (1785-1873) – durante il
quale il rude contadino de Le Roncole meditò sui grandi mutamenti artistici in
corso nel mondo. A far uscire Verdi dall’isolamento fu Arrigo
Boito, il compositore scapigliato che lo aveva pubblicamente offeso nel 1863 ritenendolo causa
del provincialismo e dell’arretratezza della musica italiana del tempo.
Seguirono
a distanza di alcuni anni due opere memorabili: “Otello”
e “Falstaff”, entrambi frutto
delle fatiche letterarie di Boito, che si occupò della stesura dei rispettivi
libretti, e di Verdi che ne compose la musica.
Si tratta
di due capolavori assoluti del grande bussetano, ormai prossimo alla concezione
wagneriana del dramma ma senza pagare un solo tributo allo stile del suo
coetaneo d’oltralpe. In Boito Verdi poté trovare un collaboratore prezioso, che
seppe essere all’altezza delle proprie concezioni drammaturgiche, un
intellettuale di notevole spessore culturale, duttile nella versificazione ed,
a sua volta, musicista, ovvero capace di pensare la poesia in funzione della
musica. Le due opere, entrambe rappresentate alla Scala,
ebbero esiti diversi. Se l’“Otello”
incontrò immediatamente i gusti del pubblico, affermandosi stabilmente in
repertorio, “Falstaff”
lasciò, in un primo momento, perplesso il grande pubblico verdiano e, più in
generale, i melomani italiani. Per la prima volta dopo lo sfortunato “Un giorno
di regno” infatti, l’anziano Verdi si cimentava nel teatro
comico, ma con la sua estrema commedia aveva accantonato in un sol colpo tutte
le convenzioni formali dell’opera italiana, dando prova di una vitalità
artistica, di uno spirito aperto alla modernità e di un’energia creativa
sorprendenti. “Falstaff”
fu sempre amato dai compositori ed esercitò un influsso decisivo sui giovani
operisti, da Puccini agli autori della Generazione dell’Ottanta.
Il
Maestro trascorse gli ultimi anni tra Sant’Agata e Milano. Aveva oramai perso
gli ultimi amici di gioventù: Andrea
Maffei e sua moglie Clara, Tito,
I Ricordi ed Emanuele Muzio. Nel 1897 la moglie Giuseppina morì, lasciandolo solo nella sua
lunga vecchiaia. Nel 1899
istituì l’Opera Pia - Casa di Riposo per i Musicisti:
redigendo il testamento, stabilì molti legati destinati ad essa ed a
vari altri enti sociali, mentre istituì erede universale delle sue ingenti
ricchezze una cugina
(da parte di padre) di Busseto, Filomena Verdi, la cui storia è
come quella di una fortunata Cenerentola. Di famiglia poverissima, aveva abitato con
Carlo Verdi, che aveva voluto strapparla alla miseria di casa sua. Quando il
padre di Verdi morì (14 gennaio 1867), il musicista e Giuseppina presero a loro volta in casa la
bambina di sette anni, che ribattezzarono Maria ed educarono con ogni cura,
considerandola una figlia a tutti gli effetti. In seguito la ragazza si sposò
con il figlio del notaio Carrara, loro buon amico, ed ebbe quattro figli
maschi. Fu lei a prendersi cura del Maestro rimasto vedovo, e fu lei presente
al suo letto di morte, insieme alla cantante Teresa
Stolz (1834-1902).
Verdi
morì a Milano in
un appartamento dove era solito alloggiare dal 1872 al Grand Hotel et De Milan alle 2:50 del
27 gennaio
1901, all’età di 87
anni. Era venuto nella città lombarda per trascorrervi l’inverno, come faceva
da tempo. Colto da malore, spirò dopo sei giorni di agonia. Il Maestro lasciò
istruzioni per i suoi funerali: si sarebbero dovuti svolgere all’alba, od al
tramonto, senza sfarzo né musica. Volle esequie semplici, come semplice era
sempre stata la sua vita. Le ultime volontà del compositore vennero rispettate,
ma non meno di centomila persone seguirono in silenzio il feretro. Nei giorni
che precedettero la morte di Verdi, via Manzoni e le strade circostanti vennero
cosparse di paglia
affinché lo scalpitio dei cavalli ed il rumore delle carrozze non ne
disturbassero il riposo. Venne sepolto a Milano presso la Casa di Riposo per i
Musicisti che lui stesso istituì.
