NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 30 agosto 2015

Presentazione del libro su Vittorio Emanuele III

Vittorio Emanuele III è stato il protagonista assoluto in Capannina a Forte dei Marmi per la presentazione del testo del Marchese Guglielmo Bonanno di San Lorenzo ” Piccolo grande Re, Vittorio Emanuele III - Un’altra storia” che ha offerto una rilettura storica decisamente innovativa della figura del re. Anfitrione è stato il Marchese Emilio Petrini  Mansi della Fontanazza, docente di Diritto Nobiliare comparato all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma che patrocinava  l’evento, che è riuscito a richiamare un pubblico d’eccezione. 
[...]




sabato 29 agosto 2015

Monarchia! Perché…

 di Waldimaro Fiorentino

   
Le ragioni della Monarchia esposte in un libro di Waldimaro Fiorentino, che giudica questa Istituzione superiore alla repubblica per una serie di ragioni; innanzitutto perché è la più naturale, in quanto rappresentala proiezione della famiglia al vertice dello Stato, ma anche perché solo le Monarchie sono saggiamente rivoluzionarie, costituiscono un potere neutrale che garantiscono l’imparzialità della funzione, realizzano la continuità dello Stato, nascono autoritarie, ma evolvono verso forme sempre più liberali e democratiche, realizzano una naturale successione generazionale, realizzano un implicito concetto della programmazione, mentre la repubblica è costretta a fronteggiare l’emergenza che la sua stessa natura determina; ed anche perché la Monarchia è stata la prima istituzione ad elevare le donne al vertice dello Stato.
    

Tanti gli esempi portati a sostegno della tesi enunciata: la capacità che l’Istituzione dimostra di sapersi difendere dalle successioni non utili, esempi virtuosi nelle Monarchie ed i tanti casi di degrado nelle repubbliche, soprattutto in quella italiana; circostanze che inducono a concludere che «le repubbliche sono il sottobosco politico» e le infinite distorsioni della repubblica che arricchiscono partiti e singoli politici e che  vengono eufemisticamente definite «costo della democrazia».


100 pagine; 20 fotografie; 20 euro



venerdì 14 agosto 2015

Ad Albenga in scena le "Donne nella I Guerra Mondiale"



Venerdì 14 agosto ore 21,15 al Chiostro "Ester Siccardi"di Albenga, in viale Martiri della Libertà 1, il Vicepresidente del Consiglio Regionale del Piemonte dottor Nino Boeti e lo storico professor  Pier Franco Quaglieni presenteranno il libro di Bruna Bertolo "Donne nella I Guerra Mondiale", ed Susalibri.Sarà presente l'autrice.
Introdurrà il prof. Gianni Ballabio.

"Il libro - afferma l'autrice Bruna Bertolo - racconta la storia delle donne che vissero una guerra terribile. Le donne sostituirono gli uomini in fabbrica e in campagna, le crocerossine curarono i feriti e li consolarono. Altre donne con le gerle cariche di munizioni  e di viveri salirono i pendii delle montagne. Si parla anche  del lavoro delle giornaliste, delle femmes de plaisir, delle eroine e della partecipazione delle donne di Casa Savoia, a partire dalla Regina Elena che trasformò il Quirinale in ospedale".
Verrà la presentato al pubblico un volantino originale del volo su Vienna di Gabriele d'Annunzio proprietà  dell'Archivio storico del Centro "Pannunzio".
Aggiunge Pier Franco Quaglieni :" E' un libro storico leggibile da tutti. Particolare importanza  hanno le immagini fotografiche .E' un libro completo,esauriente,obiettivo".

giovedì 13 agosto 2015

La misura della democrazia in Italia....

Alle idiozie siamo tristemente abituati tuttavia c'è sempre qualcuno che riesce ad emergere rispetto a livelli standard già elevatissimi.

Eccone un preclaro esempio!



Scaramelli (Partito Democratico): «Un errore il sì alla manifestazione degli animalisti nel giorno del Palio. E' come autorizzare la manifestazione di monarchici nel giorno della Festa della Repubblica»


Scaramelli: «Un errore il sì alla manifestazione degli animalisti nel giorno del Palio. E' come autorizzare la manifestazione di monarchici nel giorno della Festa della Repubblica»
13-08-2015 PALIO SIENA | «Autorizzare la manifestazione contro il Palio di Siena il 16 agosto è come autorizzare la manifestazione di monarchici nel giorno della Festa della Repubblica, è un errore». A dirlo Stefano Scaramelli, Consigliere regionale di Siena, che definisce «un errore il sì alla manifestazione degli animalisti nel giorno del Palio». 

