NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 31 luglio 2015

Hanno sbattuto Juan Carlos in cantina e si sono dimenticati del col. Tejero

di MIMMO  CÁNDITO

Chiuso in una scatola di cartone sigillata con due bei giri di scotch, ieri il vecchio (ex)re Juan Carlos lo hanno sbattuto in cantina, a prendersi la polvere dell'oblio. Ma che bella pensata, che coraggio iconoclasta, che difesa dei valori alti della patria messi seriamente a rischio dalle spericolate avventure del vecchio pensionato in disarmo. A mostrare tanto indomito ardore é stata la neosindaca di Barcellona, Ada Colau, che ha mandato via dalla sala consiliare un antico busto di un Juan Carlos e che peró, con i suoi giovani 41 anni, se rivela certamente di seguire l'intransigenza etica di cui fa sfoggio la sua galassia di “Podemos”, rivela anche – e purtroppo per lei – quanta profonda ignoranza della storia spagnola, e quanta stupida iattanza nazionalista, possano accompagnare un esercizio beceramente salviniano dei poteri locali. 

C'é un bel termine spagnolo per definire i libertini assatanati di donzelle - “mujeriego – e Juan Carlos, da giovane ma anche da vecchio, nascosto sotto il casco della moto sulla strada dell'alcova clandestina o immortalato in etá ad ammazzare elefanti con mature contesse, é stato per tutta la sua vita un mujeriego impenitente, spasso che il suo ruolo di re gli avrebbe dovuto fermamente risparmiare. Tanto impenitente e sfacciata, questa sua irresistibile ossessione, che la povera regina Sofia ha dovuto tacere appartata nell'ombra fin che il suo regale matrimonio glielo imponeva, ma poi – una volta andato in pensione da re il suo fedifrago marito – gli ha sbattuto la porta in faccia e se n'é andata a vivere per i fatti propri. 

La giovane sindaca avrebbe dunque tutte le sante ragioni per indignarsi, e difendendo il suo cuore di femminista oltraggiata sbattere via in cantina quel busto che puzza di tracotanza machista fin dentro la sua anima di bronzo. 

Non solo. Ma il vecchio (ex) re, oltre a corteggiare donzelle in calzine bianche e poi mature aristocratiche, pare che reggesse la sua corona con una qualche indifferenza verso il rispetto delle leggi e, soprattutto, verso gli obblighi del conflitto d'interessi; alla fine, certo, lo hanno dichiarato impunibile, per quanto aveva (mis)fatto dall'austero tavolo ufficiale della Zarzuela, ma – se lui é riuscito a farla franca e a sottrarsi ai giudici – ha dato tanti pochi esempi di lodevole onestá che una delle sue figlie, e ancor piú il suo principe consorte, sono oggi sulla porta della galera. 

Altre sacrosante ragioni si aggiungerebbero dunque alla decisione indignata della giovane (ma ignorante, ahimé, ignorante) alcaldesa, perché un simile pasticcione, fors'anche un trafficone, debba andarsene per sempre in cantina. E peró, la giovane salviniana, che di tutti i salviniani dimostra di avere le stesse pregevoli “qualitá”, non si é resa conto che quando la Spagna le diede i natali, quella Spagna era ancora la Spagna eterna e immobile del dittatore Francisco Franco, dove ogni pensiero libero era marchiato del timbro “rojo”del comunismo, e dove gruppi come Podemos & Co. se soltanto pensavano di alzare la cresta e protestare contro il potere istituzionale venivano sbattuti in galera e se ne perdevano le chiavi. 

Nella notte del 23-F del 1981, quando la nostra alcadesa dai sacri furori aveva appena 7 anni e giocava ancora con le bambole, la neonata democrazia spagnola si trovó ad appena un passo dal precipitare nel baratro del ritorno alla dittatura. La salvó, sia pure dopo qualche tentennamento la cui natura gli storici tuttora analizzano, la salvó quel giovane re che stava apprendendo tutti i sacrifici e tutte le criticitá che comporta l'esercizio del potere, quando un paese ha vissuto per 40 anni sotto la dittatura e la sua societá deve ancora imparare bene a difendere i beni preziosi che accompagnano la libertá. Quella notte, quasi alle 2 del mattino, quando i giornalisti di mezzo mondo accorsi a Madrid finalmente vedemmo sul piccolo schermo di una televisione ancora in bianco e nero apparire il giovane re, nel sua alta uniforme di Capitan General, con la voce ancora dominata dall'emozione per quel golpe d'un baffuto Tejero che pareva un colonnello da operetta con il suo tricorno di cartone della Guardia Civil, quando lo sentimmo che diceva la sacra parola “Constitución”, percepimmo quasi sulla pelle il sospiro di sollievo della Spagna, che ritrovava la strada della democrazia e, di questo, doveva ringraziare quel suo giovanotto con la voce incrinata. 

Allora, gentile neoalcaldesa, per cortesia, si studi la storia nazionale - che é quella della Spagna delle nazionalitá, e delle diversitá storiche nell'unitá del paese - e se crede, ma dopo aver studiato, faccia pure le sue battaglie indipendentiste, agiti pure il drappo a righe rosse e gialle della nazione catalana, rivendichi pure un referendum che separi Barcellona da Madrid, e peró non dimentichi che, se oggi ha potuto fare quella sciagurata scelta di sbatter via un vecchio busto di bronzo che mostrava la faccia di un giovare re della democrazia, questa sua decisione l'ha potuta fare perché in quella notte di 34 anni fa, quando lei giocava ancora con le bambole e faceva la pipí nel vasino, ci furono uomini e istituzioni che salvarono il suo futuro politico. Auguri, senora, y suerte. 

giovedì 30 luglio 2015

Con la tomba del re soldato salviamo un pezzo della nostra storia

Non c’è bisogno di ricordare Luis Sepulveda per dire che un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”. Più che una citazione è una constatazione, particolarmente necessaria in un’Italia dove la “memoria” è a fasi alterne, più segnata dall’opportunismo politico che dalle sue intime ragioni spirituali, più capace di dividere che rimarcare un’identità. Già prevedendo reazioni “trasversali”, da destra a sinistra, facciamo comunque nostro e rilanciamo l’appello di Maria Gabriella di Savoia, “Non lasciamo all’Isis la tomba del Re Soldato”, pubblicato da “il Giornale”. Scrive la nipote dell’ultimo re d’Italia: «In considerazione delle gravi tensioni e violenze che stanno interessando l’Egitto, ritengo che per un dovere civile e morale sia giunto il momento di procedere al rientro delle salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena: per salvarne la loro e la nostra collettiva memoria. Molte nazioni oggi repubblicane ma che furono monarchie hanno provveduto al rimpatrio delle salme dei loro regnanti e ciò non solo in segno di pacificazione nazionale, ma anche nel rispetto della tradizione storica. Perché il nostro paese non può fare altrettanto? Sarebbe imperdonabile per l’Italia repubblicana non aver impedito che un gesto vandalico oltraggiasse, profanandoli, i resti mortali di chi indissolubilmente è legato alla nostra identità nazionale, di chi appartiene alla storia d’Italia».

La tomba del re soldato

È un dato di fatto che la tomba di Vittorio Emanuele IIIe della Regina Elena, conservata nella chiesa di Santa Caterina, al Cairo, sia a rischio. Doveva essere, nel 1947, una sistemazione provvisoria, ma come si sa – per dirla alla Prezzolini – “in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio”. Anche le figure e le memorie che rappresentano la nostra Storia, nel bene e nel male, sono condannate a questa “provvisorietà”. Un po’ come le norme “transitorie” della Costituzione, diventate paradossalmente, in alcuni passaggi, fondative dello stesso ordinamento repubblicano. Di fronte al rischio che la tomba dell’ultimo re d’Italia finisca, sotto le mazze dell’Isis, come i tesori d’arte di Palmira, Ninive e Mosul, è tempo che le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena tornino in Italia. La questione non è essere pro o contro la monarchia. In gioco c’è la nostra Storia, complicata e “stratificata” come tutte le Storie. Ma pur sempre “nostra”, perché quel Re, morto in esilio, fu ai vertici dell’Italia unita per quarantasei anni (dal 1900 al 1946), diventando, nel bene e nel male, il simbolo stesso del nostro essere Nazione. Perciò gli è dovuta nuova e degna sepoltura. Finalmente in Italia, cercando di evitare che con un pezzo della nostra Storia vada in frantumi anche la nostra dignità nazionale.

http://www.secoloditalia.it/2015/07/tomba-re-soldato-salviamo-pezzo-nostra-storia/

S.A.R. la Principessa Maria Gabriella è figlia dell'ultimo Re d'Italia e non nipote. Quanti svarioni! (nota dello Staff)

Riportiamo in patria i Re d’Italia (2)

di Cristina Siccardi

L’articolo Riportiamo in patria i Re d’Italia della scorsa settimana ha destato un vivo interesse da parte di molte persone, le quali hanno portato alla luce alcune significative considerazioni che è ora opportuno presentare in maniera documentata.