Tra le
cerimonie svoltesi in tutta Italia per commemorare la morte di Verdi,
particolarmente suggestiva fu quella che si svolse, alla presenza del principe
Tommaso di Savoia-Genova (1854-1931), Duca di Genova, fratello germano della
Regina Madre Margherita di Savoia (1851-1926), nel teatro greco di Siracusa. Fu stampata
anche una cartolina commemorativa in occasione del luttuoso
evento, mentre sia Giovanni Pascoli
(1855-1912) che Gabriele d’Annunzio (1863-1938) scrissero composizioni poetiche
in sua memoria. Al Museo Verdiano Casa Barezzi di Busseto è
conservata la prima stesura del manoscritto originale dell’ode “In morte di Giuseppe Verdi” (1901) del
d’Annunzio medesimo.
Verdi si
cimentò anche al di fuori dal campo operistico.
Dopo aver
ricevuto la formazione di maestro di cappella - secondo la prassi
italiana dell’epoca - scrisse molta musica
sacra e strumentale, destinata per lo più alla locale Società Filarmonica.
Ricordiamo di questo periodo (1836-1839)
un “Tantum ergo”, che il
compositore giudicò molto severamente negli anni della propria maturità. Dall’”Oberto” (1839)
abbandonò, per oltre vent’anni, i generi non operistici, con l’eccezione della
musica da camera (fra cui alcune romanze da salotto).
Molti
anni più tardi, Verdi scrisse, come abbiamo di già detto, anche una “Messa
di requiem” per la morte di Alessandro Manzoni (rappresentata nella Chiesa
di San Marco a Milano il 22 maggio 1874). In realtà, di già dopo la morte di Rossini,
era stato proposto a ben undici compositori italiani del tempo, come omaggio
collettivo al compositore pesarese, un “Requiem” mai realizzato. Verdi
per sé aveva riservato l’ultimo brano, quel “Libera me, Domine” che avrebbe recuperato
successivamente, inserendolo, con alcuni cambiamenti, nel “Requiem” medesimo per il Manzoni.
Sempre
nel campo della musica sacra, Verdi compose un “Pater noster”, su testo in
volgare di Dante, pubblicato nel 1880 ed i Quattro
pezzi sacri, composti nella tarda maturità e pubblicati nel 1898: “Ave Maria”,
“Stabat Mater”, “Laudi” (alla Vergine) ed un “Te Deum”.
Di Verdi,
nel genere cameristico, ricordiamo alcune opere giovanili
come le “Sei romanze”
(ed. 1838) ed un “Album
di sei romanze” (ed. 1845) per voce e
pianoforte ed il “Quartetto”
per archi in mi minore (1873).
Giuseppe Verdi
partecipò anche attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu, come si è
accennato, un patriota convinto, anche se nell’ultima parte della sua vita
traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una
disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia unita, che forse
non si era rivelata all’altezza delle proprie aspettative.
In
occasione delle celebrazioni del CL Anniversario della proclamazione del Regno
d’Italia, nell’articolo “I motivi che
portarono all’Unità d’Italia”, tra l’altro, scrissi:
“(…) Ma la “Restaurazione” fu
l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come più
volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.
Agli ideali illuministici, razionali, che
portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre quel nuovo
movimento culturale che è il Romanticismo.
Fra tutti gli avversari della Restaurazione, gli ex-ufficiali
napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperiale ed
impazienti dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento
più combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi
restaurati. Ed accanto a loro un grosso
contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle
industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto
predominio dell’aristocrazia, oppure da
nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati,
come si diceva poc’anzi, dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo
dalla Germania verso il resto dell’Europa.
Da principio puo’ apparire che il Romanticismo,
predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il sentimento, in netta
antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla Restaurazione. Ma si
vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle tradizioni
nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo l’alimento del
patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento individuale, alla
libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi alle regole del
classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà contro lo spirito
autoritario della Restaurazione.
Romantico diviene sinonimo ovunque di liberale e
patriota.
Non dimentichiamoci che il Romanticismo nasce in
Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato “Sturm
und Drang”, “impeto ed
assalto”.
La cultura del Romanticismo, infatti, non vive
isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma partecipa
caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.
In ogni paese, le università con i loro studenti e
docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione liberale e di cospirazioni.
Il poeta, il dotto, il musicista [Vincenzo Bellini (1801-1835), Giuseppe Verdi
(1813-1901)] si sentono investiti di una specie di missione morale e, come
tali, non ascoltati dai loro contemporanei. (…)”.
Nel corso della vita di Verdi, lunga quasi un
secolo, l’Italia si trasforma appunto da paese soggiogato al dominio straniero
in uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi
potenze europee.
Il Risorgimento, le lotte per l’unificazione d’Italia, non potevano lasciare
indifferente l'animo del compositore. “Nabucco” (con il
famoso coro “Va’ pensiero, sull’ali
dorate), “I Lombardi alla prima
crociata” (famoso è “O Signore
dal tetto natio”), “Macbeth”, “Don Carlo”
esprimono il sincero amore patriottico di Verdi ed il suo dolore per un
popolo oppresso.