«Il Palio è - continua Scaramelli - cultura, identità, storia, coesione sociale, simbolo di Siena, della Toscana e dell'Italia, inesplicabile filo che lega il presente al passato tenendo sempre lo sguardo fisso sul futuro. Valori che anche la Regione Toscana riconosce e che, da ultimo, ha sancito votando all'unanimità la candidatura a diventare Patrimonio Mondiale dell'Unesco. Un atto che dimostra, una volta in più, l'importanza dei valori del Palio. In questi valori giace, forse unico esempio nel mondo, un'unione capace di nascere dal conflitto. A Siena il Palio non è solo carriera, è contrade, è festa, è passione, è calore, è gioia e dolore, è anima. La manifestazione andava vietata perché autorizzarla nel giorno del Palio significa rinnegare questi valori e dare corpo ai radicalismi». 

«Il diritto a manifestare è inviolabile, ma attenzione agli approcci strumentali che fanno fuori la coesione sociale. Sì alle manifestazioni e ai manifestanti, ma chi vuole manifestare lo faccia nei 363 giorni dell'anno, esclusi il 2 luglio e il 16 agosto - conclude Scaramelli -. Non solo è ingiusto e non corretto, è illegittimo, forse, anche contrario ai principi costituzionali. Siena è il Palio e il Palio è tutto per Siena. Serve il coraggio di revocare l'autorizzazione».


La Grande Guerra. Conferenza di Ugo D'Andrea. Seconda parte

Ugo D'Andrea, senatore del PLI
Nel 1914, in presenza della  prima guerra mondiale, prese corpo in Italia un nazionalismo che non obbediva, rispetto all’irredentismo, ai motivi di Matteo Renato Imbriani o di Cavallotti. Era un nuovo irredentismo assai più realistico e più aderente ai fatti.

Ho notato che non si cita mai, nel ricordo della prima guerra mondiale, il nome di Rugero Fauro, che nei suoi «Scritti politici», pubblicati sull'«Idea Nazionale», si richiamava sempre alla necessità di riconquistare le province Irredente, non solo perché esse ci venivano per diritto naturale, ma perché andavano strappate all'usurpatore con la prova armata contro una nazione straniera che ci opprimeva da secoli e teneva ancora alcune regioni della Penisola in suo dominio.

Il 1911 fu l'annuncio della nuova epopea. Videro la luce in quell'anno libri significativi come «L'ora di Tripoli» di Enrico Corradini, «Tunisí e Tripoli» di Piero Castellini, «La terra promessa» di Giuseppe Piazza, mentre Giuseppe Bevione sulla Stampa di Torino pubblicava alcune corrispondenze, in favore della conquista, per ragioni di equilibrio nel Mediterraneo e nell'Adriatico. Questo fu il carattere più proprio del Nazionalismo: l'ansia di assicurare all'Italia le terre di oltremare, sulla sponda adriatica e su quella d'Africa.

Nascevano in tutta la Penisola, tra il 1908 e il 1910, movimenti e giornali di tendenza nazionalista e irredentista: il «Tricolore» a Torino, ove si era costituito un gruppo di giovani attorno a Mario Viana, gruppo monarchico assai rigido nell'affermazione del Principato e non indulgente verso una Monarchia socialista e pacifista. Videro anche la luce «L'Italia all'estero» a Roma, «L'Italia nostra» a Torino, «La Rassegna contemporanea», la «Preparazione» del colonnello Barone (professore di economia politica); il «Carroccio» con più sensibile impronta nazionalista, sempre a Roma; «La grande Italia» a Milano; «La Nave » a Napoli, in concomitanza con il dramma del grande poeta pescarese e col motto «Arma la prora e salpa verso il mondo».
Si pubblicava a Genova «L'Italia viva»; a Venezia «Il mare nostro»; a Firenze « La prora ».
Contemporaneamente usciva «La lupa» di Paolo Orano, che voleva conciliare nazionalismo e sindacalismo, ed esplodeva il futurismo con la rivista «Poesia» di F. T. Marinetti e il suo storico manifesto. Nato come movimento italo-francese per il rinnovamento della poesia e dell'arte, il futurismo confluì nel nazionalismo e proclamò la guerra «sola igiene del mondo». Un poema del milanese Paolo Buzzi dal titolo «Aeroplani» era dedicato «a Trieste che riconquisteremo». Il passo dal futurismo verso il patriottismo e l'irredentismo era stato breve e assai rapido.