Innanzitutto è da evidenziare il fatto che l’Istituto monarchico, nonostante il comunismo abbia fatto di tutto non solo per affossarne la memoria, ma per infangarlo, anche attraverso una campagna anti-Savoia studiata ad hoc, continua a suscitare interesse in chi, seppur giovane, è sconfortato di fronte al vilipendio e alla dissipazione dei valori della vita, della famiglia, della patria, del Cristianesimo, quei valori di cui la monarchia sabauda è stata interprete attraverso diverse figure esemplari, come furono i suoi 6 beati (Beato Umberto III conte di Savoia; Beato Bonifacio di Savoia, Monaco certosino e arcivescovo di Canterbury; Beata Margherita di Savoia, Marchesa del Monferrato, monaca domenicana; Beato Amedeo IX di Savoia, Duca di Savoia, Terziario francescano; Beata Ludovica di Savoia; Beata Maria Cristina di Savoia, Regina delle Due Sicilie), i suoi Venerabili riconosciuti tali dalla Chiesa, le sue donne e i suoi uomini morti in concetto di santità e quei suoi membri estranei agli interessi rivoluzionari e liberali.

Il senso civico e il senso cristiano si fondono, quindi, in chi desidera il rimpatrio delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena e pertanto ha visto, nell’appello accorato di Maria Gabriella di Savoia, oltre ad una legittima richiesta, anche una corale esigenza italiana, tanto più che l’Italia è l’unico Paese in Europa che ancora mantiene all’estero le salme dei propri Sovrani Capi dello Stato.

Nel 1981, infatti, il Governo greco, subito dopo la morte a Madrid della Regina Federica, autorizzò il rimpatrio della salma e la sepoltura nella Tomba Reale di Tatoi; in Albania (2011), Montenegro (1989) e Serbia (2013) i Governi hanno fatto rientrare, con gli onori militari dovuti al loro rango, le salme degli ultimi Re – Zog di Albania, Nicola del Montenegro e Pietro di Jugoslavia – e delle loro consorti, organizzando solenni cerimonie presiedute dai rispettivi Presidenti della Repubblica; nel 1989 il Governo austriaco organizzò, con il cerimoniale in vigore durante la Monarchia, il funerale dell’ultima Imperatrice Zita; lo stesso cerimoniale è stato adottato nel 2011 per il funerale dell’Arciduca Otto d’Asburgo.

Entrambe le cerimonie funebri sono avvenute alla presenza dei Presidenti della Repubblica austriaca in carica in quegli anni. La salma dell’ultimo Imperatore, il Beato Carlo I (marito di Zita e padre di Otto), è ancora a Madeira non per volontà del Governo austriaco, bensì per l’opposizione al trasferimento delle autorità dell’Isola, della Chiesa locale e della popolazione. Inoltre in Russia i resti dello Zar Nicola II e della sua Famiglia sono stati sepolti, nel 1998, con tutti gli onori a San Pietroburgo e la Chiesa Ortodossa russa li ha canonizzati nel 2000; mentre nel 1965, il Presidente egiziano Nasser fece subito rientrare al Cairo e seppellire con gli onori del caso la salma di Re Farouk.

Alcuni, nel leggere l’articolo precedente, sono rimasti stupiti nell’apprendere le difficili condizioni economiche in cui versarono Vittorio Emanuele III, la Regina Elena ed Umberto II, ma questa è realtà storica testimoniata e verificata. Allo stesso tempo è necessario ricordare la donazione di cui si fece interprete Vittorio Emanuele III, quando decise di offrire allo Stato italiano la sua straordinaria raccolta di monete italiane (Corpus Nummorum Italicorum), la più importante collezione numismatica al mondo: era il 9 maggio 1946 quando scrisse una lettera al Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, subito dopo l’abdicazione e prima di imbarcarsi per Alessandria d’Egitto.

Il 16 maggio ricevette questo telegramma:

«S.M. Vittorio Emanuele Alessandria d’Egitto

Ho letto al Consiglio dei Ministri la lettera con la quale V.M. annunciava la cessione della raccolta numismatica allo Stato italiano.

Il Consiglio dei Ministri il quale sa apprezzare tutto il valore del dono per la storia del nostro Paese mi ha incaricato di esprimere a V.M. la gratitudine del Governo.

Adempiendo a tale gradito incarico la prego di accogliere i sensi del mio profondo ossequio.

Alcide De Gasperi».

Le ultime due casse di monete che Vittorio Emanuele III aveva trattenuto per completarne la catalogazione (allegando alla sua lettera di donazione una nota nella quale scriveva di trattenerle per tale ragione) furono donate, nel febbraio 1983, da Re Umberto II allo Stato italiano. Il Presidente del Consiglio dell’epoca, il Senatore Amintore Fanfani, fece stimare, proprio in quegli stessi giorni, la collezione completa: risultò del valore di 100 miliardi di Lire.

Ad eseguire la consegna delle due casse, per mandato dello Stesso Umberto II, fu il Marchese Fausto Solaro del Borgo, scomparso il 9 luglio scorso (due giorni dopo la scomparsa di un altro grande gentiluomo dell’Italia retta ed onesta: il Marchese Luigi Coda Nunziante di San Ferdinando), devoto collaboratore e fedele amico di Re Umberto, il quale fece un’altra storica e, in questo caso anche devozionale, donazione: la Sacra Sindone.

L’annuncio della donazione alla Santa Sede nella persona del regnante Pontefice Giovanni Paolo II venne data il 25 marzo 1983, sette giorni dopo che il Re era spirato a Ginevra (18 marzo 1983), dall’avvocato Armando Radice, il quale lesse il seguente comunicato:

«In data 23 marzo, il marchese Fausto Solaro del Borgo ha consegnato a sua eminenza reverendissima il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato di Sua Santità, una lettera degli esecutori testamentari di Sua Maestà Umberto II, Sua Maestà Simeone di Bulgaria e Sua Altezza Reale il Langravio Maurizio d’Assia, con la quale lo pregavano di informare Sua Santità Giovanni Paolo II che il defunto Sovrano aveva disposto tra le sue ultime volontà che la Santa Sindone conservata nel Duomo di Torino venisse offerta in piena proprietà al Sommo Pontefice (…)», ritenendo, come è scritto nel documento di donazione dello stesso Umberto II, «doveroso per il futuro garantire definitivamente l’affidamento alla Chiesa di una delle reliquie più insigni della Passione di Nostro Signore (…) Unitamente alla Santa Sindone dovrà essere donato quanto pertinente al culto della Medesima, conservato nella Reale Cappella del Duomo di Torino ed, eventualmente, risultante di mia proprietà» (cfr. Maria Gabriella di Savoia, La Sindone nei secoli nella collezione di Umberto II, Gribaudi, Torino 1998, pp. 11-15).

Fra le carte autografe di Umberto II si rinvenne questa preghiera, che risale alla fine del 1933 e fu tratta da un’orazione formulata dal Beato Pio IX: «Signore, che nella Santissima Sindone, entro la quale il Vostro corpo adorabile, deposto dalla croce, venne avvolto… Fateci la grazia che nel giorno della Resurrezione siamo fatti partecipi di quella gloria, nella quale Voi regnate eternamente».

Queste memorie appartengono alla nostra storia, alla nostra identità, al nostro essere italiani. 

Cristina Siccardi

mercoledì 29 luglio 2015

«Il paradiso borbonico? È solo un’invenzione nostalgica »

di Giuseppe Galasso

LO STORICO CONTRO LA RIVALUTAZIONE DELLA LORO DOMINAZIONE

Il primo che incontriate per strada o altrove può farvi dotte lezioni sui cento e cento primati del Regno delle Due Sicilie, sulla rapina delle ricchezze meridionali dopo il 1860
Che il largo moto di rivalutazione e di fantasiosa nostalgia del Mezzogiorno borbonico portasse a riflessi politici era nella logica di questi fenomeni, ripetuta e verificata in tanti casi in Italia e fuori d’Italia. Per il Mezzogiorno, ciò appariva, anzi, più facile data la rapidissima diffusione di quella rivalutazione e nostalgia, per cui alcuni vi hanno trovato il fortunato appiglio per libri e scritture di scarsissimo o nessun peso storico e culturale, e tuttavia portati dall’onda della moda in materia a tirature e vendite da capogiro. Le clamorose fortune di questa pseudo-letteratura storica, se hanno potenziato il moto di opinione da cui essa è nata, hanno fatto torto, peraltro, alle, invero poche, opere che sulle stesse note di rivalutazione e nostalgia hanno dato (da Zitara a Di Fiore) contributi discutibili o poco accettabili, ma sono state scritte con ben altro scrupolo e serietà. Questa è, però, una legge comune dell’economia, che non risparmia nessun altro campo. Ovunque la moneta cattiva espelle la moneta buona.

