NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 2 settembre 2015

Memorie dell'Ambasciatore Alessandro Marieni Saredo

Dal sito www.marieni-saredo.it  pubblichiamo un estratto dal libro di memorie dell'Ambasciatore Alessandro Marieni Saredo (da pag. 151 a pag. 165) 

Funzionario di collegamento presso il Quirinale 

Un giorno dell'inverno 1946 fui chiamato dal Capo del Personale, Ministro Baldoni, il quale mi domandò se ero disposto ad andare al Quirinale quale funzionario di collegamento col nostro Ministero, in quanto colui che copriva quell'incarico, all'annunzio del prossimo infausto referendum istituzionale, si era fatto trasferire all'estero.
Risposi subito di sì a condizione di non vestire l'uniforme militare come il mio predecessore perché, dovendo lavorare nell'ufficio del Primo aiutante di campo generale come semplice tenente, sarei stato messo sotto i piedi da tutti. Mi disse che avevo ragione e così andai a presentarmi al Generale Infante il quale aveva avuto un men che mediocre passato di guerra in Libia ed in Albania ed era stato imposto dal Governo — in quanto repubblicaneggiante — al Principe Umberto, Luogotenente Generale del Regno, che non lo voleva.

La prima domanda che mi fece il Generale fu se sapevo adoperare le armi in caso di sommossa e di assalto al palazzo e mi fece vedere dove teneva due mitra con molti caricatori e varie bombe a mano.
Risposi che ritenevo di non doverle usare a Palazzo Reale, ma che comunque ero tenente dei Granatieri e come tale le sapevo adoperare e abbastanza bene. La domanda mi diede subito l'impressione che fosse un fifone e ne ebbi conferma in quanto non accompagnava mai il Principe nelle sue visite ai posti ritenuti "caldi", ma lo faceva scortare sempre dall'Aiutante di campo in IIa, Generale dell'Aviazione Cassiani Ingoni, il quale, al contrario, proprio non sapeva cosa fosse il pericolo.
Il mio compito era quello di sottoporre al Luogotenente le numerose richieste di udienza e di fissarne la data e inoltre di portargli, ed eventualmente illustrargli i telegrammi ed i rapporti dall'estero che il Ministero riteneva di fargli vedere. Ebbi modo così di notare che il Principe era un uomo capace, di pronta e vivace intelligenza e di notevole cultura che si teneva molto bene informato di tutto. Sarebbe stato un ottimo Capo dello Stato anche come Presidente della Repubblica — certo migliore di molti suoi successori!
La sola cosa che mi colpì e mi preoccupò fu la sua rassegnazione su ciò che il futuro gli riservava. Era un vero Cireneo che portava la croce per peccati non suoi.
Col tempo ebbi modo di vedere come le sole persone capaci ed efficienti della Casa Militare, soprattutto dal punto di vista politico, erano il Contrammiraglio Garofalo, che poi conobbi meglio divenendone buon amico in Argentina, e il Ten. Col. d'Artiglieria, Giuseppe Margaritondo.

I compiti che allora svolgevo erano quelli che nella nostra Repubblica spendacciona e inflazionata competono a colui che è pomposamente chiamato il Consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica, che ha il grado di Ministro Plenipotenziario di I o II classe, coadiuvato da uno staff di due o tre altri funzionari, da numerosi impiegati e con tre o quattro macchine di servizio.
Io non ero ancora Segretario di Legazione e solo quando facevo tardi ero riaccompagnato a casa da una motocarrozzetta militare. Avevo come unico collaboratore un caporale dell'esercito, dattilografo!
Come si vede la Monarchia era molto più economa e seria! Oggi i funzionari del Consigliere diplomatico, essendo numerosi e avendo poco da fare, sono spesso portati ad occuparsi di pettegolezzi, intrighi ed intrallazzi politici.

Il Presidente De Gasperi mentre era molto ossequiente in presenza del Luogotenente, quand'era fuori dal Quirinale lavorava in favore della Repubblica, fortemente coadiuvato in questa opera poco lungimirante, dal pro-Segretario di Stato della Santa Sede Mons. Montini che pare svolgesse tale attività di nascosto dal Santo Padre Pio XII che era invece, e più intelligentemente, a favore della Monarchia. La cosa continuò fino a quando Mons. Montini inviò — pare senza informare il Papa — la famosa circolare ai Vescovi invitandoli a far votare per la Repubblica.
La fissazione repubblicana era una mania di molti democristiani di centro e di sinistra ed infatti essi costituirono, con i comunisti, il maggior numero di voti per la Repubblica al referendum costituzionale. In molti di loro c'era ancora l'intenzione, invero poco cristiana, di una vendetta contro la breccia di Porta Pia e la famiglia reale che l'aveva provocata!
Era questo un atteggiamento antirisorgimentale e addirittura antinazionale che si ritrova in molti atti della D.C. che non riuscì mai a comprendere che con un pizzico, non dico di nazionalismo ma di patriottismo nel suo programma, avrebbe ottenuto una permanente maggioranza assoluta in Parlamento!
I democristiani non compresero nemmeno che, abbattuta la Monarchia, i comunisti avrebbero allungato il tiro e colpito il Vaticano, come difatti avvenne. Purtroppo di fronte a tale miopia non c'era nulla da fare.
Data la situazione, l'Ammiraglio Garofalo fece un estremo tentativo: prendere per le corna Nenni. Gli fece comprendere che la Repubblica in Italia avrebbe potuto solo essere clericale o comunista, due cose che non potevano piacere ai Socialisti; la Monarchia invece avrebbe potuto ben convivere con il Socialismo moderato, come avveniva in Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi e gli fece anche comprendere che se non avesse lottato contro la Monarchia avrebbe potuto essere nominato Presidente del Consiglio al posto di De Gasperi, cosa alla quale Nenni ambiva moltissimo.
Il leader socialista che aveva capito la verità fondamentale del discorso, aveva abboccato; in un secondo tempo poi, preso in giro dai giornalisti che avevano notato la sua frequentazione del Quirinale, riprese a fare il demagogo.