Tutti i movimenti che confluivano nel nuovo pensiero della Nazione, come protagonista della storia imminente, si riunirono a congresso nel dicembre 1910 a Firenze per tentate di definire una dottrina e costituire un movimento politico.

Vi erano uomini delle più diverse provenienze: venuti dal giornalismo, dalla letteratura, dall'insegnamento, dal sindacalismo: così Giovanni Bertacchi, Francesco Pastonchi e Arturo Colautti poeti; Giuseppe Piazza, Guelfo Civinini, Maurizio Maraviglia, Diego Angeli, Goffredo Bellonci, Ezio Maria Gray, Luigi Valli, Filippo Carli, Roberto Forges-Davanzati, Gualtiero Castellini, Paolo Arcari, Alessandro Dudan, Alberto Caroncini scrittori. Senza dire dell'adesione dei grandi come Pascoli, D'Annunzio, Alfredo Oriani, e dell'attiva partecipazione dei maggiori, come Corradini, Federzoni e tutta la pleiade degli scrittori dell'« Idea Nazionale » e, più tardi, di « Politica » diretta da Alfredo Rocco e Francesco Coppola, i quali furono tra gli uomini di maggiore ingegno e più compiuta disciplina ideale del tempo loro.

La guerra di Libia veniva decisa da Giolitti nella nuova temperie politica che i piccoli giornali, di cui abbiamo dato notizia e pullulanti in tutta la Penisola, documentavano. Tra essi non abbiamo ancora ricordato la «Terza Italia» di Roma, la «Giovane Italia» di Ancona, il «Cacciatore delle Alpi» di Varese. E ancora la «Ragione» e la «Fede nuova» che rispecchiavano gli ideali e i Principì della «Trento e Trieste » e invitavano i giovani ad andare, oltre, le coste dell'Adriatico, quelle dell'Albania e della Dalmazia.

Alcune centinaia di giovani obbedivano infine al richiamo di Garibaldi e si riunivano in camicia rossa a Grottammare: che doveva essere la nuova Quarto.

Uno di essi, Emilio Ricci di Torremaggiore, dedicava dei versi a Ricciotti Garibaldi:

« Sognammo, amici! In rigidi
volumi d'oblio sparsi,
di bellicose immagini
l'alma poté saziarsi,
innanzi ai nuovi palpiti
ogni altro amor languia! ».


Con questo animo il giovane Ricci si immolava nella grande prova della guerra mondiale, ormai prossima.

In data 28 luglio, Di San Giuliano, ministro assai stimato dal Re Vittorio Emanuele III, presentava un memoriale compilato nel riposo di Fiuggi, dove sosteneva la necessità di prepararsi all'azione bellica, sia che si volesse attuare la conquista, sia per convincere la Turchia a cedere.

Le difficoltà però venivano crescendo in campo internazionale. Si era raggiunto un accordo, dopo l'apparizione del cacciatorpediniere tedesco Panther ad Agadir, tra Francesi e Tedeschi per il Marocco. Con esso si diede soddisfazione alla Francia che, dal 1902 ci diceva che potevamo andare in Libia. Il governo di Parigi si aspettava da noi in cambio l'appoggio, che gli fu dato alla Conferenza di Algeciras, nella soluzione della questione del Marocco. Ma, una volta ottenuto il Marocco dalla Germania, la Francia non si attendeva più nulla da noi e cominciava a credere che anche la Libia potesse essere francese in presenza di un'Italia che non si decideva da due lustri a riempire quel vuoto. Il governo di Londra e quello di Pietroburgo si mostravano infedeli agli accordi con Roma.

Il 15 settembre 1911 Di San Giuliano, rivolgendosi ai suoi collaboratori della Consulta, disse: - «Notate il giorno e l'ora: in questo momento decidiamo, in seguito all'accordo fra Francesi e Tedeschi per il Marocco, la guerra di Libia! » - E, lo disse a dei collaboratori, a dei funzionari che si chiamavano Di Scalea, Della Torretta, Bordonaro e condividevano con entusiasmo le direttive politiche del Ministro.
Contemporaneamente il 20 settembre, a Roma, si svolgeva il Congresso della « Trento e Trieste », e si scioglieva, fra l'entusiasmo spontaneo dei convenuti, al grido di «A Tripoli, a Tripoli ».