Il risultato è che oggi il primo che incontriate per istrada o altrove può farvi dotte lezioni sui cento e cento primati del Regno delle Due Sicilie, sulla rapina delle ricchezze meridionali dopo il 1860. E ancora sul felice stato e sulla lieta vita del Mezzogiorno prima del 1860, sulla deliberata politica di dipendenza coloniale e sfruttamento in cui l’Italia unita tuttora mantiene il Mezzogiorno, e su altre simili presunte «verità», lontane dalla «storia ufficiale». Tutto ciò farebbe pensare a quella quindicina e più di generazioni di meridionali susseguitesi dal 1860 in poi come segregate dalla vita civile e istituzionale dello Stato e della società italiana. Si sa, però, che non è così. Si sa che l’integrazione dei meridionali nell’Italia unita, come per gli altri italiani, è stata profonda, rompendo un isolamento storico che, nel caso di varie parti del Mezzogiorno, durava da secoli. Mezza diplomazia italiana è stata fatta di meridionali. I due migliori capi di Stato Maggiore dell’Esercito – Pollio e Diaz – erano napoletani. Già da dopo la prima guerra mondiale la burocrazia italiana ha cominciato a essere fatta per lo più di meridionali. Quattro presidenti della Repubblica su 12 (De Nicola, Leone, Napolitano, Mattarella), vari capi di governo (da Crispi a D’Alema), innumerevoli ministri, vari e potenti capi di partito sono stati meridionali. Sulle cattedre universitarie e nell’insegnamento la parte dei meridionali si è fatta sempre più ampia.

[...]

martedì 28 luglio 2015

Michele di Grecia: “È qui che batte il cuore dell’Europa”

Aristocratico e scrittore vive tra Montecarlo, Parigi, Atene e Patmosin. La sua famiglia ha governato la Grecia per un centinaio di anni


Principe Michele di Grecia suona come un perfetto pseudonimo per uno scrittore, ma nel suo caso è il suo vero nome. Come mai?  
«Perché la mia famiglia ha governato la Grecia per un centinaio di anni e all’inizio non avevamo bisogno di un nome di famiglia. Ma nel mio caso è diventato un nome professionale che posso usare». 

Da dove viene?  
«Mio nonno veniva dalla Danimarca. Non volevano un sovrano del proprio Paese, così ne hanno preso uno straniero. Oggi questo non è più così strano. Abbiamo avuto un presidente siriano in Argentina e un presidente franco-ungherese ma ci sono molti altri esempi». 

Dove è cresciuto?  
«In Marocco, in Spagna e in Francia, da cui veniva mia madre. Sono venuto in Grecia dopo aver fatto l’università in Francia e ho subito fatto il servizio militare qui». 

È greco?  
«Sì, e lo sono per scelta. La mia cultura è greca. Vivo in Grecia da quando avevo 20 anni. Ho imparato il greco nell’esercito, quindi il mio vocabolario non è quello che ci si aspetterebbe». 

È preoccupato per la Grecia?  
«Trovo incredibilmente difficile capire fino in fondo cosa stia succedendo! Quello che è certo è che il popolo soffre, in tanti soffrono. È molto complicato perché tutti mentono. Ho un po’ perso il filo. Penso che la crisi attuale sia nuova, ma nasce da una situazione pregressa. Tutti sono costretti ad assumersela. La Grecia è il cuore dell’Europa e noi abbiamo bisogno di restare in Europa». 

Che tipo di persone sono i greci?  
«Quando sono venuto a vivere cercavo di scoprire cosa resta della dell’antichità greca. Mi ci è voluto tempo per scoprire che ciò che è rimasto immutato dall’antichità è il popolo greco. I Greci hanno inventato la politica. Ed è ancora la passione dei greci moderni. Le trame dell’antica tragedia greca si leggono ogni giorno sulla stampa greca. Gli antichi greci hanno inventato lo sport e lo amano ancora. Sono molto orgogliosi, hanno una sorta di “onore” che resta. Sono grandi lavoratori e ancora oggi gli armatori greci dominano il mare». 

In Grecia lei è un comune cittadino?  
«Sì, naturalmente, e sono molto felice che sia così. Fin dall’antichità ai greci non piacciono le persone di potere, ma sono particolarmente gentili con la gente che ha perso il potere». 

Cosa pensa che succederà ora?  
«Fin da quando esiste la Grecia, da migliaia di anni, la sua storia è fatta di eventi imprevedibili, così come posso conoscere il futuro? Ma nella sua lunga storia ha superato più volte momenti difficili. I greci sono molto resistenti e forti». 

Ha sempre voluto essere uno scrittore?  
«Ho iniziato a scrivere a 25 anni e ho pubblicato il mio primo libro a 27. Per un po’ in Grecia sono stato parte della monarchia e all’inizio mi divertiva, più tardi ho capito che non era il mio stile di vita». 

Che tipo di scrittore è?  
«Il mio campo è la storia. La mia nonna francese, la duchessa di Guisa, parlava della famiglia come se fossero tutti vissuti ieri. La storia dev’essere presa con passione. Mia madre mi ha fatto leggere i libri dello storico francese George Lenôtre». 

Che cosa sta scrivendo ora?  
«Io scrivo in francese, sono pubblicato in francese, ma sono molto interessato al futuro dell’editoria legata a Internet. Sono arrivato alla conclusione che, se si vuole essere conosciuti per la scrittura, il futuro pone due condizioni: Internet e la lingua inglese. Per rispondere alla sua domanda, sto sviluppando il mio sito». 

Essere di stirpe reale come lei, greco e francese, con sangue danese, russo e spagnolo, significa essere cugino di tutti i re e le regine d’Europa e la mette dentro la storia. Com’è?  
«È vero che questo mi ci mette in contatto diretto ma quando scrivo cerco di essere imparziale e l’altra cosa è che queste regine e questi re, per me, sono la famiglia. Alcuni mi piacciono, altri meno, alcuni non mi piacciono affatto». 

Li frequenta questi re e regine?  
«Li vedo, sì. E alcuni li conosco. Il mio antenato preferito, Luigi Filippo, “il re borghese”, era solito dire: “Uno si sceglie gli amici, ma non la famiglia”. Ma amo pensare che alcuni dei re siano miei amici». 

Le spiace che re Costantino non sia più al potere?  
«Sono triste per lui e in un certo senso e la monarchia è in grado di offrire dei servizi. Io sono monarchico, ma dipende dalle persone che rappresentano la monarchia». 

Ammira la regina d’Inghilterra?  
«Sì, è più di un essere umano, è un monumento storico. Quando ero a cena con lei, avevo la sensazione di trovarmi con un personaggio storico. Filippo, invece, è mio cugino primo». 

Lei dove vive?  
«Tra Monte Carlo, Parigi, Atene e Patmos. Ho due cardini nella vita, la mia famiglia e il mio lavoro. Scrivo tutti i giorni e non posso non lavorare». 

Qual è il preferito tra i suoi libri?  
«“La femme sacrée”, sulla Maharani di Jhansi. Lei è l’eroina della rivolta indiana: giovane e bella, morì in una battaglia. La amo, è il mio personaggio preferito». 

Traduzione di Carla Reschia  

lunedì 27 luglio 2015

"Io nipote dello zar vi dico: riportate in Italia il vostro re"


L'ultimo pretendente al trono russo: "Maria Gabriella di Savoia ha ragione Le spoglie di Vittorio Emanuele III devono riposare nella Penisola. Sono parte della storia del Paese"

di Fausto Biloslavo - Lun, 27/07/2015 

Sua Altezza Imperiale, il Granduca George Mikhailovich Romanoff, erede al trono di tutte le Russie, è nato in esilio a Madrid. A 34 anni vive a Bruxelles e va spesso in visita ufficiale nell'ex impero, ma ama l'Italia. Nel nostro Paese, che conosce bene, ha incontrato Rebecca, la sua fidanzata, difesa da un inattaccabile scudo di riservatezza.





