NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 1 marzo 2016

Italia 1915-1918: l’economia e la finanza. Riflessioni su una guerra che doveva durare poco

Dalla conferenza tenuta al Circolo di cultura ed educazione politica Rex il 14 febbraio 2016

di Salvatore Sfrecola

C’è un dato che accomuna un po’ tutte le guerre, la previsione, alla vigilia, che sarebbero durate e costate poco. Così la prima guerra mondiale, così la seconda. Previsioni basate, nel 1914, sull’esperienza delle guerre dell’Ottocento, tutte di pochi mesi, al massimo un anno. Nel 1866 da guerra dell’Italia e della Prussia contro l’Austria, iniziata a giugno, era finita ad agosto. In precedenza la seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, aveva impegnato gli eserciti da aprile a luglio, la prima (1848) da marzo ad agosto. Tutte guerre combattute con l’impiego di molti uomini a piedi ed a cavallo e un po’ di artiglieria da campagna.
Nel frattempo la guerra era cambiata. In America, la guerra di secessione aveva visto in campo in modo massiccio una nuova arma, la mitragliatrice, che aveva decretato la fine della cavalleria e degli assalti all’arma bianca, tipici delle guerre napoleoniche. Contemporaneamente ad un impiego sempre più massiccio dell’artiglieria non più solamente ippotrainata ma trasportata da treni dai quali spesso era utilizzata per colpire le linee nemiche e, ove possibile, da pontoni, lungo i fiumi ed in vista delle coste.
In quella guerra aveva esordito anche il mezzo aereo, sia pure in forma di mongolfiere, per scrutare dall’alto l’esercito avversario e così indirizzare il tiro dell’artiglieria ed il dispiegamento dei reparti. Un uso che aveva sperimentato anche il Corpo di spedizione italiano in Libia nel 1911.
Ma, si sa, spesso si dimentica presto.
Solamente inglesi e tedeschi avevano previsto una strategia di più ampio respiro, peraltro prevalentemente marinara, tanto da attuare già da anni un progressivo potenziamento della flotta, i primi per garantirsi il controllo del mare ai fini dei necessari approvvigionamenti di materie prime e di derrate alimentari, i secondi per isolare il Regno Unito ed impedire quegli approvvigionamenti. Intanto, gli uni e gli altri, più di Francia e Italia avevano potenziato le industrie metalmeccaniche nazionali nei settori strategici a fini militari e civili, anche per non dipendere dall’estero, in particolare da paesi che potevano schierarsi dalla parte opposta.
Inoltre doveva essere evidente ai governi europei che la guerra, com’era accaduto in America, non sarebbe stata alimentata da requisizioni nei territori occupati e dal bottino, cui tutti erano ricorsi in passato, ma avrebbe richiesto un rilevante impegno finanziario a causa dell’esigenza di sviluppare un’industria degli armamenti sempre più costosa, e misure, anche di carattere tributario, per acquisire le risorse necessarie, regolare l’economia in genere e venire incontro alle esigenze della popolazione civile.
La guerra dunque era cambiata nel 1914, ma pochi se ne erano accorti negli stati maggiori e nei governi. Con la conseguenza che un po’ tutti gli eserciti entrarono nel conflitto con una preparazione assolutamente inadeguata, quanto all’armamento individuale e dei reparti, all’abbigliamento, ai mezzi di trasporto divenuti essenziali, a cominciare dai treni. In Italia solamente la Marina, comandata dall’Ammiraglio Thaon di Revel aveva adottato mezzi nuovi e studiato strategie adatte al prevedibile conflitto. Si penso all’uso del M.A.S., il motoscafo antisommergibile, che infliggerà pesanti perdite all’imperial regia marina austro-ungarica.
L’impreparazione degli eserciti è apparsa palese, fin dai primi mesi di guerra, sui campi di battaglia francesi che presto si coprirono dei corpi dei fantaccini, ancora con le divise blu e rosse dell’800, falciati dalle mitragliatrici tedesche che non avevano difficoltà ad individuare le uniformi colorate di soldati che, tra l’altro, non avevano ancora un elmetto.