Il 24 settembre 1911, il governo decideva la guerra, il 26 inviava l'ultimatum. Proprio quel giorno il maresciallo Conrad Capo di Stato Maggiore austriaco - consigliava al suo Governo, di opporsi all'azione italiana. E, se Vienna non poteva opporsi immediatamente, Conrad proponeva di fare i conti subito dopo, appena l'esercito italiano fosse impegnato in Africa.

Il 29 settembre l'Italia si trovava di fronte alla grande realtà della guerra: prima prova della nostra generazione, che doveva affrontarne ben altre.
Si viveva in tutta Italia nell'atmosfera gioiosa del cinquantenario dell'Unità. A Palermo, fin dal 1910, si era inaugurato monumento alla Libertà per ricordare l'unione della Sicilia all'Italia. Nel 1911 tre esposizioni si tennero in Italia: una a Torino delle industrie, una a Firenze per il ritratto, una a Roma per le Belle Arti; nel 1910, a Torino, si celebrarono i cento anni della nascita di Cavour. A Roma il 28 marzo si inaugurava, con l’esposizione, il monumento al Padre della Patria a Vittorio Emanuele II.

Fra parentesi: questo monumento pare oggi pesare sullo stomaco di molta gente. Si dice che è troppo bianco e che bisogna liberare l'Aracoeli, restituendo alla piazza le sue antiche dimensioni. A noi il monumento piace, e lo difenderemo come retaggio della generazione che ha conquistato Roma all'Italia.

Prevediamo che fra qualche anno si scopra (cosa possibile perché non si vede l'ombra di una manutenzione, né ordinaria né straordinaria del monumento) che esso «minaccia di crollare e costituisce un pericolo per la pubblica incolumità». Qualcuno potrebbe decidere allora di demolirlo per ricostruirlo altrove.

Penso che quando le generazioni dei combattenti del '15-'18 saranno prossime a spegnersi o spente addirittura (fisicamente, intendo, ma speriamo di sopravvivere nei giovani!)  penso che qualcosa di simile potrebbe avvenire in Roma ad opera di Governi cattolici memori del 1870 o di ministri socialisti che hanno sempre avversato la Monarchia. Ma questo appartiene all'avvenire. Per ora ricordiamo che il 28 marzo 1911 era presente a Piazza Venezia il Re. Egli disse, in quei giorni, ai sindaci di tutta Italia: «In questo Convegno nazionale, irresistibile e fervido esce dai nostri petti il giuramento di render l'Italia più libera, più felice, più rispettata nel mondo ».

Era un accenno molto esplicito agli avvenimenti che si sarebbero verificati. Intanto D'Annunziò, il grande cantore delle Laudi, abbandonava le antiche ispirazioni sensuali e visive (che avevano arricchito la letteratura italiana del Canto novo, del Piacere, della Nave e di innumeri altre opere): il poeta che avrebbe voluto sostituire le Canzoni d'Oltremare con dieci navi forgiate in acciaio, brandiva con le sue mani la fiaccola della poesia civile commessagli dal Carducci. Le Canzoni furono pubblicate sul « Corriere della Sera » dall'8 ottobre al 7 dicembre 1911.

Di San Giuliano temendo che la guerra alla Turchia avesse gravi conseguenze nei Balcani e portasse alla rottura di tutto l'equilibrio europeo, scriveva allora: - «Vivo l'incubo di una conflagrazione europea come la Terra non ne ha mai vedute di uguali ».

Quindi la guerra già si avvertiva alla guisa dei movimenti tellurici, dei cicloni, dei grandi cataclismi terrestri. Soltanto uomini eccelsi hanno il potere presagire il futuro. L'Italia, con le sue forze più giovani, si lanciava incontro all'avvenire per rivivere una età di grandezza quali aveva avute solo in tempi assai lontani.