Come ci si sente ad essere l'erede al trono dello Zar?

«Discendere da una famiglia dal passato così ricco di storia e gloria come i Romanoff è un onore. Mi rendo conto di come il nome che porto rievochi nelle mente delle persone di qualsiasi nazionalità e cultura qualcosa di forte. Per qualche motivo nell'immaginario collettivo la Russia ed i Romanoff sono avvolti da un'aurea di charme e mistero».

C'è spazio nella Russia di oggi per un ruolo, anche simbolico, dello zarismo?

«Nelle società moderne la politica è vista come un fatto “tecnico”, mentre nei confronti di un re si prova un sentimento diverso, come se egli incarnasse in tutto e per tutto lo Stato. Per questo arrivo a dire che in qualunque Paese si può ipotizzare un ritorno della forma monarchica, ovviamente con dei connotati molto diversi da quelli dell'assolutismo. E quando vado in Russia rimango sempre molto toccato dalle manifestazioni di affetto e nostalgia della gente comune nei confronti della Casa imperiale. Oggi, naturalmente, la monarchia deve inserirsi nel moderno contesto socio-economico-culturale in cui il re, attraverso un processo di identificazione, garantisce l'unità del popolo, del Paese e lo rappresenta nel contesto internazionale. In Russia, come in tutte le nazioni ex monarchiche c'è chi sostiene che la presenza di una rinnovata monarchia possa offrire dei vantaggi al Paese. Come ovvio sono decisioni che deve prendere il popolo e noi non abbiamo mai preteso nulla, ma se i cittadini ritenessero opportuno un ritorno della monarchia non mi tirerei indietro».

Il Giornale ha pubblicato la lettera della principessa Maria Gabriella di Savoia per riportare in Italia le spoglie del re «soldato», Vittorio Emanuele III, sepolto in Egitto. Cosa ne pensa?

«Sono assolutamente d'accordo. Un re è parte della storia di un Paese e della sua memoria collettiva, che rappresenta il tassello più importante di una società e del suo sviluppo. Non bisogna mai cancellare la storia perché riflette ciò che siamo».

Lei viene spesso privatamente in Italia. Cosa le piace del nostro Paese?

«Tutto! Fin dalle prime volte sono rimasto affascinato dalle bellezze della Penisola. E mi è persino difficile dire con certezza quale sia la parte che preferisco. L'Italia è bella tutta: dal nord al sud. Ed è bella la gente, la cultura, il modo di vivere, la cucina. Vado spesso a Roma dove non perdo occasione per visitare il Pantheon (con le tombe dei re d'Italia, ndr) , un monumento incredibile. Anzi, mi consenta di salutare proprio le Guardie d'onore del Pantheon, che mi hanno ricevuto con un affetto ed un calore indimenticabili».

Quali località italiane frequenta?

«Quando sono a Roma adoro andare in giro perdendomi nei vicoletti e scoprire qualche nuovo ristorantino sfizioso o una fontana mai vista. Roma è una città che riesce a stupirti sempre, anche quando pensi di conoscerla benissimo. Ormai me la cavo bene pure con l'italiano, una lingua così melodica che a parlarla sembra di cantare. Adoro la capitale ma vado ovunque: da Genova a Milano, da Napoli alla Sicilia... Non frequento un posto in particolare, ma luoghi dove ho amici o sono spinto da qualche motivazione professionale oppure, semplicemente, vengo invitato per uno specifico evento. Ogni scusa è buona».

Lei descrive solo un'Italia idilliaca...

«Purtroppo rispetto a qualche anno fa vedo che gli effetti della crisi sono sempre più tangibili in tutte le città italiane e ciò mi rattrista. L'aumento spropositato delle tasse a cui consegue la vendita del patrimonio storico, culturale ed economico di un Paese porta inesorabilmente a svendere anche la propria identità».

L'Italia sembra più attenta di altri Paesi verso la Russia. Possiamo avere un ruolo di ponte con Mosca?

«Storicamente la vicinanza tra i nostri Paesi è forte. Basta pensare che il cuore del Cremlino a Mosca, così come i palazzi imperiali di San Pietroburgo sono stati costruiti dagli italiani. La vostra è una nazione con un enorme vantaggio rispetto ad altre: per quanto le sue proporzioni siano piccole, se le si paragona alle dimensioni dei nuovi attori globali, i famosi Brics, è un concentrato di manifattura e manodopera incredibile. Il vostro tessuto produttivo non finisce mai di stupire per l'inventiva, la capacità di immaginare, di creare prodotti che ovunque nel mondo vengono riconosciuti ed apprezzati. Il Made in Italy è qualcosa che nessuno riesce a copiare ed è ciò che tutti, soprattutto i russi, desiderano. Anche dal punto di vista religioso le nostre due confessioni attraversano un periodo di intenso dialogo. Ho avuto l'onore di essere ricevuto in udienza dal precedente Pontefice e noto con piacere che anche Papa Francesco è molto aperto verso la nostra confessione ortodossa».

Ma di mezzo ci sono le sanzioni alla Russia per la crisi in Ucraina...

«L'attuale situazione politica ha reso le relazioni molto difficili e purtroppo i singoli Stati Ue non possono decidere autonomamente della propria politica estera, ma devono attenersi alla volontà dell'Europa. Un'impasse che speriamo si riesca a superare presto, perché pregiudica gravemente le vostre imprese. Non dimentichiamo che la Ue importa il 35% del suo fabbisogno energetico dalla Russia e l'Europa ha visto in un solo anno il livello delle sue esportazioni verso Mosca crollare da 120 miliardi di euro a poco più di 100. L'Europa dovrebbe valutare attentamente quali passi seguire, perché la Russia confina direttamente con le vostre frontiere ma anche con quelle di importanti Paesi asiatici. E forse sarebbe più saggio mantenere delle relazioni diplomaticamente distese con il mio Paese per evitare che si volti a cercare partnership più strette con nazioni come la Cina, che non sono i suoi naturali alleati».

Le sembra possibile una soluzione tipo Alto Adige per la crisi del Donbass, la regione orientale dell'Ucraina, filorussa, che non vuole saperne di Kiev?

«La pace deve tenere conto delle realtà geopolitiche e del rispetto delle minoranze linguistiche. Per questo sono favorevole al coinvolgimento degli osservatori internazionali nella questione, che potrebbe in effetti risolversi con un modello simile a quello altoatesino».

Cosa pensa del presidente Putin, che molti chiamano il nuovo Zar?

«Un uomo preparato, saggio ed esperto, che sa come gestire uno Stato così grande e difficile come il nostro. Certamente non è uno Zar, visto che è stato eletto in modo democratico e il suo autoritarismo non è dissimile da quello di altri leader internazionali. Non era un compito facile, ma ha saputo traghettare il Paese dalla fase post comunista all'attuale contesto globale. La Casa imperiale supporta il presidente in tutto ciò che contribuisce al recupero delle tradizioni, alla conservazione del patrimonio storico, a rafforzare il benessere del Paese. Ovviamente su certi temi specifici non sempre sposiamo appieno le idee del presidente, ma, come le dicevo, io non faccio politica».

Da una parte gli americani pianificano l'invio di truppe e carri armati nei Paesi baltici. Dall'altra il Cremlino annuncia nuovi missili nucleari. Rischiamo qualcosa di peggio della guerra fredda?

«Le guerre “vecchio stile” sono superate. Oggi si fanno a colpi di economia, ma non creda che siano conflitti meno cruenti. Quanto all'annuncio dei nuovi missili nucleari è corretto dire che si tratta, appunto, solo di un annuncio. E comunque si troverebbero sul territorio nazionale russo, mentre gli Usa vogliono mandare carri armati e truppe sul territorio di uno Stato sovrano di un altro continente. Sarebbe come se la Russia inviasse soldati in America centrale».

In Crimea e nel Donbass abbiamo visto il ritorno dei cosacchi e delle bandiere con il volto dell'ultimo Zar. Come spiega questo revival?