Se i generali francesi erano rimasti all’Ottocento ed alle tattiche che in quelle battaglie ancora si giustificavano, anche il nostro Comando supremo non aveva percepito le novità, tanto che Cadorna, il 25 febbraio del 1915, teorizzava con la circolare 191 assalti all’arma bianca e il successivo impiego della cavalleria (sarebbe divenuto un volumetto do sessantadue pagine dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”). Con il risultato di quelle inutili carneficine delle quali impietosamente ci danno conto i filmati dell’epoca, stragi assurde davanti ai reticolati presidiati dalle mitragliatrici. Come nel famoso film “Orizzonti di gloria” con Kirk Douglas, un bravo colonnello francese costretto da un generale incapace ad assaltare una collina irta di mitragliatrici tedesche.
Sul campo, tuttavia, rifulge il sacrificio e l’eroismo dei combattenti e, impietosamente, è sempre più evidente l’inadeguatezza del Comando supremo fino alla rotta di Caporetto (24 ottobre 1917) la cui responsabilità Cadorna cercò di addebitare ai soldati (“Gli uomini non si battono, non hanno abbastanza slancio”). Il governo lo corresse e il bollettino fu modificato (“La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni reparti della Seconda armata…). L’8 novembre 1917 il Re ne chiese le dimissioni.
Abbiamo ancora memoria dei nomi e del ruolo dei comandati delle armate schierate e delle divisioni sotto l’occhio vigile di Vittorio Emanuele III, che per questa sua costante presenza al fronte si è guadagnato l’appellativo di “Re soldato”. Del quale ricordiamo anche la determinante presenza a Peschiera dove rivendicò il valore dei “suoi” soldati dinanzi agli alleati perplessi sulla nostra capacità di resistenza dopo la crisi dell’ottobre 1917.
Con il nuovo Comandante cambia tutto. Armando Diaz si mostra subito un generale moderno, capace e attento alle esigenze dei suoi uomini, al loro armamento, al vestiario, al morale, in continua intesa con il Re (che con Cadorna aveva avuto un rapporto solo formale) e con le autorità politiche a Roma. Riuscirà presto a riordinare i reparti ed a definire nuove modalità di impiego portando le armi italiane alla vittoria. Non a caso Diaz è stato paragonato all’americano Eisenhower, un grande organizzatore che consentirà, nella seconda guerra mondiale, alle armate angloamericane di imprimere una svolta decisiva al conflitto dopo quattro anni di combattimento organizzando lo sbarco di centinaia di migliaia di uomini e migliaia di mezzi in Normandia.
All’esordio delle operazioni militari nel maggio del 1915 l’esercito aveva scontato antiche e più recenti trascuratezze e la disattenzione dei governi. Significativa, al riguardo, una considerazione di Luigi Einaudi: “era mancato un Cavour”. Colui che aveva preparato il piccolo Piemonte alla occorrenza, potenziando l’esercito, l’industria militare e le comunicazioni, senza trascurare l’intera economia del Regno di Sardegna e il benessere delle popolazioni.
Infatti, l’economia di guerra, quella strategia economico-finanziaria che prende in considerazione tanto il finanziamento delle spese militari quanto le esigenze della popolazione civile, è parte dell’economia generale e assume il complesso delle iniziative occorrenti in un difficile, ma necessario, impegno di un’intera Nazione. Anzi immagina per tempo ogni tipo di esigenza, anche curando l’industria di più agevole adeguamento alle esigenze dell’impegno militare, così preparando un intero paese a soddisfare i bisogni delle sue forze armate mediante la loro organizzazione secondo le esigenze di tempo e di luogo, dal vestiario all’armamento, avendo presenti le tecniche di combattimento note e quelle prevedibili sulla base della evoluzione dell’industria degli armamenti e meccanica. Tenendo presente che prevedibilmente la guerra avrebbe richiesto importanti innovazioni tecnologiche e l’uso di mezzi di trasporto nuovi. Sia per le truppe che per il traino dei cannoni. Anche le ferrovie entreranno, dunque, nel conflitto per le esigenze degli approvvigionamenti di materiale bellico, di sostentamento delle truppe e assistenza (si pensi ai treni ospedale) e della popolazione civile.
Economia di guerra significa, infatti, “preparare animi e mezzi, fin dal tempo della pace” (G. Stammati), immaginando ed adottando all’occorrenza e con i tempi utili un complesso di misure volte a finanziare l’impegno militare attraverso prestiti, interni ed internazionali, ed imposte, per acquisire risorse e regolare i consumi privati, in alcuni casi attraverso calmieri in relazione alle esigenze delle popolazioni cittadine e delle campagne.
Nulla, invece, era stato pianificato, pur essendo già allora evidente che era tramontato per sempre il tempo nel quale le guerre si sostenevano con limitate risorse materiali, finanziate prevalentemente con le entrate fiscali.