Nel I volume dell'opera di Churchill, dedicata alla «Crisi mondiale» (opera che ha maggior valore dell'altra, più vasta sulla seconda guerra) ho letto che il 24 luglio 1914 il Gabinetto inglese era riunito a discutere l'eterno problema irlandese, il quale si trascinava da oltre un secolo.
Si discuteva ormai soltanto della estensione di due Parrocchie, la parrocchia di Felmenet e quella di Tyrou: dal loro tracciato sembrava ormai dipendere la pace fra Inglesi e Irlandesi, e quindi la responsabilità di una ripresa della guerra civile. La riunione stava per essere chiusa, in quel tardo pomeriggio, per la stanchezza di tutti i convenuti, quando arrivò un dispaccio che fu consegnato a Sir Edward Grev, Ministro degli Esteri. Questi, con flemma britannica, ma con voce grave, lo lesse al Consiglio dei Ministri. Era il documento dell’ultimatum dell'Austria alla Serbia: era l'annuncio della guerra mondiale.

In Italia il Governo di Antonio Salandra succeduto il 28 marzo del '14 al Governo Giolitti era cominciato male, con un episodio di guerra civile, spettacolo spesso ricorrente in Italia: la settimana rossa, capeggiata da uomini che poi si schierarono per l'intervento italiano a fianco della democrazia. Si erano costituite delle repubblichette comunali, si erano piantati con secoli di ritardo, gli alberi della libertà…
Sento dire spesso da molti amici: « In Italia non ci sono pericoli, non succede mai niente». E’ sono  in grave errore. L’Italia è il paese europeo più dedito alla guerra civile come è il più restio ad accettare i grandi conflitti esterni per le fortune ed il prestigio della Nazione. Queste sono verità e non mi accusate di abbandonarmi al pessimismo. Nella storia delle “Rivoluzioni d’Italia” di Giuseppe Ferrari ( che fu recensita più di un secolo fa da Ernesto Renan troviamo una dolorosa statistica: In circa un millennio ci son state nella nostra penisola 7200 rivoluzioni con settecento massacri per effetto della guerra civile”.
E’ questo forse il motivo per cui noi sentiamo più le contese intestine che i conflitti fra Potenze. Il 1Maggio del 1914 vi furono gravi lotte tra Italiani e Sloveni a Trieste e  apparve chiaro che la  polizia austriaca difendeva gli Sloveni contro gli Italiani in quella città interamente italiana.

La nostra situazione era paradossale.   Avevamo due alleati, Austria e Germania ma un unico nemico contro il quale eravamo destinati a combattere: l’alleato Austriaco.
Giuseppe Garibaldi scrisse fin dal 1877 a un suo fedele:  «Prepariamo l'Italia,   alla guerra inevitabile che essa dovrà sostenere contro l'Austria, nella quale si tratterà di essere o non essere per molti secoli». Questo era il pensiero di Garibaldi; con tutto ciò la Triplice ha potuto durare dal 1882 al 1914 come un sistema di difesa dalla grossa pressione dei Francesi e Inglesi nel Mediterraneo.

L'alleanza di Roma con gli Imperi Centrali non era che una controassicurazione.

Ma nello stesso tempo l'Italia sempre fertile di espedienti diplomatici, nel 1887 fece un patto con Francesi, Inglesi e Spagnoli per la sicurezza nel Mediterraneo, così come nel 1909 il Re Vittorio Emanuele III firmò una convenzione, in cinque punti, con lo zar Nicola II. La famosa Triplice restò per noi soltanto uno schermo difensivo, mentre pensavamo a garantirci contro le aspirazioni delle potenze marittime scese in Tunisia e in Egitto. La costante marittima è fondamentale per noi. L'Italia ha una sola possibilità di alleanza: quella con le potenze marittime, perché abbiamo 8.000 km. di coste da difendere.

Noi nel 1855 vincemmo, insieme con i Francesi e gli Inglesi, la guerra di Crimea perché eravamo alleati con le potenze marittime; nel 1915-18 abbiamo vinto, modificando il sistema delle alleanze, perché ci schierammo con le potenze marittime. Abbiamo perduto la guerra 1940-45 perché abbiamo creduto di poter rovesciare con un colpo di forza il predominio delle potenze marittime.
Il 24 luglio del 1914 si trovavano a Fiuggi, nel salotto del marchese Di San Giuliano, Salandra e l'Ambasciatore tedesco Von Flotow. Dalla Consulta un funzionario avvertì che era arrivato il testo dell'ultimatum di Vienna alla Serbia. Quel funzionario dettava l'ultimatum al telefono; mentre un Segretario, nel salotto di Di San Giuliano trascriveva e rileggeva, frase per frase, ai presenti. Tale lettura - scrive Salandra nel suo libro sulla «Neutralità» - scolorocci in viso. L'Ambasciatore tedesco esclamò: «Vraíment c'est un peu fort!».

