NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 22 marzo 2017

LA FIGURA DI «BISAGNO» NELLA RINASCITA DELL’ITALIA

Aldo Gastaldi, Medaglia d’Oro, primo Partigiano d’Italia


Pubblichiamo il testo della conferenza che il giornalista e storico Luciano Garibaldi ha svolto domenica 19 marzo 2017 al Circolo REX, in via Marsala 32, a Roma. La vicenda ricostruita e narrata da Garibaldi, autore di oltre quaranta libri divulgativi di storia contemporanea, si inquadra nell'imminente anniversario del 25 Aprile 1945, giornata conclusiva della seconda guerra mondiale e della guerra civile in Italia. Sull'argomento, Luciano Garibaldi, indagando sulle molte ombre che ancora oscurano quella fatale data, ha scritto, tra gli altri, il libro «I Giusti del 25 Aprile. Chi uccise i partigiani eroi», Ares, Milano, 2005.


di Luciano Garibaldi


Sono molti gli episodi oscuri della guerra di liberazione. E basterebbe ricordare il film “Porzus” di Renzo Martinelli, che ricostruisce il massacro di 17 partigiani cattolici della Brigata Osoppo attuato dai gappisti del Partito Comunista per favorire le pretese di Tito sulle terre italiane orientali. Io prenderò lo spunto dal mio libro «I GIUSTI DEL 25 APRILE», dedicato alle attività militari, e alle circostanze della morte (tuttora non chiarite) di tre Eroi della guerra di Resistenza, Caduti in Lombardia:
- il tenente di artiglieria MOVM Aldo Gastaldi «Bisagno», comandante della mitica Divisione ligure «Cichero», che combatté tra la Liguria e l'Emilia;
- il capitano MBVM Ugo Ricci, ufficiale degli Autieri che, dopo l'8 settembre 1943, creò il movimento partigiano nella Val d'Intelvi, in provincia di Como, e cadde con i suoi uomini durante l'assalto alla caserma delle Brigate Nere di Lenno (Lago di Como), ove si trovava il ministro dell'Interno di Salò Buffarini-Guidi, nel tentativo di catturarlo per scambiarlo con i suoi compagni prigionieri. Ma non cadde perché colpito dai fascisti, bensì da un gruppo di partigiani comunisti comparso alle sue spalle, e inviato sul posto dai capi comunisti della Resistenza, che non tolleravano il suo modo umanitario di condurre il confronto con i fascisti.
- Terzo “Giusto del 25 Aprile”, il tenente colonnello dei Reali Carabinieri MAVM Edoardo Alessi, comandante della Prima Divisione Alpina Valtellina, autore di leggendarie imprese contro i tedeschi, e anch’egli misteriosamente raggiunto da colpi d’arma da fuoco all’indomani della Liberazione, mentre stava recandosi al suo comando da dove aveva deciso di interrompere anche con la forza le uccisioni in massa dei fascisti che si erano arresi.
La storia dei tre comandanti della Resistenza presenta una caratteristica comune: essi furono uniti dal fatto di essere tutti ufficiali del Regio Esercito, monarchici, non comunisti e dal fatto che non fecero in tempo a godere il frutto del loro valore perché morirono «al momento giusto»: «Bisagno» finito sotto le ruote di un camion mentre riportava a casa, ai loro genitori, a Desenzano, i ragazzi fascisti della Monterosa che avevano smesso di combattere a fianco dei tedeschi per passare ai suoi ordini; Ricci perché ucciso da una raffica alla schiena unitamente ai suoi più fedeli collaboratori; Alessi perché caduto in una dubbia imboscata «fascista» il 25 aprile, ossia proprio nel giorno in cui i fascisti erano in rotta in tutta la Lombardia.