A Milano, come detto, frequentò i salotti
intellettuali della città, primo tra tutti quello dell'amica Chiarina
Maffei, dove fervevano sentimenti ed iniziative anti-austriache.
I moti del 1848 lo portarono sicuramente ed
apertamente a manifestare i di lui ideali patriottici.
Il nome del Maestro rimarrà per sempre legato agli ideali del Risorgimento,
trasformandosi in un acrostico rivoluzionario, “Viva Verdi!”, da leggersi "Viva
Vittorio Emanuele re d’Italia!", scritto per la prima volta sulle mura
di Roma all’epoca di “Un ballo in maschera”. Il graffito alludeva ad un’aspirazione che con
gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa.
Lo stesso Verdi finisce per credere in questo
progetto quando soprattutto comprende che l’unità del paese si potè
concretizzare non tanto attraverso l’insurrezione popolare e l’inutile e fuori
luogo utopia repubblicana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), ma esclusivamente
con un paziente lavoro diplomatico.
Fu
Camillo Benso di Cavour (1810-1861) che lo volle, quasi a viva forza, membro
del primo parlamento del Regno d’Italia (1861-1865), eletto come
Deputato nel Collegio di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza.
Tuttavia, le alchimie politiche si rivelano
estranee alla personalità del Maestro.
Quindi entrò in Parlamento, ma ci rimase solo
per soli cinque anni (1861-1865), convinto di essere più utile al suo paese
come artista che come deputato.
Ma successivamente,
Giuseppe Verdi fu giustamente creato senatore del Regno (dal 15 novembre 1874), e ciò ai sensi
dell’art. 33, categorie 20 (“Coloro che
con servizi o meriti eminenti avranno illustrato la Patria”) e 21 (“Le persone che da tre anni pagano tremila
lire di imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria”)
dello Statuto Albertino.
Per le
sue alte benemerenze verso la Patria, il
Nostro fu creato anche Cavaliere Civile di Savoia (1867), Cavaliere di Gran Croce decorato del Gran
Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e dell’Ordine della Corona
d’Italia (entrambi nel 1887), nonché di numerosi ordini equestri stranieri (tra
cui la Legion d’Onore francese) e quindi Cittadino Onorario di Parma con
medaglia d’oro (1872).
Fu anche
consigliere provinciale di Piacenza. Rappresentò, e continua a
rappresentare per molti italiani la somma di tutti quei simboli che li hanno
guidati all’unificazione nazionale contro l’oppressione straniera.
Per lungo tempo Verdi è stato considerato un tranquillo uomo
di campagna toccato dal genio, un uomo rustico e schietto, integerrimo, e di
rara onestà intellettuale.
Tale immagine si univa a quella del patriota ardente, che a
giusto titolo sedette come deputato nel primo parlamento dell’Italia unita.
Aspetti tutti codesti, facenti sicuramente parte della di lui personalità ma
che da soli non possono spiegare la grandezza dell’artista e delle sue
immortali creazioni.
In realtà Verdi fu un operista attento alle grandi correnti di
pensiero che percorrevano l’Italia e l’Europa del tempo, pronto a mettersi in
discussione e nel contempo profondamente conscio del proprio valore. Sempre
aggiornatissimo, alla ricerca di nuovi soggetti cui ispirare le proprie opere,
fu un grande frequentatore della capitale artistica dell’Europa del tempo, Parigi. Il suo
primo viaggio nella “Ville Lumière”
risale al 1847, l’ultimo,
al 1894, in
occasione dell’allestimento dell’“Otello” che egli stesso volle
seguire personalmente.
Compositore meticoloso, dotato di un’eccezionale sensibilità
drammaturgica che aveva ulteriormente affinato con gli anni, Verdi fu per tutta
la sua vita uno sperimentatore, proteso verso traguardi sempre più alti e
dotato di un senso critico fuori del comune, che gli permise di andare incontro
ai gusti di un pubblico sempre più esigente pur senza mai rinunciare ai propri
convincimenti di uomo ed artista.
L’ampio epistolario che ci ha lasciato, oltre a rappresentare
un affascinante affresco di quasi settant’anni di storia italiana (dalla metà
degli anni trenta del secolo XIX sino alla fine del secolo medesimo), è uno
strumento per conoscere un Verdi “inedito”,
orgoglioso della propria estrazione contadina, ma allo stesso tempo uomo
fondamentalmente colto ed osservatore fine della realtà e dell’ambiente che lo
circondavano, personaggio inquieto e protagonista carismatico di un’epoca
memorabile.
Stimato ed amato da un ampio pubblico internazionale, Giuseppe
Verdi è sicuramente, con Giacomo Puccini, l’operista più rappresentato al
mondo, occupando un posto privilegiato nell’olimpo dei più grandi creatori
musicali di tutti i tempi.