La guerra apparve a tutti inevitabile.

Salandra ha lasciato due volumi (purtroppo non ha fatto altrettanto Sonnino) sulla neutralità e sull'intervento. Egli descrive con molta esattezza gli obblighi che noi avevamo e quelli che non avevano soprattutto in base all'articolo 7 del Trattato della Triplice.
Ma immediatamente, già nel momento in cui si prospettava il conflitto, la sua opinione era ferma su quello che si sarebbe potuto e dovuto fare.
Egli enuncia le molteplici ragioni della neutralità e poi dell'intervento a fianco dell'Intesa.

Il sentimento pubblico italiano sarebbe stato, in ogni caso, più che mai avverso ad una solidarietà con l'Austria che ci spingesse a partecipare con il sangue dei nostri soldati ad una guerra indetta da Vienna nel proprio esclusivo interesse, come stava avvenendo. Salandra ricorda i motivi che imponevano all'Italia di seguire una certa via: e non erano soltanto motivi sentimentali o storici quali l'irredentismo e la tradizione del Risorgimento.

Il sentimento pubblico tendeva ad una calma valutazione dei nostri vitali interessi. La sopraffazione della Serbia, con o senza diminuzione territoriale, il ridurla - come si voleva al vassallaggio. significava la definitiva egemonia dell'Austria e per essa la trionfale invasione del germanesimo nella penisola balcanica. Perduta per noi ogni possibilità di espansione, perduto commercialmente e militarmente l'Adriatico. In Germania, è vero, prevaleva nelle alte sfere della politica e della cultura il presentimento del tramonto e dell'inevitablie sfacelo della duplice Monarchia, condannata ormai come un organismo statale ibrido e decadente; ma i Tedeschi intendevano assicurarsene direttamente o indirettamente il retaggio, attraverso costellazioni di minori Stati asserviti all'Impero dominante e zone territoriali destinate alla più o meno totale assimilazione da parte della razza superiore.

sabato 8 agosto 2015

«L’ITALIA DEI SAVOIA SALVÒ L’AUSTRIA»

In libreria il volumetto di Waldimaro Fiorentino sulla Grande Guerra

BOLZANO. Nella sterminata libellistica comparsa in occasione del centenario della Grande Guerra, c’è anche un libricino, dall’apparenza esile ma dagli obiettivi ben chiari. L’autore è Waldimaro Fiorentino, e il titolo del libro è, con la massima semplicità, “La Prima Guerra mondiale”, edizioni Catinaccio. 
Fiorentino è uno che ha bisogno di poche presentazioni. Fare lo storico non è mai stato il suo mestiere, ma la passione per la storia l’ha accompagnato per tutta la vita, al punto che nel suo curriculum compaiono oltre 600 conferenze in tutta Italia su temi di storia contemporanea o di storia delle minoranze linguistiche. Il volumetto di Fiorentino, una sessantina di pagine in tutto, tiene a mettere a fuoco due particolari aspetti di un conflitto enormemente complesso e ricco di implicazioni economiche, politiche, strategiche, umane. 
Vediamoli. Il primo: respingere al mittente l'accusa di fellonia all'Italia per il supposto voltafaccia nei confronti della “Triplice”. L’autore ricorda che il carattere dell’alleanza era dichiaratamente difensivo e prevedeva il soccorso degli alleati solo in caso di aggressione dall’esterno. 
Inoltre il trattato prevedeva all'articolo 7 che gli alleati dovessero interpellare l’Italia prima di ogni azione militare e riconoscere al nostro Paese compensi equivalenti per ogni loro ingrandimento territoriale anche temporaneo. Inoltre una specifica clausola esonerava l’Italia da azioni di guerra dirette contro l'Inghilterra. Bene: nessuna di queste condizioni venne rispettata. 
L’Italia non fu neppure interpellata prima dell’inizio delle ostilità e di compensi l’imperatore d'Austria non volle mai sentir parlare. Dunque l’iniziale neutralità italiana aveva solide motivazioni. Di fatto lo spirito della Triplice fu tradito proprio dagli imperi centrali, non certo dal nostro Paese. 
L’altro aspetto che sta a cuore a Waldimaro Fiorentino riguarda ciò che accadde alla fine del conflitto, con l’Italia impegnata ad evitare la disgregazione dell’Austria, cosa che non viene mai ricordata. 
«L'Austria - scrive l'autore bolzanino - si incamminò volontariamente verso la sua disgregazione e furono proprio le potenze vincitrici, prima fra tutte l'Italia, a mantenerla in vita: il Vorarlberg si offrì alla Svizzera, che declinò l’offerta; l'Austria tedesca votò l'annessione alla Germania, ma l’Intesa impedì l'unione; il Tirolo offrì la Corona della regione fino a Kufstein a Vittorio Emanuele III, il quale nel rispetto degli accordi tra le potenze dell’Intesa si fermò al Brennero». 
Non solo, «L'Italia fece molto di più delle altre potenze per scongiurare la cancellazione dell’Austria dalla carta geografica; offrendosi persino di rinunciare ad alcune rivendicazioni». 
Insomma, secondo Fiorentino, se l’Austria esiste ancora lo deve al Belpaese anche se oggi, soprattutto alle nostre latitudini, nessuno ha voglia di ricordarlo. (k.c.)