«Senza dubbio tra i cosacchi, in Crimea e tra le milizie nel sud-est dell'Ucraina ci sono dei convinti monarchici, ma a volte i simboli imperiali vengono utilizzati dalle organizzazioni più disparate, persino da comunisti e nazionalisti radicali. Ciò avviene perché le bandiere imperiali simboleggiano la forza e la grandezza di un tempo. Da sempre nei momenti di crisi si attinge al simbolismo del passato più glorioso. Lo faceva anche Mussolini inneggiando ai fasti di Giulio Cesare».

sabato 25 luglio 2015

Sergio Boschiero: una vita per il Re

 di Emilio Del Bel Belluz

Il 3 giugno di quest’anno è morto Sergio Boschiero molto conosciuto, soprattutto nell’ambiente monarchico. La morte lo ha colto il giorno dopo la festa della repubblica. Sergio aveva dedicato la sua vita al servizio del Re. Era stato scelto da Re Umberto II, nel 1960 per guidare il Fronte Monarchico Giovanile. Da sempre ha indirizzato tutte le sue energie, alla causa del Sovrano. Credo che, salvo qualche eccezione non ci sia un altro che sia stato fedele all’idea e al Re meglio di lui. Ho appreso della sua morte dai quotidiani  -Il Tempo – di Roma che tra l’altro è stato l’unico quotidiano tra quelli nazionali a riportarne la notizia. Ho letto invece dei necrologi su - Il Giornale.  
Devo dire che la morte di Boschiero mi ha molto addolorato, è stato come perdere un punto di riferimento. In questi tempi così avari di ideali lui  personificava il motto “sarò fedele per sempre” . La sua fedeltà alla causa monarchica fu assoluta. Personalmente all’età di sedici anni lo sentii per la prima volta  parlare del Re Umberto II in una trasmissione televisiva gestita  dall’Unione Monarchica Italiana. Quella sera, che ricordo come fosse adesso, rimasi molto colpito per le sue parole, e alla fine della trasmissione trascrissi l’indirizzo della associazione. Successivamente scrissi una lettera a Boschiero esprimendogli il mio desiderio di iscrivermi all’associazione e lo pregai di inviarmi il giornale dei monarchici. Ricevetti poco tempo dopo il giornale che per anni continuò la pubblicazione, riportava le notizie dei vari gruppi di monarchici italiani. 
Conobbi molte realtà e per me fu come aprire una finestra nella mia vita. La bandiera del Re divenne la mia bandiera. Re Umberto II gli voleva bene, sapeva che poteva contare su di lui come uno dei suoi figli più sinceri. Lo vidi ai funerali del Re che parlava ai giornalisti immerso nel dolore per aver perso il so sovrano. Nella vita vi sono delle persone che come delle immagini. o dei quadri non sbiadiscono mai. Lo ripeto ho provato tanto dolore, nell’apprendere della sua morte, e ho provato delusione nel silenzio nella stampa. Mi pare impossibile che il mondo dimentichi così in fretta quello che uno ha rappresentato. Sergio Boschiero era nato nel 1936 a Berganze in provincia di Vicenza, si era trasferito a Roma nel 1960 per volontà del suo Sovrano. Aveva solo dieci anni quando il Re d’Italia dovette salire quella scaletta dell’aereo che lo portava in esilio. Mi sono sempre chiesto se la sua fede monarchica fosse iniziata già da bambino.
Quando si è fedeli ad un certo ideale, tutta la vita deve essere coerente ad esso. Un premio del destino è stato quello di morire il giorno successivo alla festa della repubblica. La vita di Re Umberto II è stata molto difficile, come ogni uomo che si trova a fare i conti con il lasciare la terra dei padri. Dall’esilio però ha avuto molte manifestazioni di lealtà, una di queste sicuramente è quella che ha potuto scrivere con la sua tenacia Sergio Boschiero. Solo i tempi duri sono quelli che ci fanno conoscere le persone speciali, quelle che ci comprendono. Re Umberto II,  nel suo esilio di Cascais, ha sempre saputo di poter avere un caro amico in Italia, che gli voleva bene.  La cerimonia funebre di Boschiero è stata officiata al Pantheon, luogo caro ai monarchici, dove sono sepolti i Re d'Italia . 
Nella cerimonia funebre, la bara di Sergio Boschiero è stata ricoperta dalla bandiera Sabauda, per la quale si è sempre battuto. Alla cerimonia erano presenti una ottantina di persone, molti politici sono mancati. Credo sia stata suonato l’inno reale. Mi auguro che le parole del sacerdote abbiano espresso quella lealtà che era alla radice della vita di Boschiero. Ora che la sua vita terrena è terminata, mi auguro che il suo ricordo non cada nell’oblio. Difficile dare dei giudizi sul suo percorso umano, ma quello che ha fatto per la monarchia, rimane. Non so se sia stato tumulato al suo paese natio, perché dal paese dove uno nasce eredita un pezzo di cielo. Ha lottato molto affinché il Re potesse tornare  dall’esilio ed essere sepolto al Pantheon. Se avesse potuto regnare Re Umberto II, sarebbe stato una buona guida, capace di stare al di sopra delle parti. Ora Sergio dal cielo potrà  incontrare il suo Re. Tutti gli anni il 2 giugno espongo dal mio terrazzo la bandiera del Re, d’ora in poi la lascerò sventolare anche il 3 giugno a memoria di Sergio Boschiero. Soldato leale al Re fino alla morte.  