Ma l’oggetto e il protagonista del nostro incontro è Aldo Gastaldi, giustamente passato alla storia come “primo partigiano d’Italia”. L’8 settembre 1943, all’annuncio della resa dell’Italia, Aldo Gastaldi, genovese, classe 1921, è sottotenente del 15° Reggimento Genio di stanza a Chiavari, riviera ligure di levante. In breve, la caserma è circondata da autoblindo e carri tedeschi che intimano la resa. Gastaldi, con una diecina di soldati a lui fedelissimi, riesce a fuggire attraverso un cunicolo sotterraneo, dopo essersi caricato di armi, e raggiunge il paesino di Cichero, sulle alture del Chiavarese, dove ha un amico fidato, il parroco don Attilio Fontana. Don Fontana diventerà poi cappellano della prima formazione armata della Resistenza che, al comando di Gastaldi, prenderà il nome di «Divisione Cichero» (in omaggio al paese che ha accolto i primi soldati ribellatisi ai tedeschi), trasformandosi in una imbattibile unità combattente, autentico mito della Resistenza in Liguria e sull’appennino ligure-emiliano (province di Genova e Piacenza).
La qualifica di “primo partigiano d’Italia” che, da allora, identifica Aldo Gastaldi, non significa che egli sia stato il primo militare ad opporsi all’intimazione di resa dei tedeschi. Ed è sufficiente ricordare eventi drammatici come la battaglia di Porta San Paolo, a Roma, che vide combattere contro i tedeschi i Granatieri di Sardegna, i Lancieri di Montebello e il Genova Cavalleria. Oppure il sacrificio del generale Ferrante Gonzaga, che a Salerno si oppose, impugnando la pistola, all’intimazione di resa rivoltagli dai tedeschi e fu ucciso a raffiche di mitra. Per non parlare dei quasi duemila morti della Divisione Acqui, a Cefalonia, e della resistenza opposta dalle nostre truppe di stanza in Corsica. Sicuramente, episodi che onorano l’Italia, ma che si conclusero, purtroppo, con la sopraffazione dei nostri soldati ad opera dei tedeschi.
Aldo Gastaldi, invece, riuscì a sottrarsi allo scontro armato e fu il primo a dar vita ad una formazione militare agguerrita e temuta dal nemico, che avrebbe dato filo da torcere ai tedeschi da quell’8 settembre fino al termine del conflitto. Appunto, la Resistenza. Ben presto, a Cichero affluirono soldati inglesi e australiani fuggiti dal campo di prigionia di Cicagna, nonché numerosi soldati italiani che non intendevano arrendersi ai tedeschi, ma continuare a combattere in nome del Re.
La voce corre tra le vallate. Unità fasciste tentano alcuni assalti ma vengono respinte. I componenti la «Cichero» si attengono ad una sorta di regolamento non scritto ma conosciuto a memoria da tutti gli uomini di «Bisagno». Un regolamento che sarebbe passato alla storia come il «codice di Cichero». Eccone i punti salienti:
- ogni comandante di gruppo (commissari, intendenti, comandanti di distaccamento) è eletto dalla base;
- ogni nome di paese, montagna, vallata viene cambiato, per confondere eventuali infiltrati-spie;
- è severamente proibito toccare le donne che non lo desiderano;
- ogni rifornimento alimentare richiesto ai contadini va pagato;
- i comandanti devono dare l’esempio a tutti i partigiani (ecco, su questo tema, un brano della direttiva di «Bisagno»: «Il capo mangia sempre per ultimo, sceglie per ultimo la sua parte, beve per ultimo alla fonte o alla bottiglia, fa di notte il turno più pesante»);
- sono rigorosamente vietati bestemmie e turpiloquio.
«Bisagno», da sempre cattolico convinto e osservante, aveva scritto in proposito, in una direttiva ai suoi uomini: «La bestemmia è, per chi crede, una abiezione e, per chi non crede, una stupida inutilità. In ogni caso è simbolo di pervertimento. Ad impedirla e punirla devono provvedere i commissari politici». In ordine alla fede religiosa di Gastaldi, vale riportare il seguente aneddoto che mi fu riferito dal figlio del partigiano Roberto Pisotti, nella cui abitazione a Barchi, in alta Val Trebbia, provincia di Piacenza, «Bisagno» si era recato il giorno di Natale 1944. Vicino alla casa di Pisotti c’era una piccola fontana completamente ghiacciata. Lui voleva andare a Messa e ricevere la Comunione. Ruppe il ghiaccio e si lavò il busto e il viso per presentarsi pulito alla Messa di Natale.