Intanto cercavamo tra mille difficoltà di ravvivare la propaganda monarchica, nonostante la mancanza di mezzi. Io mi diedi da fare per ottenere quattrini da amici dell'aristocrazia romana ma, data la spilorceria generale, ebbi scarsissimo successo. Il massimo che riuscii ad ottenere da un principe romano furono diecimila lire! Pochine anche per allora, se si pensa che un manifesto di un metro quadrato, posto in opera, veniva a costare almeno mille lire!
Si andava così verso il referendum imposto al Luogotenente dal Governo De Gasperi e dalle sinistre fortemente appoggiate dai Governi anglosassoni vincitori, ancora succubi di Stalin e delle ideologie abilmente propagandate dai marxisti. Il referendum era già invalidato perché non potevano votare un milione e mezzo di prigionieri e le popolazioni di Trieste e della Venezia-Giulia, oltre che per le intimidazioni di cui i monarchici venivano fatti continuamente oggetto sotto gli occhi delle Autorità alleate che forse volevano indebolire ancora più l'Italia o che erano assolutamente miopi per ciò che sarebbe potuto avvenire.
Il ritardo di Vittorio Emanuele nell'abdicare aggravava ancora di più le cose.
Soprattutto stupiva l'atteggiamento di un governo monarchico come quello britannico che si serviva come ricatto del minaccioso atteggiamento di Tito e sembrava voler riservare al nostro Paese un avvenire marxista a tutto vantaggio dell'URSS.
Intanto il tempo passava e la ricostruzione del Paese e il miglioramento generale — meriti maggiori del Governo De Gasperi — procedevano rapidissimi.
Purtroppo insieme procedeva anche la corruzione dei poteri pubblici e della vita politica. De Gasperi personalmente onestissimo, come pochi altri, non riusciva a scegliere bene i collaboratori e si stava anche scaldando in seno alcuni uomini della sinistra D.C., tra i quali i due ex fascisti Fanfani e Moro, che gli avrebbero dato il calcio dell'asino riuscendo alla fine ad escluderlo dal Governo e facendolo quasi morire di crepacuore. I politici democristiani e socialisti venivano da una piccola borghesia famelica di potere e di denaro e ritenevano lo Stato la vacca da mungere che doveva arricchire tutti: molti quindi dettero l'assalto alla diligenza del potere come briganti della gran via!
Noi diplomatici di carriera, che eravamo già stati danneggiati dal Fascismo, ci riunimmo in un Sindacato per la difesa dei nostri interessi. Anch'io facevo parte dei dirigenti del Sindacato e chiedemmo di essere ricevuti dal Ministro che allora era De Gasperi. Egli ci fece attendere vari mesi, poi ci ricevette piuttosto sgarbatamente tenendoci in piedi.
Gli dicemmo che tra noi non c'era nessun Richelieu e nessun Talleyrand ma che, modestamente ritenevamo di conoscere abbastanza bene il mestiere e reputavamo di poter essere ancora utili a servire il Paese e quindi non comprendevamo perché ci dovessero sempre essere anteposte delle persone meno competenti. Ci rispose seccamente che egli, tra i competenti che avevano servito il fascismo e gli incompetenti che non erano mai stati fascisti, preferiva questi ultimi e ci salutò.
Fu certamente questo suo antifascismo viscerale che gli fece commettere errori specie nella scelta degli uomini; alcuni di questi errori furono corretti in parte dalla moderazione del suo braccio destro Sottosegretario alla Presidenza, giovanissimo, ma molto intelligente, l'On. Giulio Andreotti.
Uno dei fatti importanti di quel tempo fu la conclusione a Parigi dell' accordo De Gasperi-Grüber sull'Alto Adige. Non ascoltando i pareri del Ministro degli Affari Esteri né del Consiglio di Stato, egli firmò un accordo, scritto veramente con i piedi, che si prestava a interpretazioni contrastanti e che non diceva nemmeno quale dei due testi — l'italiano o il tedesco — facesse fede. De Gasperi si fidava della parola di Grüber che effettivamente era un'onestissima persona, ma che fu presto sostituito e i suoi successori giocarono a loro vantaggio sulle varie interpretazioni cui si prestavano i due testi.
Bisogna dire che l'accordo era assolutamente necessario e forse provvidenziale perché altrimenti gli Inglesi avrebbero fatto di tutto per cedere l'Alto Adige all'Austria che scioccamene prediligevano rispetto all'Italia ex-nemica, trascurando il fatto che detto Paese era stato una delle roccaforti di Hitler.
La dabbenaggine dei nostri successivi Ministri degli Esteri e dei Partiti al potere fecero sì che le concessioni agli Alto Atesini si estendessero sempre più, violando in pieno la Costituzione in quanto crearono dei supercittadini privilegiati a scapito dei veri italiani del resto del Paese, questi ultimi, addirittura, pagavano più imposte di quelli di lingua tedesca, favoriti in tutti i modi.
Ma lo sbaglio maggiore dell'accordo fu quello di riammettere in Italia gli Alto Atesini che da veri nazisti avevano optato, al momento dell'accordo Mussolini-Hitler, per il "grande Reich" ottenendo larghi indennizzi per i beni che lasciavano in Italia. Essi riottennero la cittadinanza italiana e la restituzione delle loro proprietà senza riversare l'indennizzo che avevano ottenuto, essendo così ripagati due volte. Invece di provare gratitudine per la liberalità italiana si coalizzarono in un nido di serpi contro di noi, perché ci considerarono dei deboli.
Tutto ciò era dovuto alle illusioni della Democrazia Cristiana maniaca di disfare tutto quello (anche quel po' di bene) che aveva fatto il fascismo.
 Si stava arrivando frattanto al referendum istituzionale con la vittoria di stretta misura del voto repubblicano, aiutato dai brogli e intrallazzi dei collaboratori del Ministro socialista degli Interni, Romita (uno dei suoi segretari di Partito si vantava tra i fumi del vino al ristorante Libotte di Roma, di aver fatto gettare nel Tevere interi pacchi di schede monarchiche).

