NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 24 maggio 2015

La Grande Guerra del 1915-1918, convegno del Rex per il cinquantenario. Prolusione di Gioacchino Volpe


Non so perché gli amici del Circolo Rex, annunciando questa nostra adunata, abbiano voluto qualificare come «Prolusione» le poche parole che io, nella mia qualità di anziano (anzi anzianissimo, forse il più anziano tra quanti sono qui presenti), avrei pronunciato: poche, e innanzi tutto di saluto ai nostri ascoltatori, di ringraziamento al primo conferenziere.

Il Circolo Rex dedica una serie di conversazioni, che potrebbero anche essere discussioni, alla prima Grande Guerra, alla guerra vittoriosa di cui ricorre il Cinquantenario.

L'Italia ufficiale non sembra si riscaldi troppo per questo evento. Forse perché esso fu nazionale o irredentista, laddove oggi, per chi ci governa, tutto è o dovrebbe essere internazionale, europeo, atlantico, cosmopolita? e la parola «Nazione» viene quasi cancellata dal vocabolario politico, come che i due concetti siano contraddittori? O perché si teme di urtare partiti di Sinistra e del Centro-Sinistra che, nel mesi fra il 1914 e il '15, furono e poi si mantennero avversi alla guerra e fecero quel che poterono per insidiarla e svigorirla? O perché, quando si parla di quei fatti, non è sempre possibile, neppure ricorrendo a ridicole circonlocuzioni o al silenzio, come si suole, nascondere certi nomi, e anzitutto un nome di Re? O perché oggi penne e lingue sono tutte affaccendatissime a parlare di «Resistenza», a glorificare la «Resistenza» di cui ricorre il ventennale?

Si è voluto portarla, quest'anno, anche nelle scuole, senza troppo curarsi di mettere maestri contro scolari o famiglie loro, scolari contro scolari, maestri contro maestri, insomma Italiani contro Italiani. La cosiddetta Resistenza, oggi protagonista, è un terreno minato: per tre quarti essa fu guerra civile. Per tre quarti, di vincitori e armati, contro vinti e oramai disarmati. Quindi, meno vi si cammina sopra, meglio è.
Invece noi come ho detto, ci spingererno più indietro nel tempo: all'altra guerra alla prima grande e fortunata prova dell'Italia unificata, conclusione o consacrazione del Risorgimento.

Ebbe anch'essa i suoi momenti grigi o neri. I mesi fra il 1914 e il 1915 furono quasi di guerra civile con riflessi successivi non benefici su tutto l'andamento delle operazioni al fronte. Il 1917 vide cedimenti morali all'interno, diserzioni fra le truppe combattenti, scarso affiatamento fra chi comandava su l'Isonzo e chi comandava a Roma. E in ultimo Caporetto: che volle dire dissoluzione di mezzo esercito e arretramento al Piave.

Ma soldati e civili si ripresero. Obbedirono alla parola del Re: «Siate un esercito solo». E prima resistettero alle poderose offensive austrogermaniche: poi presero essi l'iniziativa dell'azione, ripassarono il Piave, liberarono le province invase, giunsero a Trieste e Gorizia e Trento e Fiume e Zara, cioè ai «confini che natura pose». Giornate inebrianti, per chi le visse.

Vi fu la breve crisi del dopoguerra. E poi la marcia parve riprendesse, nella direttiva segnata dalla vittoria. Nessuno negherà certi attivi del ventennio seguente, che culminarono nell'impresa etiopica. Quei giorni, anche molti oppositori del regime applaudirono, persino fuorusciti, mentre altri auguravano sollecitavano solenni batoste sulle spalle dell'Italia «fascista» da parte delle Potenze d'Europa. Ma esplose la nuova guerra, venne la sconfitta, franò il fronte interno in alto e in basso, vi fu il rovesciamento dell'alleanza, per cui i nemici divennero alleati e, gli alleati nemici. L'Italia fu allora tutta un campo di battaglia fra stranieri e stranieri, stranieri e Italiani, Italiani e Italiani; gli Slavi irruppero su la Venezia Giulia e sull'Adriatico, fecero scempio degli Italiani, sotto gli Occhi indifferenti e tolleranti dei nuovi alleati, e non senza solidarietà e collaborazione fra Partigiani nostri e comunisti sloveni o croati; venne il Diktat,     e come a vinti, con scandalo fu imposto da quegli alleati a noi, fra i nostri, anche di tali che li avevano invocati; venne la mutilazione delle frontiere nazionali, la perdita delle Colonie, la caduta della Monarchia...

Un mucchio di rottami.