venerdì 7 agosto 2015

AGLIE' - Il castello di Elisa di Rivombrosa torna a crescere: 10 mila turisti in più nel 2014

Dopo due anni con il segno "meno", sono tornati a crescere i visitatori che hanno scelto la residenza sabauda "made in Canavese" patrimonio dell'umanità



I fasti di Elisa di Rivombrosa, sia chiaro, sono distanti più di un decennio. Eppure qualcosa si muove, turisticamente parlando, al castello di Agliè. Dopo due anni con il segno "meno", nel 2014 sono tornati a crescere i turisti che hanno visitato la residenza sabauda "made in Canavese". Nel 2014 (dati ufficiali del Ministero dei beni culturali) il castello è stato visitato da 69929 turisti, contro i 59704 del 2013. 
 
Nel dettaglio sono stati 37632 i visitatori paganti e 32297 quelli non paganti (complice la prima domenica del mese gratuita). Questo ha permesso alle casse del castello di incassare circa 102 mila euro. Anche questo è un dato in crescita: l'anno scorso il castello di Elisa di Rivombrosa aveva registrato un incasso lordo di 80 mila euro. Numeri in ripresa anche se confrontati con il 2011, anno record, con 85340 visitatori. Ovvio che i dati vanno ponderati con la popolarità del castello. Negli anni d’oro, quelli della fiction «Elisa di Rivombrosa», quasi 100 mila turisti passarono per il piccolo centro del Canavese. Era, però, il 2004. 
 
Non mancano, anche oggi, le criticità. Domenica scorsa, ad esempio, con la giornata gratuita, moltissimi turisti sono rimasti in coda per un'ora per poi scoprire di non poter entrare perchè il castello ha chiuso in anticipo a causa del grande afflusso di visitatori. Effetti collaterali di un rinnovato interesse per Agliè e il suo borgo. Interesse che, però, dovrà essere gestito diversamente in futuro, altrimenti si rischia il più classico dei boomerang. E sarebbe davvero un peccato adesso che mezzo Canavese si è reso conto che il rilancio del territorio passa inevitabilmente dalla promozione turistica dei propri beni.
 
Anche in questo senso, per fortuna, qualcosa si muove. Dopo anni di progetti si sta finalmente definendo il "biglietto unico" delle regge sabaude, un unico ticket che permetterà ai turisti di tutto il mondo (in gran parte attratti dalla Reggia di Venaria) di visitare anche le altre dimore di casa Savoia, compreso il castello di Agliè, patrimonio dell'umanità Unesco. Sarà forse il 2016 l'anno buono? 