giovedì 23 luglio 2015

Riportiamo in patria i Re d’Italia


Principessa Maria Gabriella di Savoia
di Cristina Siccardi
Dopo il recente attentato al Consolato italiano in Egitto, un accorato e composto appello è giunto dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia, che ha inviato una lettera al Direttore de il Giornale, Paolo Granzotto, il quale il 16 luglio scorso l’ha prontamente pubblicata con il titolo: Non lasciamo all’Isis la tomba del Re Soldato (www.ilgiornale.it ).
Scrive Maria Gabriella: «Quest’anno si celebra il centenario del primo conflitto mondiale nel corso del quale mio nonno, il Re Soldato, a unanime giudizio degli storici, si portò in maniera esemplare, favorendo il compimento del processo di unificazione col riunire all’Italia gli ultimi lembi di territorio in mano straniera. In considerazione delle gravi tensioni e violenze che stanno interessando l’Egitto, ritengo che per un dovere civile e morale sia giunto il momento di procedere al rientro delle salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena: per salvarne la loro e la nostra collettiva memoria. Molte nazioni oggi repubblicane ma che furono monarchie hanno provveduto al rimpatrio delle salme dei loro regnanti e ciò non solo in segno di pacificazione nazionale, ma anche nel rispetto della tradizione storica. Perché il nostro paese non può fare altrettanto?».
L’appello è stato presentato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella «certi che da risoluto e generoso rappresentate dell’unità nazionale qual è, non ne resterà sordo», ha scritto Granzotto il 16 luglio stesso, «D’altronde quello che lei chiede è un atto di carità, di rispetto e di giustizia: Vittorio Emanuele III lasciò l’Italia senza che ne fosse obbligato da una ordinanza di esilio (lo stesso può dirsi, del resto, per Umberto II)».
Il timore di Maria Gabriella di Savoia non è certo infondato, visto che il rimpatriato Bruno Dalmasso, ultimo custode italiano del cimitero di Hammangi (dove sono sepolti 7.800 caduti italiani), ha denunciato le profanazioni e le distruzioni delle lapidi dei seguaci dei tagliagole islamici, e ha affermato: «Portiamo in Italia quei resti. Gli estremisti islamici li hanno profanati due volte» (www.ilgiornale.it ).
Legittima e coraggiosa è la richiesta di Maria Gabriella, nonostante sia ben cosciente dell’ostracismo perdurante nei confronti di Casa Savoia. Un ostracismo innescato dalle sinistre (1943), che hanno incanalato gran parte dell’opinione pubblica verso l’odio non solo per Vittorio Emanuele III, ma anche nei confronti dell’istituto monarchico stesso, che è stato eliminato con i brogli elettorali manovrati da Palmiro Togliatti nel Referendum istituzionale del 1946 (due milioni di voti sottratti).
I consensi per la Monarchia, nell’Italia della seconda Guerra mondiale, sono rintracciabili non solo nella storiografia e nelle cronache, ma erano la preoccupazione costante di Adolf Hitler, che ordinò la cattura e la deportazione della figlia del Re, Mafalda di Savoia, che morì assassinata nel lager di Buchenwald il 28 agosto 1944.
Il giorno dopo l’appello di Maria Gabriella, il 17 luglio, è andato in onda su Rai 3, nel programma La grande storia, un servizio non certo atto alla sensibilizzazione per il rimpatrio delle salme dei sovrani d’Italia, ma dedicato all’esaltazione della socialista e liberale Maria José, nella quale la principessa belga poi «Regina di maggio» è risultata, come nella tradizionale vulgata progressista, l’eroina, a fronte di un Umberto II definito, negli anni del doloroso esilio a Cascais e a causa della sua cattolicità, «penoso» e «bigotto».
La Regina Elena trasmise ai figli Jolanda, Umberto, Giovanna, Mafalda, Maria una grande fede cristiana, che madre e figli hanno manifestato ampiamente nelle loro esistenze, alcune delle quali tanto tragiche quanto esemplari. Quattro ore dopo aver abdicato (9 maggio 1946), Vittorio Emanuele III era già a bordo del Duca degli Abruzzi, diretto verso l’Egitto. Re Farouk gli aveva offerto ospitalità nel suo palazzo di Qubbè Sarayi, al Cairo, ma Vittorio Emanuele, che prese a farsi chiamare conte di Pollenzo, scelse per sé e la moglie Elena un’anonima villetta a Shuma, sobborgo di Alessandria d’Egitto.
I Savoia non potevano (come sempre accade nelle rivoluzioni che smantellano le monarchie) accedere al patrimonio personale, che con la XIII Disposizione finale della Costituzione lo Stato avocò a sé, perciò Vittorio Emanuele partì povero, così come partirà il figlio per il Portogallo: sarà Re Farouk a sostenere il conte di Pollenzo e saranno gli italiani fedeli al Re a sostenere Umberto II, al quale il Venerabile Pio XII donò una somma di denaro per i primi duri tempi di Cascais.
Vittorio Emanuele che affrontò, nel bene e nel male, quattro guerre (due mondiali, quella di Libia e quella di Etiopia) e che regnò 46 anni, morì il 28 dicembre del 1947, il giorno seguente la promulgazione della Costituzione repubblicana. Nonostante l’offerta del sovrano d’Egitto di una sontuosa cappella nel cimitero latino, la Regina Elena, senza smentire la sua indole umile e riservata, scelse la piccola chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d’Egitto, dove la salma venne tumulata dietro l’altare maggiore, in un loculo dove è riportata la semplice scritta: «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947».
Elena morì il 28 novembre del 1952 a Montpellier, in Francia, dove si era trasferita per sottoporsi alle cure mediche del professor Lamarque. Come era stata stimata e amata in Italia, la «bonne Dame noire» venne stimata e amata in Francia per il suo povero stile di vita e per la sua disarmante carità, sempre vigile sugli infelici: fu sepolta, come suo desiderio, in una comune tomba del cimitero cittadino. L’intera città si fermò per assistere e partecipare al suo funerale, al quale presero parte 50 mila francesi. I montpelliérains sono ancora oggi riconoscenti alla Regina Elena, morta in concetto di santità, e la sua tomba è sempre fiorita.
La vulgata innescata dal tribunale antimonarchico è stata impietosa nei confronti di Vittorio Emanuele III, del quale, nonostante alcuni gravi errori di valutazione, non si può, con onestà intellettuale, ricordare che fu contro l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra mondiale, contro le leggi razziali (ma non poté che ratificarle, dopo 2 veti), contro la persona e l’agire di Hitler.
Per quanto riguarda l’8 Settembre 1943, il Re Soldato, formato alla ferrea disciplina del Generale Egidio Osio, preservò l’indipendenza italiana e la monarchia, trasferendo la sede del Governo a Brindisi: il termine «fuga», infatti, venne coniata dai nemici della corona, per screditarla. Non furono, infatti, fughe quelle del governo francese da Parigi a Bordeaux nel 1916, dei governi belgi, olandesi, norvegesi e polacchi nel 1939, bensì trasferimenti per non cadere incoscientemente nelle mani del nemico.
Molte cose avrebbe da dire (e in vita le disse) la Medaglia d’oro al Valor Militare Edgardo Sogno (1915-2000), anticomunista e coraggioso alfiere della monarchia, del quale proprio quest’anno ricorrono cento anni dalla sua nascita… ma «La grande storia» di Rai 3, sebbene gli furono decretati i funerali di Stato, si guarda bene dal celebrarne la memoria.
Riportare le salme dei Reali in Italia, oltre ad essere carità cristiana, di rispetto, di giustizia, sarebbe dovere civico e storico di una nazione che non ripudia se stessa e la sua «grande storia». (Cristina Siccardi)


















giovedì 16 luglio 2015

Non lasciamo all'ISIS la tomba del Re Soldato


Lettera di S.A.R. la Principessa Maria Gabriella pubblicata su Il Giornale di oggi.
Le preoccupazioni della Principessa le avevamo già espresse diverso tempo fa. 
Se l'Italia della repubblica non riconosce la naturale destinazione del Pantheon, aggiungiamo noi, si riuniscano le salme dei Sovrani ad Hautecombe. 
Ringraziamo dal profondo del cuore la Principessa per l'iniziativa.

 
Risposta di Granzotto
 
 
Trasmettiamo il suo appello al Presidente Sergio Mattarella, gentile Principessa, certi che da risoluto e generoso rappresentate dell'unità nazionale qual è, non ne resterà sordo.
D'altronde quello che lei chiede è un atto di carità, di rispetto e di giustizia: Vittorio Emanuele III lasciò l'Italia senza che ne fosse obbligato da una ordinanza di esilio (lo stesso può dirsi, del resto, per Umberto II). Quattro ore dopo aver abdicato era già a bordo del Duca degli Abruzzi diretto verso l'Egitto. Re Farouk gli aveva offerto ospitalità nel suo palazzo di Qubbè Sarayi, al Cairo, ma Vittorio Emanuele, anzi il conte di Pollenzo, la sua nuova identità, scelse per sé e per la moglie Elena una anonima villetta a Shuma, sobborgo di Alessandria d'Egitto.
Partito con le tasche vuote, senza poter accedere al patrimonio personale - che con la XIII Disposizione finale della Costituzione lo Stato avrebbe poi avocato a sé - poté contare solo sulla generosità del monarca egiziano. Conducendo una vita ritirata, passeggiando, ricevendo i parenti che saltuariamente gli facevano visita, leggendo, pescando lungo il Delta.
Morì il 28 dicembre del 1947, il giorno seguente alla promulgazione della Costituzione repubblicana. Essendo esclusa la possibilità di seppellirlo in Italia, rifiutata l'offerta di Farouk per una sontuosa cappella nel cimitero latino, la Regina Elena, non smentendo la sua inclinazione per la semplicità e la riservatezza, scelse la piccola chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto, dove la salma fu tumulata dietro l'altare maggiore, in un loculo sovrastato dalla scritta: «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947».
Elena morì qualche anno dopo, nel novembre del 1952. Affetta da un tumore si era da poco trasferita a Montpellier, in Francia, per affidarsi alle cure del professor Lamarque, nel quale riponeva le sue ultime speranze. In quella città fu molto amata - une grande dame discrète, così la ricordano - perché col poco che disponeva prese subito a dedicarsi ad opere caritatevoli, a far del bene al prossimo, virtù che era nella sua natura. I montpelliérains glie ne furono sempre riconoscenti.
Quando morì, l'intera città francese partecipò alle esequie e le dedicò un viale al cui imbocco posero un suo busto marmoreo.
«L'Italia è il solo Paese al mondo nel quale non potrei entrare per deporre un fiore sulla tomba dei miei genitori, ma continuerò a battermi perché possano riposarvi: quel che accadrà a me non ha importanza», ebbe a rammaricarsi da Cascais Umberto II. In verità qualcosa parve muoversi quando il governo Andreotti sembrò prendere in considerazione l'ipotesi di una traslazione delle salme (anche quella di Elena cadeva sotto i vincoli della XIII Disposizione), ma alla fine non se ne fece nulla. Elena riposa a Montpellier, Vittorio Emanuele in una tomba malamente coperta da un groviglio di impolverati fiori di plastica, dimenticata dietro all'altare di Santa Caterina. Ed è ora, questo è l'appello rivolto al Capo dello Stato, che quelle spoglie tornino in Italia. Le spoglie di una donna la cui colpa risiederebbe nell'essersi unita in matrimonio a un Savoia. Di un uomo che agli inizi del secolo scorso favorì la svolta democratica di Giolitti, che per aver trascorso al fronte gli anni della Grande Guerra si meritò il titolo di Re Soldato, che congedò Mussolini col quale collaborò, certo, ma da monarca costituzionale fedele alle leggi, sostenendo di avere nelle Camere, come puntigliosamente soleva ripetere, «i miei occhi e le mie orecchie». E che comunque, in ogni modo, nel bene o nel male è un capitolo della storia d'Italia, della nostra storia.

lunedì 13 luglio 2015

Scomparso a Roma il Marchese Fausto Solaro del Borgo


Il compianto Marchese Fausto Solaro del Borgo, seduto dietro alla Principessa Maria Gabriella di Savoia, durante la manifestazione dell'Unione Monarchica Italiana a Roma, nel 2011, per celebrare i 150 anni dalla fondazione del Regno d'Italia.
E' scomparso a Roma il Marchese Fausto Solaro del Borgo, devoto collaboratore e fedele amico del Re Umberto, come tradizione della sua Famiglia che ebbe numerosi Collari della SS. Annunziata, ultimo suo padre Alfredo che la ricevette dal Re nel Natale 1982.