Ci torna in mente, a questo punto, la mutevole, alterna vicenda che domina in tutta la storia della «itala gente dalle molte vite». Conseguenza della posizione geografica che espone la penisola a tutte le ventate temporalesche, a tutte le influenze dei Continenti e delle Nazioni attorno? Oppure della molteplicità e varietà delle sue stirpi, delle sue regioni, dei suoi regimi politici, con relativa prevalenza di questo o quello e mancanza di stabilità e di continuità?

Comunque, noi conosciamo anche una Italia o meglio, una Penisola che è, nel tempo stesso, sede di civiltà etrusca, greca, italica, celta, veneta, ed una Penisola che Roma unifica e chiama Italia tutta quanta, facendo di essa il centro e il sostegno di un Impero mondiale; una Italia corsa e ricorsa, devastata, depredata da barbari d'ogni nome e provenienza, paese di tutti e di nessuno, paese senza più neanche il nome, o, se mai, non Italia ma Longobardia, capace poi di espungere o assimilare tutti gli elementi estranei che vi erano confluiti, prendere un suo volto, ritrovare il suo nome Italia dalle Alpi al Mar Jonio, ordinarsi in un promettente Regno a sud e in città libere nel Centro e a Nord che si espandono tutt'intorno per mare e per terra con le loro navi, i loro commerci, i loro capitali, la loro cultura, e nutrono di sé grandi poeti e scrittori che la cantano e glorificano nella nuova lingua letteraria, come Italia, quasi creatori della Nazione. Poi, ancora, un'Italia campo aperto alla gara delle grandi Monarchie d'Europa, da esse in vario modo e misura dominata o controllata; ed un'Italia che faticosamente si costituisce a Stato Nazionale e raggiunge dopo una grande e vittoriosa guerra i suoi giusti confini. L'opera è appena compiuta, e tutto va a catafascio, la sua riputazione militare, il suo credito fra le nazioni, la sua compagine morale, le sue frontiere...

Dopo Vittorio Veneto, il Diktat...

Verrà anche ora, come più volte nel passato, la nuova giornata? I nostri padri, proprio da queste mutabili sorti della Penisola, erano confortati, nei momenti tristi, a sperare in un domani più lieto. Correva nel '500 e '600 il detto: gli Spagnuoli son superbi del loro passato; i Francesi sono fieri del loro presente; gli Italiani guardano sempre all'avvenire.

Ebbene, noi vogliamo oggi ancora guardare all'avvenire, sperare che le nostre ferite si risanino. Fra esse, quelle alla frontiera di Nord-Est ed oltre l'Adriatico. Lì, terre già, redente e ora di nuovo irredente; lì Italiani a centinaia di migliaia o uccisi e gettati nelle Foibe o costretti a cercare rifugio fra noi. Ad essi noi qui presenti mandiamo un fraterno, augurale saluto.

Ebbene, possiamo almeno dar loro qualche speranza, per il domani ed anche per l'oggi? Si tratta non soltanto di ricuperare quel che abbiamo perduto, ma anche di conservare quel che perduto non è e potrebbe esserlo,-se noi non vigiliamo. C’è per esempio una certa zona B, che dovrebbe tornare all'Italia e non è ancora tornata e non sappiamo se tornerà, anzi cominciamo a temere sia già silenziosamente perduta. La nostra democrazia, sociale e cristiana, con la sua scarsa sensibilità nazionale, con le sue solidarietà ideologiche oltre i confini, col suo regionalismo, non ci dà molto affidamento. Abbiamo gli Slavi proprio alle porte e nel Consiglio Comunale di Trieste: Trieste è in pericolo. Né solamente Trieste. Sappiamo che sull'altra sponda fermentano ambizioni che vanno assai lontano... E non parlo dell'Alto Adige, dove l'offensiva contro noi è già in atto. Né mi sembra che a Roma la difensiva abbia la stessa risoluta volontà. A Roma non c'è più la Monarchia; non più Vittorio Emanuele III che fin da quando ascese al trono tenne fissi gli occhi sulle terre irredente. Egli « irredentisch elenkt» (La Pensa da irredento), riferiva già allora al suo Governo l'ambasciatore tedesco.
Perciò non possiamo ora parlare di Fiume e Zara senza risvegliare il ricordo di quel Re fantaccino che il 24 maggio '15 Partì Primo per la guerra, per tre anni e mezzo visse fra i combattenti, sfangò nelle trincee e
divise con i fanti il pane bigio; dopo Caporetto, disse agli Italiani e agli alleati parole di fiducia. E quando, un anno dopo, tornò alla capitale, vi fu accolto da una incontenibile fiumana di popolo - il Suo popolo - plaudente.


Il ricordo della guerra vittoriosa è per noi tutt'uno col ricordo di quel Re morto in esilio e del Re suo figlio: vivo, ma nell'esilio, nella stessa terra ospitale dell'avo Carlo Alberto.

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