NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 11 novembre 2014

Vittorio Emanuele III fu il Re della virtù e dell'ordine borghese

di Giovanni Artieri

Vittorio Emanuele III fu il Re della virtù e dell'ordine borghese.

Con lui la « prosa » entrò finalmente nella storia civile di un popolo dominato lungo i secoli dai poeti, dai musicisti, dai proverbi e dalle canzonette - Egli stesso si fece «impiegato dello Stato», con una coscienza quasi calvinista del dovere - Viveva con poco, talvolta un piatto d'insalata e un bicchier d'acqua gli erano sufficienti.


Il Regno di Vittorio Emanuele III durò quarantaquattro anni: quattro volte undici. Questa cifra - diceva il vecchio Re - coloriva di cabala il suo destino. Ricorreva nella sua vita e sempre a certi quadrivi lieti o drammatici. Da coscritto aveva estratto il numero 1111; era nato l'11 novembre 1869; nell'anno 1911 cadde il cinquantesimo anniversario dell'Unità e il momento, forse, più chiaro e prospero dell'Italia: con la parità aurea della Lira e l'impresa di Libia.

In quel 10 di aprile del 1944, quando i rappresentanti dei Governi inglese e americano si recarono alla Villa Cimbrone, a Ravello, per imporgli di firmare il decreto per la nomina del Principe Umberto a Luogotenente, il suo Regno finiva e la cabala si avverava: 1900-1944, quattro volte undici. L'indomani firmò. Era l'11 del mese.

Non che fosse superstizioso. Nessuno più di lui fu vicino alle cose, alla realtà misurabile. Appunto questa mentalità aritmetica, numerale, gli permise di scorgere quel «ritorno». nella propria biografia. Era, in lui, così forte e continuo il riferimento ai numeri che - si disse - visitando una mostra personale del pittore Tosi, gli chiese quanti abitanti «facesse» il villaggio dipinto in uno dei più bei quadri esposti. Ed anche la vera stima ch'egli avvertì per certe qualità eminenti di Mussolini risaliva al suo amore per la irrefutabile e secca eloquenza dei numeri. Apprezzava sovrattutto nel suo Primo Ministro la facoltà di riassumere tutto all'osso, di estrarre il sugo delle cose, di serrarle – spesso - in poche cifre.

Educazione ferrea

Questo carattere ci offre anche  la chiave della sua passione numismatica.
Monete e medaglie, alla fine, fermano la storia, con un nome e qualche cifra, nell'avaro cerchio di metallo. Tutto, in poco. Ecco una parola che gli piaceva. «Poco». Per elogiare Mussolini diceva: «Vive di poco». Lui stesso era così: viveva con niente: talvolta un piatto di insalata e un bicchiere di acqua.

La frugalità della sua vita fu avvertita anche dai soldati al fronte, durante la prima Guerra mondiale. Qualcuno di essi, talvolta, fu chiamato a dividere il pezzo di pane e frittata o la cotoletta fredda del pasto di Re Vittorio durante le quotidiane ispezioni alle linee. E una volta che egli ritornò per molti e molti giorni sullo stesso settore (il fronte degli Altipiani), gli costruirono un sedile di pietra e legno, per evitargli di sedere per terra, sull'erba, a mangiare con i generali e gli autisti.
Questa inclinazione spartana veniva di lontano: dall’educazione ferrea, impartita al suo fisico non felice; ferrea, letteralmente, per le costrizioni ortopediche a cui fu assoggettato; e figurativamente, per il rigore degli studi, esercizi, lavori, esami cui il colonnello Egidio Osio, suo governatore, lo sottomise. Quello stile quasi disumano, di monacale semplicità, veniva dal dissenso della sua natura umbratile, meditativa, conseguenziaria, rispetto al fasto, ai luccicori, alla parata di magnificenza del regno di Umberto I e della Regina Margherita. La sua « socialità » nasceva dall'aver visto il 17 novembre 1878, a Napoli, il pugnale dell'anarchico Passannante calare sul petto di suo padre e colpire - nella stessa carrozza, accanto a lui - il Presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli. Infatti, non senza tacito dissenso, egli si estranea dai drammi del Regno umbertino (Adua, i moti rivoluzionari del 1898 nelle città, le «jacquerie » dei fasci siciliani, la corruzione - sin da allora - del sistema parlamentare, chiudendosi   nella sua vita di militare, nell'amore per la giovane Principessa Elena; trascorrendo sul mare, principalmente, la maggiore e miglior parte del suo tempo.