A partire dal gennaio 1944, ha inizio una serie di azioni militari che ben presto procurano a «Bisagno» (il suo nome di battaglia, preso a prestito dal torrente che scende dalle montagne e attraversa Genova) e ai suoi uomini la fama di invincibili. Gastaldi riesce quasi sempre a costringere alla resa il nemico, sia esso «repubblichino» o tedesco, senza colpo ferire.
Ma il suo capolavoro rimarrà per sempre il «recupero» alla guerra di liberazione di una importante unità della Divisione Alpina «Monterosa» il Battaglione «Vestone», che aveva all’attivo una brillante tradizione militare risalente alla Prima Guerra Mondiale.
La «Monterosa» era una delle quattro Divisioni delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, formate in Italia dai ragazzi di leva e addestrate in Germania. Il Battaglione «Vestone» era impegnato sull’appennino ligure-emiliano. In più occasioni «Bisagno», travestito da alpino, si era intrufolato nei ranghi della formazione per sondare le possibilità di defezione dei ragazzi con i fasci alle mostrine. Alcuni alpini lo avevano subito seguito, altri erano rimasti nella formazione come suoi informatori e propagandisti. E finalmente, dopo una serie di incontri segreti con gli ufficiali della formazione, l’intero Battaglione, con alla testa il suo comandante, maggiore Cesare Paroldo, il 4 novembre 1944, data simbolica perché anniversario della vittoria italiana del 1918 sugli austro-tedeschi, era entrato a far parte della Divisione «Cichero» con armi, salmerie, carriaggi e radio da campo: caso unico durante tutto il corso della guerra civile, ufficializzato con questo solenne ordine del giorno della Divisione «Cichero»: «Stamani, nell’anniversario dell’armistizio che l’Italia ha imposto all’esercito austro-ungarico e tedesco nella Grande Guerra, il Battaglione alpino “Vestone” è passato al completo nelle file della terza Divisione Garibaldina “Cichero”. Gli Alpini hanno così ritrovato la vera Italia, quell’Italia nostra e onesta che combatte sui monti per la sua libertà. Il Comando della terza Divisione Garibaldina “Cichero” saluta gli Alpini del Battaglione “Vestone” e plaude al loro gesto, alla ritrovata fraternità nel nome dell’Italia».
La reazione da parte fascista era stata sottotono, un po’ per lo smacco subito, un po’ per non dare troppo rilievo alla faccenda che forse era meglio passare sotto silenzio. Non così da parte tedesca. Reparti di SS e di fanti partiti dal Piacentino sferrarono numerosi attacchi alla zona «tenuta» dalla «Cichero», ma con esiti catastrofici. Ai primi di dicembre gli uomini di «Bisagno» vinsero la battaglia di Ponte Organasco (Piacenza) contro una Compagnia tedesca che fu posta in fuga senza alcuna perdita da parte italiana. Alcuni giorni dopo, i tedeschi ci riprovarono con tre Compagnie, ma dovettero battere in ritirata.
Ma neppure il comando delle Divisioni “garibaldine” aveva gradito il tono con cui “Bisagno” aveva accolto come fratelli gli alpini della “Monterosa”. Infatti, il CVL (Corpo Volontari per la Libertà) predicava non la pacificazione con i fascisti ma il loro sterminio. E fu l’inizio di un’aspra contrapposizione tra gli uomini di «Bisagno» e quelli con il fazzoletto rosso al collo, culminato in un confronto a mani armate che non si concluse nel sangue solo per la ferma condotta di Gastaldi
Accadde ai primi di marzo del 1945, allorché il comandante della Sesta Zona Anton Ukmar «Miro» decise di spaccare in due tronconi la «Cichero. «Miro», di origine slava, era un comunista integrale, direttamente gestito dal Partito e, attraverso questo, da Mosca. Aveva all’attivo non solo la guerra di Spagna, combattuta con le formazioni dipendenti da Luigi Longo, ma addirittura la guerriglia anti-italiana in Africa Orientale, dove, dopo l’ingresso delle truppe di Mussolini ad Addis Abeba, aveva comandato numerose bande di terroristi abissini. «Miro» non poteva tollerare il conclamato anticomunismo di «Bisagno» specialmente dopo che Gastaldi aveva posto un deciso alt anche per iscritto alla penetrazione dell’ideologia e dei piani insurrezionali comunisti tra i suoi uomini. Il contrasto politico era culminato nella decisione di “Bisagno” di non presentarsi ad una riunione convocata da “Miro”.