I brogli erano tanto palesi che la Corte di Cassazione non si decideva a ratificare l'esito della votazione e allora il governo De Gasperi, compiendo una specie di larvato colpo di Stato, proclamò la Repubblica con De Gasperi stesso capo provvisorio.
Umberto, che da un mese aveva assunto il titolo di Re per l'abdicazione del padre e che non voleva conflitti e spargimento di sangue fra italiani, decise di partire in esilio senza però rinunciare effettivamente al trono.
Io, che ho sempre ritenuto che un re qualunque sia da preferire a un ottimo Presidente, perché non proviene da nessun Partito, ero molto preoccupato per il nostro avvenire.
Il re diede un addio a noi suoi collaboratori con un nobilissimo discorso in cui ci ringraziava del lavoro prestato, ci liberava dal giuramento di fedeltà alla sua persona e alla Dinastia, invitandoci a restare al servizio dello Stato in quanto i monarchici dovevano essere anche in avvenire i migliori cittadini e i più fedeli servitori della Patria.
Io prevedevo giorni tristi per l'Italia a causa di tutti gli arrivisti e gli uomini politici cialtroni che si facevano avanti e per colpa del complesso di inferiorità dei democristiani che cedevano ad ogni richiesta dei comunisti.
I democristiani e i socialisti avevano voluto la Repubblica non tanto per convinzioni politiche o filosofiche, ma soprattutto perché ognuno di loro, senza eccezione alcuna, aveva l'ambizione di diventare un giorno Presidente della Repubblica. Questa si affrettò a premiare i falsari della votazione facendoli assurgere ad alti gradi. Forse voleva impedire che gli scontenti si vendicassero, rivelando le origini di questa Repubblica.



Le mie ultime incombenze al Quirinale furono di tener lontani dal Re, con vari pretesti, l'Ammiraglio De Courten, Ministro della Marina, il Generale Raffaele Cadorna e l'Ambasciatore (politico) in Spagna Tommaso Gallarati Scotti che volevano ossequiarlo e che lui non voleva assolutamente vedere in quanto riteneva che avessero tenuto i piedi in due scarpe, atteggiandosi, prima ancora dell'avvento della Repubblica, a repubblicani.
Accompagnai il Re sino all'aereo militare che da Ciampino lo portava in esilio. Qui, dietro suo ordine, feci scaricare dal suo aereo da un aviere le valigie dell'Ambasciatore Gallarati Scotti il quale, ritenendo che il Re andasse in Spagna, voleva accompagnarlo; ma il Sovrano anche allora non volle vederlo né stringergli la mano perché quale Ambasciatore del Re, si era atteggiato a Repubblicano.
Dopo qualche giorno tornai al mio normale lavoro al Ministero, ma grande fu la mia sorpresa quando, dopo qualche settimana, il Segretario Generale Ambasciatore Franzoni mi chiamò per comunicarmi la nomina, nonostante il mio grado ancora basso, a suo stretto collaboratore quale Capo Ufficio coordinamento della Segreteria Generale.

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