I Savoia e la Valle d'Aosta

Una serata fotografica dedicata ai Re d'Italia 
ed al loro legame con la Valle d'Aosta













Courmayeur, Martedì 11 agosto alle 21.15/ Jardin de l'Ange



domenica 2 agosto 2015

Emanuele Filiberto, il campione della Savoia

01/08/2015 di Silvia Mangano

Emanuele Filiberto Testa di Ferro
Il duca Emanuele Filiberto, ritenuto il fondatore del moderno stato sabaudo, morì nel 1580, amato dai sudditi e rispettato come illustre condottiero e sovrano da tutta l’Europa.
Emanuele Filiberto, futuro duca di Savoia, nacque l’8 luglio 1528 a Chambéry, da Carlo II di Savoia e di Beatrice di Portogallo. Il suo stato di terzogenitura lo avviò automaticamente alla carriera ecclesiastica, tanto che il papa Clemente VII già nel 1530 aveva promesso al padre del fanciullo una berretta cardinalizia e il vescovato di Ginevra – città ancora appartenente al ducato: a corte venne definito “il cardinalino” e così lo si volle ritrarre in un quadro ancora oggi conservato a Torino. Tuttavia, la prematura scomparsa di entrambi i fratelli maggiori (Adriano e Luigi) costrinse la famiglia a indirizzarlo agli studi umanistici e militari per farne un erede di tutto rispetto nel proscenio europeo, abbandonando il progetto di farne un cardinale influente alla corte del Papa.
All’epoca, il ducato dei Savoia si trovava in un’infelice posizione: incombeva, a Oriente, la presenza francese, mentre a Occidente il ducato di Milano sarebbe presto passato in mano francese e poi imperiale. Non fu certo una sfortunata coincidenza se, nell’anno della sua successione a duca di Savoia (1553), il re di Francia decise di occupare le terre sabaude: il giovane duca, infatti, si trovava sul campo di battaglia a combattere a fianco dell’imperatore.
Fu il servizio prestato agli Asburgo fin dall’età di quindici anni che permise a Emanuele Filiberto di guadagnarsi la fiducia della famiglia imperiale. Fu caro amico di don Juan, il figlio naturale dell’imperatore che sconfisse i turchi a Lepanto, e per le doti strategiche e militari divenne comandante dell’Armata di Fiandre, a cui seguì nel 1556 il titolo di governatore.
Esiliato dalla propria patria, il Savoia servì tenacemente gli Asburgo nella speranza, una volta conclusa la guerra in corso da più di dieci lustri, di rientrare in possesso del ducato. Ciò avvenne soltanto nel 1559, alla stipulazione della pace di Cateau-Cambrésis, tramite cui i rispettivi sovrani di Francia e Spagna, Enrico II e Filippo II, si promettevo di cessare le ostilità. A garanzia della pace vennero strette salde unioni matrimoniali tra i due regni, unioni in cui fu compreso anche Emanuele Filiberto. Gli venne concesso di ritornare in possesso di quasi tutti i territori sabaudi – Ginevra, ormai protestante, entrava a far parte della confederazione svizzera –, solo e soltanto qualora avesse sposato Margherita di Valois, sorella di Enrico II e più vecchia del Savoia di cinque anni.
Tornato dall’esilio, trasferì la capitale a Torino e avviò una serie di riforme che traghettarono il ducato verso la modernizzazione dell’apparato statale. Centralizzò il governo e unificò il sistema finanziario, abolendo gli statuti cittadini e feudali che fino ad allora avevano garantito una certa disomogeneità amministrativa; abolì il latino come lingua ufficiale e preferì il volgare nei territori piemontesi e nel contado di Nizza e la lingua francese nei territori a ovest delle Alpi. Riuscì, inoltre, a costituire un esercito locale, che andò a sostituire quello di ventura (utilizzatissimi da tutti i sovrani dell’epoca) e che si ritagliò un piccolo spazio sul glorioso podio che spettò ai vincitori della battaglia di Lepanto (1571). In ambito religioso, attuò le riforme chieste dal Concilio di Trento, ma fu estremamente benevolo con la minoranza valdese all’interno del ducato, a cui concesse una forma di libertà di culto con la pace di Cavour (1561), considerato uno dei primi documenti da parte di un’autorità secolare concedenti libertà religiosa nell’Occidente europeo.
Il duca Emanuele Filiberto, ritenuto il fondatore del moderno stato sabaudo, morì nel 1580, amato dai sudditi e rispettato come illustre condottiero e sovrano da tutta l’Europa.

sabato 1 agosto 2015

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

La decima parte dell'intervista di Nino Bolla del 1949.
Il Re, preveggente, si rende conto dei "regionalismi" e  lascia trasparire qualche preoccupazione.


http://www.reumberto.it/bolla0.htm