La reazione non si fece attendere. Il comandante della Sesta Zona richiese l’intervento del Comando Regionale del Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria, che inviò a Carrega, dove operava «Miro», due plenipotenziari, Carlo Farini ed Errico Martino. Fu presa una drastica decisione: «Bisagno» non avrebbe più potuto esercitare alcuna funzione di comando e anzi sarebbe stato estromesso dalla Resistenza e rimandato a casa.
Venne così convocata a Fascia, per la mattina del 7 marzo, una riunione di tutti i comandanti delle Brigate della Sesta Zona. Questa volta fu «Bisagno» a decidere di partecipare e fin dal primo momento il clima divenne incandescente per le durissime accuse rivolte dal giovane genovese al «veterano» slavo: accuse di incompetenza tattica, di gravissimi errori militari che avevano portato alla morte di numerosi partigiani. La riunione era iniziata da poco, e «Miro» non aveva ancora avuto il tempo di ribattere a «Bisagno», quando fece irruzione nel salone un gruppo di partigiani della “Cichero”, armi spianate, comandati da Elvezio Massai «Santo». Erano gli uomini del distaccamento «Alpino», confluiti a Fascia assieme ai compagni del distaccamento «Vestone» (gli ex alpini della «Monterosa» passati con «Bisagno»). In totale, un centinaio di giovani armati fino ai denti. Mentre gli uomini del «Vestone» circondavano il piccolo centro montano, quelli dell’«Alpino» tenevano sotto il tiro dei mitra i comandanti partigiani comunisti e le loro scorte.
Trascorsero interminabili minuti. I comandanti di Brigata avevano gli occhi sbarrati, «Bisagno» aveva le mascelle contratte, mentre nessuno si azzardava ad estrarre la pistola, nel timore che gli uomini di «Santo» aprissero il fuoco.  Poi, il primo a infrangere quel silenzio di ghiaccio fu Stefano Malatesta «Croce», comandante della Brigata «Jori», da cui dipendevano sia l’«Alpino», sia il «Vestone». Dunque, il diretto superiore di «Santo».
«Croce», paonazzo in volto, era letteralmente fuori si sé. Le parole gli uscivano dalla gola con un sibilo. «Ciò che sta accadendo è inconcepibile», iniziò, e proseguì - aumentando via via il tono della voce fino ad urlare - con l’aperta accusa a «Santo» di fascismo e di meritare la condanna a morte per quello che aveva osato fare. In un attimo, scattarono gli otturatori. A questo punto fu «Bisagno» ad intervenire ordinando ai suoi uomini: «Abbassate le armi!». Bene o male, si ristabilì un clima di normalità. Al fedelissimo Elvezio Massai bastò un’occhiata del suo comandante “Bisagno” per fare un cenno eloquente agli uomini: «Rimettete le armi in spalla, uscite dal locale e lasciate che la riunione si svolga senza intoppi!»
E la riunione si concluse con il classico compromesso all’italiana. «Bisagno» accettò la costituzione della «Pinan Cichero» al comando di Aurelio Ferrando «Scrivia», non particolarmente vicino ai comunisti ma assolutamente alieno dal contrastarli. Sta di fatto che, da quel giorno, “Bisagno” prese l’abitudine di dormire ogni notte con la pistola sotto il cuscino non per paura dei nazi-fascisti ma dei partigiani comunisti.
«Bisagno» morì, ventiquattrenne, mentre riportava a casa, per restituirli alle loro famiglie, i ragazzi del «Vestone». Sulla strada costiera del lago di Garda, cadde dal camion sul quale viaggiava e – così narra la vulgata – fu schiacciato dalle ruote. Ma 60 anni dopo, il suo cugino e compagno di battaglie Dino Lunetti, in una intervista concessa al mio collega e collaboratore Riccardo Caniato, e pubblicata nel mio libro «I Giusti del 25 Aprile», ha demolito tale versione fornendone una molto più verosimile: avvelenato con una sostanza mortale. Infatti, la vulgata che ancora oggi tiene banco sui libri di storia che parlano di lui, ci racconta che “Bisagno” era seduto sul tetto della cabina di guida del camion con il quale aveva riportato alle loro case i suoi ragazzi, e cantava una canzone di guerra, quando il veicolo dovette affrontare una curva improvvisa e Gastaldi perse l’equilibrio cadendo sull’asfalto, finendo sotto le pesanti ruote del mezzo, e rimanendo ucciso sul colpo.