Al Marchese Fausto il Re affidò importanti e delicati incarichi di fiducia tra i quali quello della consegna allo Stato italiano, all'inizio del 1983, delle ultime due casse di monete della imponente collezione numismatica del Re Vittorio Emanuele III donata dal Re all'Italia, al momento della partenza da Napoli per l'Egitto il 10 maggio 1946, con una lettera al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.

Con quell'incarico affidato a Fausto Solaro, e da lui con successo eseguito in collaborazione con l'allora Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, Re Umberto assicurò così l'unità e la completezza - evitando ogni possibile pericolo di dispersione - della più importante collezione numismatica al mondo.

Purtroppo il Marchese Solaro non riusci, con suo grande dispiacere, a vedere rispettata - come è noto - la volontà del Re di depositare presso il Museo del Risorgimento, al Vittoriano di Roma, i Collari storici e numerati della SS. Annunziata.



Il Marchese Solaro del Borgo alle spalle della LL AA RR la Principessa Maria Gabriella ed il Principe Ajmone.

 
Fausto Solaro del Borgo


Febbraio 1983:


Consegna al Governo italiano
della parte della collezione delle monete
del Re Vittorio Emanuele III
rimasta in possesso del Re Umberto II

            In occasione di uno dei miei incontri con S.M. il Re Umberto II a Ginevra, nel febbraio del 1982, il Re mi accennò al problema delle monete della collezione donata da Suo Padre, il Re Vittorio Emanuele III, al Popolo Italiano (con lettera al Presidente del Consiglio, On. Alcide De Gasperi, scritta a Napoli il 9 maggio 1946), rimaste in Suo possesso dopo la morte del Genitore. Si trattava di due cassette contenenti i pezzi più preziosi, in quanto  più antichi, che il vecchio Re, partendo per l’esilio in Egitto, portò con se (rilasciandone regolare ricevuta alla Presidenza del Consiglio) al fine di riordinarne la catalogazione. Queste monete si trovavano ad Alessandria d’Egitto al momento della morte del Re Vittorio Emanuele III, avvenuta il 28 dicembre 1947, quattro giorni prima della entrata in vigore della nuova Costituzione che prevedeva l’avocazione dei beni dell’ex Sovrano. Esse rappresentavano l’unico bene patrimoniale importante su cui la Famiglia Reale, che rischiava di restare senza mezzi di sostentamento, potesse contare sicché fu  deciso di non procedere alla restituzione. 
            Il Re Umberto mi precisò che intendeva affidare a me l’incarico di concordare con il Governo Italiano la restituzione delle due cassette conservate nel caveau del Credit Suisse di Losanna, che doveva essere effettuata in via riservata senza coinvolgere alcuno dei Suoi Consiglieri e Familiari, tutti ancora contrari a restituire un bene di così rilevante importanza patrimoniale al Paese che aveva espropriato l’intero patrimonio del Sovrano.
            All’inizio dell’estate 1982, in occasione della mia visita a Cascais del 27 luglio, fu deciso che avrei avviato in autunno i contatti con il Governo Italiano per individuare le procedure per la restituzione. L’aggravamento della malattia del Re ai primi di agosto e il Suo ricovero a Londra provocò, come tutti ricorderanno, un’ondata di simpatia per il Malato in esilio, sicché da molte parti si invocava un provvedimento del Parlamento che consentisse ad Umberto II di morire in Italia. In relazione a ciò, con la signorilità, la sensibilità e la bontà che hanno sempre caratterizzato le Sue azioni, il Re mi invitò ad astenermi dall’avanzare proposte di restituzione delle monete,  perché non voleva che un tale Suo spontaneo gesto venisse interpretato come una forma di “do ut des”.
            Nei mesi dell’autunno 1982 non parlammo della questione nei nostri incontri alla clinica londinese, se non saltuariamente, sempre sentendomi confermare la preoccupazione per una possibile interpretazione che il gesto fosse legato all’ipotetico rientro in Italia. Da parte mia continuavo a notare un peggioramento delle condizioni di salute del Re con il rischio conseguente che, con la Sua scomparsa, le monete per le quali  non avevo disposizioni scritte non venissero, dagli Eredi, più restituite all’Italia. Il 23 gennaio 1983, in occasione di una delle mie visite alla London Clinic, presi il coraggio a due mani e feci capire al Re che, date le circostanze ed i rischi connessi ad ulteriori rinvii, occorreva procedere e quindi aprire il negoziato con il Governo.
L’amor di Patria e la grande delicatezza del Re Umberto II si manifestarono ancora una volta quando volle suggerirmi di contattare, per un consiglio sulla procedura da seguire, il Sen. Giovanni Spadolini, all’epoca  Ministro della Difesa del Governo Fanfani, dicendomi “Ė il presidente del partito repubblicano, ma sono certo che, da uomo di cultura, metterà da parte in questa occasione  le sue idee politiche”. Mi diede anche la precisa disposizione che unica condizione da porre era che nessuna notizia in merito alla riconsegna fosse data prima della Sua morte.   Tornato a Roma, tramite un’amica che lo conosceva molto bene,  chiesi un incontro con il Ministro della Difesa. Il Sen. Spadolini, per incontrarmi, mi fece chiedere di che cosa intendevo parlargli e, saputolo, mi fece dire che “non vedeva la ragione perché ci si rivolgesse a lui per una questione che riguardava Casa Savoia”. Chiusa questa porta, non avendo rapporti con il mondo politico, mi rivolsi all’amico Marcello Sacchetti che mi propose di incontrare l’On. Nicola Signorello, Ministro del Turismo e Spettacolo. Eravamo intanto arrivati al 18 febbraio e l’On. Signorello, che mi ricevette subito, udito quello di cui si trattava mi disse che ne avrebbe parlato in via confidenziale con il Presidente del Consiglio Sen. Fanfani che doveva incontrare, di lì a poco, in Consiglio dei Ministri. Questo avveniva intorno alle ore 16 del venerdì 18 febbraio.
       Descrivo sinteticamente la cronologia degli avvenimenti che portarono al rientro in Italia delle monete mancanti alla collezione donata al Popolo Italiano dal  Re Vittorio Emanuele III.

Sabato 19 febbraio.