Come un orologio

Con lui, e con Giolitti,  secondo una felice definizione di Prezzolini, la «prosa » entra. finalmente, nella storia civile italiana. Vittorio Emanuele diventa il Re «borghese»; modella attorno a sé (o cerca di farlo) una società italiana più grigia, più compatta, più seria. Lui stesso si fa «impiegato dello Stato»; si reca ogni mattina «in ufficio», al Quirinale. I guardportoni dei palazzi reali aggiustano l'orologio sull'ingresso della sua automobile nel cortile. Non vorrà, tra l'altro, mai permettere al suo Aiutante di campo di portargli la borsa delle carte. Non ammetterà deroghe al calendario delle udienze e agli argomenti fissati. Due sole volte vi è costretto: per il colloquio con Mussolini a Villa Savoia, il 25 luglio 1943, e per lo scontro con i commissari alleati Mac Farlane, Noel Charles e Murphy, che gli impongono, il 10 aprile 1944, di passare subito e non a Roma, come egli voleva, i poteri a Umberto.

Chi voglia penetrare nel carattere del vecchio Re deve insistere su questa sua natura lineare, raccolta, espressiva quanto può esserlo una figura della geometria. Contrastava, certamente, con la media complessiva dei caratteri, umori, disposizioni degli italiani: di un popolo, cioè, dominato lungo i secoli dai poeti, dai musicisti, dai proverbi e dalle canzonette. Per la poesia, si fermava a Dante (conosceva a memoria quasi tutta la Divina Commedia), mentre per la musica non andava oltre le marce militari dei capobanda reggimentali.

In questo Paese, sempre uguale a se stesso nei difetti e nelle virtù, Vittorio Emanuele cercò di rappresentare il parametro dei modesti e preziosi pregi borghesi: la semplicità, la dignità, una coscienza quasi calvinistica del dovere, il rispetto della legge, la rinuncia al «proprio particulare» in vista del bene comune. Fu un rivoluzionario in nome della Corte dei Conti e della Ragioneria generale dello Stato. Il suo esempio, quasi sublimatosi a leggenda durante la prima Guerra mondiale, aveva già raggiunto la collettività nazionale. Milioni di famiglie italiane del ceto medio in formazione, si modellavano sullo stile del Re borghese; imponevano ai figli i nomi di quelli del Re; salutavano con reverenza la sua carrozza o lui stesso, a cavallo, nelle solari mattinate di giugno per la festa dello Statuto. Il suo prestigio morale obliterava la esiguità della figura fisica ed anche la satira sovversiva dei socialisti; che da lui, oggi, ripetono l'eredità del centrosinistra e, non fosse per altro, dovrebbero accoglierne la Salma nel Pantheon.

La sua filosofia

Non deve meravigliare, dunque, se per la sua inclinazione all’ordine, sostenuto da una vera e propria filosofia di vago sapore panglossiano, per cui - alla fine - ogni traversia o travaglio  s'aggiusta per il meglio, accolse nello Stato il movimento fascista nel 1922. Sperava - con gli uomini di maggior rilievo di quel tempo - di ridurlo al denominatore democratico. I critici repubblicani di Re Vittorio, a questo punto, omettono la considerazione del moto «totalitario» di cui l'Europa era investita: un moto iniziato - si badi bene - non dai «fascismi» europei, ma dalla Rivoluzione russa dell'ottobre 1917. I «fascismi» europei nascono come figliuoli prodighi, come reazioni o precessioni ai movimenti rivoluzionari dei comunismi occidentali in alcuni paesi; primo fra tutti, l'Italia. Mussolini aggiusta la sua dottrina sui presupposti della statolatria e della fobia delle libertà democratiche, proprie al pensiero non di Marx ma di Lenin. Non è senza un curioso e fatale significato che a Dongo muoia - di piombo comunista, accanto ai fascisti - Nicola Bombacci, amico di Lenin e amico di Mussolini.