Pesarono sui ritardi nella preparazione alla guerra la debolezza del governi e l’incertezza delle maggioranze parlamentari.
Illuminanti, in proposito, le parole di Antonio Salandra, il Presidente del Consiglio che preparò l’ingresso dell’Italia in guerra (nel suo libro L’intervento) il quale descrive, con accurato puntiglio, l’affannosa ricerca del necessario al momento della mobilitazione. La insufficiente dotazione di mezzi di ogni genere, dal vestiario agli armamenti, in una condizione dell’industria italiana di grande arretratezza. In particolare, l’Italia era dipendente dall’estero per l’artiglieria, che veniva fornita dalla tedesca Krupp, ma anche per bende e medicinali per il Servizio Sanitario, oltre che per il frumento. Mancavano medici e infermieri, esigenze in parte soddisfatte dalla Croce Rossa Italiana e dalle unità del Sovrano Militare Ordine di Malta. Mancavano ingegneri ed architetti per l’artiglieria da fortezza, per il genio e per gli stabilimenti di costruzioni e riparazioni. Mancavano i cavalli per la cavalleria e per il trasporto dei cannoni. Dovemmo comprarli negli Stati Uniti, con non poche difficoltà nel trasporto.
Tuttavia va dato atto che il Paese si è poi mobilitato con grande impegno, attuando un’enorme riconversione industriale (nel 1917 la produzione dell’Italia in alcune categorie di armi era già diventata imponente scrive D. Stevenson, La Grande Guerra, Corriere della Sera, 2014, Vol. I, 392). In quel contesto emersero “uomini politici, alti burocrati e imprenditori in grado di trovare soluzioni per problemi del tutto nuovi” (La Banca d’Italia e l’economia di guerra 1914-1919).
La guerra ha avuto da subito un costo elevato. Per ogni arma, per ogni pallottola o bomba. Il soldato doveva essere pagato, anche se poco, vestito e nutrito e trasportato avanti e indietro dal fronte; curato, se ferito o malato. Alle famiglie dei soldati erano assegnate indennità, gli invalidi e le vedove avevano bisogno di sostentamento, come le migliaia di rifugiati. Poiché per fortuna gran parte della popolazione viveva sopra il livello minimo di sussistenza poté essere dirottata dagli scopi civili a quelli militari una maggiore percentuale delle entrate pubbliche rispetto alle guerre precedenti.
Il costo della guerra non ebbe un andamento uniforme durante i quattro anni del conflitto. Nel 1915 le spese belliche furono pari, grosso modo, all’aumento del prodotto interno lordo. Il 32 nel 1916, il 40 nel 1917, il 46 nel 1918.
Il totale delle spese raggiunse, dall’esercizio 1914-15 al 1918-19, 75.707 milioni di lire a prezzi correnti e il debito 51.471 milioni (68,0 per cento del totale dell’incremento delle risorse finanziarie), a fronte di 12.312 milioni di lire per le entrate tributarie pari al 16,3 per cento delle risorse finanziarie. Il 15,8 per cento ha riguardato la circolazione di Stato e la circolazione bancaria a favore dello Stato.
L’indebitamento interno ed estero fornì circa i due terzi delle nuove risorse necessarie. Si ricorse per la sottoscrizione anche a sollecitazioni morali. Einaudi si chiedeva “chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria?” Fu convogliato sui prestiti circa il 30% del reddito nazionale.
L’Italia chiese un prestito di 50 milioni di sterline sulla piazza di Londra, una somma limitata, perché il Governo non voleva che si indebolisse il nostro potere contrattuale nei negoziati territoriali che, definiti nel memorandum di Londra, dovevano essere confermati al momento della pace.
 “Troppi furono gli errori inutili e le improvvisazioni”, è il lapidario giudizio di Einaudi, in materia economica e finanziaria. Tardive e a volte confuse, soprattutto le scelte fiscali, spesso con effetti nulli o contrari a quelli programmati. Come per le imposte sui sovraprofitti di guerra, che favorirono la creazione di impianti inutili e spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile.
Non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte e si dovette perciò ricorrere all’emissione di carta moneta, il metodo più semplice. Una scelta che apparentemente non costa nulla, almeno immediatamente, allo Stato. Ma fu la causa del deprezzamento della lira. La circolazione passò, infatti, dal 1914 al 1918 da 2 a 12 miliardi, con un tasso di inflazione che fu tra i più alti dei paesi belligeranti.