-          Ore 9,00: mi chiama al telefono il Professor Damiano Nocilla, Capo dell’Ufficio Legislativo della Presidenza  del Consiglio dei Ministri, pregandomi di recarmi a Palazzo Chigi.
-          Ore 10,30: incontro il Prof. Nocilla, il quale mi comunica di aver avuto incarico dal Presidente Fanfani di chiedermi chiarimenti su quanto a lui comunicato, il pomeriggio precedente, dal Ministro Signorello. Dopo avermi ascoltato mi chiese - essendo completamente all’oscuro su quanto concerneva la donazione del Re Vittorio Emanuele III che risaliva al 1946 - qualche ora di tempo per aggiornarsi sulla pratica.
-          Ore 15,00: seconda convocazione a Palazzo Chigi da parte del Prof. Nocilla, il quale nel frattempo aveva trovato gli incartamenti originali della donazione, compresa la ricevuta con la quale il Re Vittorio Emanuele dichiarava di portare con se le due cassette per l’aggiornamento della catalogazione, sicché  potemmo finalmente affrontare nei dettagli l’esame della procedura da seguire per la riconsegna. Durante il colloquio mi chiese di allontanarsi per andare a riferire al Presidente Fanfani che, indisposto, era a letto nell’ appartamento di Palazzo Chigi riservato al Presidente del Consiglio.
-          dopo circa mezz’ora il Prof. Nocilla mi informa che il Presidente Fanfani, pur febbricitante,  era sceso nel suo studio e desiderava parlare con me.
-          Ore 16: il Presidente, che da anni era in rapporti molto amichevoli con mio Padre Alfredo, mi accoglie nel suo ufficio con grande cordialità, esprimendo tutta la sua ammirazione per il gesto che il Re morente intendeva fare nei confronti del Popolo Italiano e, dopo essersi fatto esporre in dettaglio la situazione, con la mia richiesta di riservatezza sul mantenimento della quale mi diede la sua personale assicurazione, mi comunicò che intendeva assentarsi e mi pregava di attendere il suo rientro.
-          Intorno alle 17 il Presidente Fanfani rientra a Palazzo Chigi e mi informa che il Presidente della Repubblica Pertini, dal quale si era nel frattempo recato, anche lui riconoscente per il gesto di Umberto II,  aveva disposto che la riconsegna delle  monete avvenisse nel più breve tempo possibile, mettendo a mia disposizione l’aereo presidenziale per il loro trasporto a Roma.
-          Da questo momento in poi, seduto davanti alla sua scrivania, ho l’occasione di sperimentare l’efficienza dell’uomo Fanfani:              
§  Siamo ormai nel tardo pomeriggio, ed il Presidente del Consiglio chiama alla Farnesina l’Ambasciatore Malfatti, Segretario Generale del Ministero Affari Esteri, il quale arriva nel giro di un quarto d’ora.
§  Nel frattempo concorda con il Prof. Nocilla le modalità legali per la consegna da farsi, a Losanna, attraverso l’Ambasciatore d’Italia a Berna.
§  Chiede che l’Ambasciatore a Berna, Rinieri Paulucci di Calboli Barone, venga convocato a Roma e, a seguito dell’osservazione dell’Amb. Malfatti che si poteva parlargli per telefono, saputo che io lo conoscevo bene, lo chiama direttamente e, senza fornirgli spiegazioni, gli da disposizioni di recarsi a Losanna con il suo Cancelliere il martedì  successivo per incontrarsi con me e fare quanto gli avrei indicato.
§  Concorda con i presenti, per salvaguardare le disposizioni di massima segretezza dell’intera operazione, fino alla morte di Umberto II, di rivolgersi ai Carabinieri: il Presidente Fanfani chiama al telefono il Comandante Generale dell’Arma e gli chiede di organizzare il deposito a Roma.
-          Intorno alle 19,30 mi congedo dal Presidente Fanfani assicurandogli che avrei fatto il possibile per concludere l’operazione entro il martedì successivo e ricordo bene che lo stesso, avendo appreso da me delle gravissime condizioni in cui versava il Re Umberto, mi disse “Caro Solaro, faccia in modo che il tutto avvenga prima della morte di Umberto II e si ricordi che, se questo non dovesse avvenire, sarà solo colpa sua”.
-          Dopo aver definito meglio con il Prof. Nocilla gli aspetti legali da osservare, e predisposta una bozza di verbale di riconsegna, lascio Palazzo Chigi intorno alle 22. Viene deciso che, per garantire la massima regolarità, non avendo io alcun mandato scritto del Re, la parte formale sarebbe stata svolta da mio Padre nella sua qualità di Procuratore Generale di Umberto II, ed anche perché, non volendo coinvolgere l’Amministratore del Sovrano, era l’unico ad avere accesso al caveau del Credit Suisse dove si trovavano le cassette.

Domenica 20 febbraio.

Il Presidente Fanfani mi fa pervenire una lettera indirizzata a mio Padre, quale Procuratore Generale del Re, confermando l’accettazione delle monete ed esprimendo la riconoscenza del Governo e del Paese per il gesto del Sovrano morente.

 Martedì 22.

Alle nove mi incontro all’Hotel Palace di Losanna con l’Ambasciatore d’Italia a Berna, Rinieri Paulucci de Calboli Barone, che trovo abbastanza seccato per il modo in cui era stato trattato dal Presidente del Consiglio e, senza mezzi termini, mi dichiara che mai durante la sua carriera gli era stato chiesto di mettersi a disposizione di un “laico”, portando con se il Cancelliere Capo dell’Ambasciata, il sigillo e la ceralacca. Gli spiego tutto quanto era stato concordato a Roma ed i motivi, purtroppo molto tristi, che avevano richiesto l’adozione di una procedura di particolare urgenza con tempi brevissimi a disposizione.
Con lui e con il Cancelliere mi reco al Credit Suisse, dove incontriamo mio Padre e l’Avvocato dello Stato addetto alla Presidenza del Consiglio, Raffaele Tamiozzo, accompagnato dal Colonnello dei Carabinieri Giovanni Danese, arrivati da Roma con l’aereo presidenziale. La consegna non richiede molto tempo in quanto io avevo preteso ed ottenuto a Roma che le cassette  venissero aperte solo dopo la morte del Re, in mia presenza. 
Terminata l’apposizione dei sigilli ai due contenitori e la sottoscrizione del verbale da parte di mio Padre per la consegna, dell’Ambasciatore d’Italia per il ritiro, e dei due funzionari presenti, le cassette sono caricate sulla macchina dell’Ambasciata, vengono trasportate all’aeroporto di Ginevra e imbarcate sul DC9 presidenziale. All’arrivo a Ciampino le cassette vengono prese in consegna dal Colonnello Comandante della Legione Carabinieri di Roma e portate nella Caserma del Reparto Operativo di Via Garibaldi, dove concludono il loro periglioso peregrinare durato 37 anni da Roma ad Alessandria d’Egitto, a Cascais,  a Ginevra e, finalmente, di nuovo a Roma.
Il 25 febbraio, vedendo avvicinarsi la fine, i Figli organizzarono il trasporto del Genitore  in Svizzera all’Hôpital Cantonal di Ginevra, e  il 13 marzo  i medici  mi permisero di entrare nella Sua stanza per comunicargli l’avvenuta riconsegna delle monete; ricordo le poche parole che riuscii ad udire  “Grazie… è la più bella notizia che potevi darmi”  che mi confermarono, ancora una volta, che gli unici pensieri di quell’Uomo in fin di vita erano per il Suo Paese.
Il Re Umberto II muore a Ginevra il 18 marzo 1983. La Sua ultima parola percepita è stata “Italia”.
Il 21 dello stesso mese il Governo Italiano emette un comunicato ufficiale con il quale, dando notizia dell’avvenuta consegna delle  due cassette di monete, ricorda la generosità del gesto compiuto dal Re prima della Sua morte.
Il giorno 28 vengo convocato per l’apertura delle due cassette, che avviene alla presenza del Colonnello Ivo Sassi, Comandante della Legione Carabinieri di Roma, del Professor Damiano Nocilla, Capo dell’Ufficio Legislativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Dottoressa Silvana Balbi de Caro, Direttrice del Museo Nazionale Romano, Museo delle Terme, e di altri Funzionari del Ministero degli Esteri e dell’Avvocatura dello Stato.
La storia non finisce ancora in quanto, una volta aperte le due cassette dalla Direttrice del Museo, Dottoressa Balbi de Caro, comincia l’esame delle monete seguendo il vecchio catalogo del Re Vittorio Emanuele III (Corpus Nummorum Italicorum) e, dove dovevano esservi delle monete d’oro, si trovavano solo delle bustine vuote. Dopo circa mezz’ora in cui, proseguendo nella ricerca, si continuavano a trovare bustine vuote, nell’imbarazzo generale, si decide di sospendere il trasferimento delle cassette dalla Caserma dei Carabinieri al Museo delle Terme, per riferire al Presidente del Consiglio. Io non potevo nemmeno considerare l’ipotesi che il Re Umberto avesse trattenuto le monete d’oro senza farmene cenno; comunque, dovevo arrendermi all’evidenza. Alcuni giorni  dopo mi chiama personalmente al telefono il Presidente Fanfani, che aveva saputo del mio dramma da Nocilla, e mi informa che tutte le monete erano state trovate  in una parte della cassetta dove, evidentemente, il Re Vittorio Emanuele le aveva  raggruppate per la nuova catalogazione.
Finalmente, con la sottoscrizione di un ultimo verbale e con il trasferimento delle monete al Museo delle Terme, dove era conservato il resto della collezione donata dal Re Vittorio Emanuele III, finisce il mio coinvolgimento in una operazione fortemente voluta dal Re Umberto che mai aveva pensato di appropriarsi di quanto donato da Suo Padre al popolo italiano.

Una decina di giorni dopo ricevetti una telefonata da Palazzo Chigi: il Presidente del Consiglio Fanfani mi comunicava che, a seguito di una valutazione del complesso dei beni da me riportati in Italia per conto di un Signore a cui la Repubblica aveva confiscato tutto il patrimonio, era stato appurato che il loro valore  superava i venti miliardi di lire. Alla mia domanda se si conosceva il valore dell’intera collezione, il Presidente Fanfani mi disse che lo stesso superava i cento miliardi (anno 1983).