Il Regno di Vittorio Emanuele, con la fine della prima Guerra mondiale, entra di colpo nel tifone rivoluzionario. E' un fenomeno repentino, inatteso. L'Italia ha vinto la Guerra, ma vi accadono i rivolgimenti tipici di un paese sconfitto. Il grigio e mediocre paradiso giolittiano, ordinato, «ventisettista», fondato sulla lira-oro e sul bilancio in pareggio si dissolve al suono delle revolverate domenicali tra fascisti e comunisti.

Revolverate (ed anche cannonate) se n'erano tirate per le piazze italiane, dal tempo di Umberto I in poi, ma queste di adesso ripetono la tecnica delle trincee e la violenza degli assalti sui fronti di Guerra. Già per lo sciopero militare di Caporetto Re Vittorio aveva capito di dover dedicare a ciò che chiamava «la piccola gente» tutta la sua attenzione. Adesso, con Mussolini, quella «piccola gente» si accalca attorno allo Stato. Lui non può scacciarla.
Fu un errore non aver dissolto le squadre fasciste accampate, il 28 ottobre 1922, attorno a Roma? L'operazione, secondo alcuni, era possibile. E noi pure lo crediamo. Ma ancora una volta i maggiori uomini di quel momento sconsigliarono la forza. E a sconsigliare valevano per il Re Vittorio anche i ricordi del Regno di suo padre. Così come a sbarazzarsi del fascismo e di Mussolini, durante la crisi del 1924 per l'assassinio del deputato Matteotti, fu sconsigliato principalmente dall'assenza di uno strumento costituzionale che Camera e Senato avrebbero dovuto offrirgli.

Beninteso non si vogliono occultare o negare gli errori del vecchio Re; ma si vuole anche affermare la sua stupenda onestà e chiarezza, il suo disinteresse, la sua costante volontà e decisione di agire esclusivamente per il bene concreto del Paese. Fu uomo della sua generazione, una generazione di coraggiosi che non tremarono di fronte al possibile e spesso all'impossibile. Era dell'età in cui il Duca degli Abruzzi e Cagni vanno al Polo Nord senza aver mai visto un pezzo di mare ghiacciato.

Praticava le virtù cristiane di nascosto, possedeva il pudore della carità e dava generosamente. Forse fu scettico. Ma conobbe, come pochi specialisti i due Testamenti e, strano a dirsi, il Corano di cui citava a memoria le «sure» più significative.
Nel 1933 durante un viaggio in Egitto con la Regina Elena e la principessa Maria, volle rivedere il Convento di Santa Caterina d'Alessandria. L'aveva visitato già nel 1887, e indugiò, come tanti anni prima, a guardare di sotto in su i quattro enormi fichi indiani del cortile. Volle pure visitare la Chiesa e si trattenne dinnanzi ad un quadro vasto ed eloquente, del pittore viennese Ender, dipinto nel 1847, con la raffigurazione di Santa Caterina Vergine mentre disputa con i filosofi del Museo alessandrino.
Tra quella tela e il retro dell'altare, Vittorio Emanuele III si aggirò notando che, appunto, la fabbrica andava riparata e restaurata. Lasciò una grossa somma ai padri francescani e andò via. Il 31 dicembre del 1947 proprio lì, nel piano verticale dell'altare, venne murata la sua breve bara. Il vano fu chiuso da un marmo col nome e le due date estreme. Nel 1953, durante un nostro viaggio, sostammo dinnanzi a quella tomba. Tra la fredda tela del pittore viennese e l'intonaco grezzo essa ci parve buia, triste, tralasciata. Dalle colonne di questo giornale chiedemmo una lampada per il Re. I lettori dettero generosamente. Adesso quella lampada arde dinnanzi al marmo. E chiunque, inchinandovisi, ripercorra mentalmente la lunga, dolorosa vita di Vittorio Emanuele III, deve cedere al pensiero di trovarsi dinnanzi a una grande, complessa figura della storia nostra.



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