Ebbene, Lunetti, accorso in lacrime per vedere la salma del cugino, esposta al Circolo Ufficiali di Genova, constatò che il torace era integro, e si avvide che, ad intervalli regolari, un medico partigiano praticava iniezioni continue alle braccia del cadavere. Perché? Per eliminare ogni traccia del veleno, quasi certamente nascosto in qualche bevanda assunta da “Bisagno” durante quella fatale trasferta sul Garda. Purtroppo, non venne mai eseguita l’autopsia, anche perché nessuno, in quei giorni, poteva neppure lontanamente immaginare i capi del CLN capaci di un così vigliacco crimine.
Quando il mio libro «I Giusti del 25 Aprile» arrivò nelle librerie, silenzio di tomba da parte dei grandi organi d’informazione, per non parlare della TV, soprattutto sulla rivelazione di Dino Lunetti. Ma – pensate un po’ – pochi mesi dopo, nella ricorrenza dell’anniversario del 25 Aprile, su proposta dell’ANPI, i resti di “Bisagno”, fino a quel momento dimenticati, furono traslati nel Pantheon degli eroi, nel cimitero di Staglieno, con tanto di cerimonia ufficiale e partecipazione delle istituzioni: Comune, Provincia, Regione. Perché non farlo prima? Avevano avuto a disposizione sessant’anni, per pensarci.
Giunti a questo punto, la domanda di fondo è: che interesse avevano, le formazioni comuniste della Resistenza, a sopprimere “Bisagno”? La risposta è molto semplice: Gastaldi, nauseato dalle vendette che venivano compiute ogni giorno sui fascisti sconfitti a arresisi, aveva deciso di intervenire con la forza per far cessare quell’ondata di omicidi. E lo aveva anche annunciato apertamente nel corso di una riunione di vertici partigiani svoltasi all’Hotel Bristol di via XX Settembre, a Genova. In particolare, aveva appreso che a Bogli e a Rovegno, due piccoli centri-chiave dell’Appennino, ai piedi del Monte Antola, ovvero nel cuore della zona dove per mesi aveva combattuto contro l’invasore, erano stati creati, da formazioni autonome comuniste, due campi di concentramento e di eliminazione dove centinaia di prigionieri fascisti rischiavano di essere passati per le armi senza processo, senza condanne, senza alcuna ragione.
Purtroppo, i suoi timori divennero realtà. All’indomani della sua “provvidenziale” morte, nella sola Colonia di Rovegno vennero portate a compimento oltre 600 esecuzioni capitali, come rivelerà, molti anni dopo, un rapporto della Questura di Genova rintracciato dallo storico Carlo Viale, presidente dell’Associazione “Amici di Fra’ Ginepro”, e riprodotto nel suo libro «Fratricidio». Nel rapporto, datato 31 gennaio 1946, si legge che… «nel territorio di codesto Comune sono venute alla luce varie fosse di cadaveri che si presume contengano circa 600 salme non identificate, che, oltre a costituire un pericolo per l’igiene e la salute pubblica, sono motivo di critiche verso le Autorità da parte della popolazione».
Il rapporto, diretto al Sindaco di Rovegno e al Prefetto di Genova, così terminava: «Pregasi disporre che le salme contenute nelle fosse  suaccennate, vengano esumate interessando nel contempo il Comando Stazione Carabinieri per i possibili accertamenti relativi alla identificazione delle salme stesse, e alle cause della morte, riferendone alla Procura del Regno».

E’ superfluo ricordare che nessuna di quella salme venne identificata, che nessuno pagò per la loro misera e crudele morte, e che Aldo Gastaldi, se non fosse stato vigliaccamente assassinato, li avrebbe sicuramente sottratti ad un così misero destino. E una ben diversa ed accettabile Italia sarebbe risorta dalle macerie della guerra civile.

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