Altre misure furono azzardate. Come il dazio sul frumento, inutile dovendosi utilizzare in farina. E fu abolito. Poi il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento ritenne di dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico, con perdita per l’erario.
Dalla parte della domanda le spese ingenti dello Stato determinarono una maggiore offerta di beni necessari alla guerra, che si traducessero in maggiori salari e maggiori profitti dei produttori e in maggiori interessi dei risparmiatori, e maggiori prezzi.
Ne risentirono le condizioni di vita delle popolazioni che peggiorarono progressivamente, per l’inflazione che falcidiava stipendi e salari e innalzava il costo della vita (già alla fine del 1916 i prezzi dei generi alimentari di prima necessità erano cresciuti del 50%). Le condizioni materiali differivano a seconda che la popolazione risiedesse nelle città o nelle campagne, dove, a prezzo di non pochi sacrifici, i membri delle famiglie contadine riuscirono a supplire ai vuoti lasciati da coloro che erano partiti per il fronte ed a non far diminuire di molto il precedente tenore di vita, anche se i calmieri e le requisizioni a prezzi non remunerativi produssero ingenti danni ai produttori. La situazione era comunque diversa da regione a regione. Nel Sud le condizioni peggiorarono nettamente-anche per effetto dell’emigrazione
Nelle città il livello di vita era assai più basso a causa della carenza di prodotti e dell’aumento dei prezzi, per cui i consumi crollarono drasticamente, soprattutto a partire dal secondo anno di guerra. Tra il 1917 e il 1918 in alcune città le quantità di pane furono ridotte anche sotto il 200 grammi al giorno. Aumentarono la mortalità infantile e le malattie polmonari. Diminuì la natalità. Le condizioni di vita si avvicinarono pertanto più a quelle degli imperi centrali, ridotti quasi alla fame dal blocco navale della flotta britannica, che non a quella dei paesi alleati occidentali.
Delle difficili condizioni di vita nelle città risentirono fortemente anche le classi medie il cui tenore di vita si livellò verso il basso, per avvicinarsi sempre più a quello di alcuni settori specializzati della classe operaia. Peggiorarono le condizioni dei professionisti, molti dei quali videro fortemente ridotta la propria attività, e le cui famiglie, in caso di richiamo al fronte, dovevano accontentarsi di una retribuzione il cui livello, per gli ufficiali di complemento, rimase sempre assai basso. Furono, invece, favoriti dall’economia di guerra industriali e commercianti che si giovarono del repentino aumento dei prezzi (oltre che, non di rado, delle opportunità di guadagno attraverso il mercato nero). Naturalmente non mancarono gli illeciti arricchimenti di industriali senza scrupoli, frodi e corruzione.
Quanto alla condizione della classe operaia, sebbene l’accresciuta richiesta di lavoro avesse assicurato un salario certo, le retribuzioni rimasero sempre molto basse e falcidiate nel potere d’acquisto.
La necessità di manodopera portò nelle fabbriche e nei servizi le donne che alla fine della guerra raggiunsero quasi le 200.000 unità. È famosa nell’iconografia di quegli anni la guidatrice tram. Importante, altresì, l’opera di assistenza attuata nelle città dai comitati femminili.
L’atteggiamento popolare verso la guerra, dopo un primo periodo di tranquillità grazie al riassorbimento totale della disoccupazione, mutò con l’approssimarsi dell’inverno 1916. Tutta la penisola fu interessata da una serie di manifestazioni popolari, a cominciare dalle campagne, protagonisti le donne, i vecchi ed i ragazzi, quasi sempre per motivi contingenti, dal ritardo nella devoluzione del contributo statale alla mancanza di pane, più tardi alle requisizioni. Alcune manifestazioni furono violente: scontri con le forze dell’ordine, saccheggio di forni o altre forme di ostilità nei confronti del governo, come aggressioni alle case dei notabili e invasioni di municipi.
Dopo Caporetto ed un primo smarrimento il Paese reagì con grande impegno. La “cura Diaz” ristabilì fiducia tra soldati e popolo e l’effetto fu evidente ben presto. L’esercito riprese i territori abbandonati sotto la spinta degli austro-tedeschi e giunse Vittorio Veneto.
15 febbraio 2016


·   Dalla conferenza tenuta al Circolo di cultura ed educazione politica Rex il 14 febbraio 2016

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