NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 10 marzo 2017

L’élite dimenticata del nostro Risorgimento

Aldo Cazzullo, Corriere della sera


Caro Aldo,
lei scrive che l’Italia di oggi è un Paese senza élite. Ma non è sempre stato così?
Lorenzo Giacobino, Torino


Ciro  Menotti
Caro Lorenzo,
No, non è sempre stato così. Pensi solo alla sua terra. Silvio Pellico esce dallo Spielberg dopo dieci anni di carcere duro e pubblica Le mie prigioni, caso letterario in tutta Europa. Vincenzo Gioberti scrive Del primato morale e civile degli italiani e lo dedica a Pellico. Cesare Balbo lo legge ad alta voce a suo cugino, Massimo D’Azeglio, che lo incoraggia a scrivere Delle speranze d’Italia, dedicato a Gioberti. D’Azeglio a sua volta pubblica Degli ultimi casi di Romagna, sul fallimento dei moti nazionali, e lo dedica a Balbo. Tutti e tre i libri sono best-seller dell’epoca. E gli autori non sono intellettuali chiusi nella torre d’avorio: tutti e tre diventano presidenti del Consiglio. I Savoia saranno stati pure conservatori, ma sapevano affidarsi ai migliori, anche se non li amavano. Quando D’Azeglio insistette per chiamare nel suo governo il giovane conte di Cavour, Vittorio Emanuele II lo avvertì: «Va bene, ma sappia che ce lo metterà in quel posto a tutti». Prima di accettare, Cavour andò a trovare Antonio Rosmini, che gli presentò uno scrittore suo ospite: Alessandro Manzoni (la figlia, che si chiamava Giulia come la nonna, Giulia Beccaria, aveva sposato D’Azeglio). Dopo l’incontro Manzoni scrisse di Cavour a un amico, Giovanni Berchet: «È un omino che promette bene assai».

Questi uomini dalla statura intellettuale e umana impressionante erano amici tra loro, a volte parenti. Talora erano rivali; ma sapevano riconoscere la grandezza l’uno dell’altro. Erano insomma un’élite. Non definita dall’origine municipale: il Risorgimento non fu certo fatto solo dai piemontesi. Mazzini, Garibaldi, Mameli erano liguri; Confalonieri, Manara, Cattaneo milanesi; Tito Speri bresciano, Ciro Menotti modenese, Maroncelli di Forlì, Manin veneziano, Settembrini e Poerio di Napoli, Pilo e La Farina siciliani. Avevano tutto da perdere, alcuni salirono sulla forca, altri furono messi al muro. Guglielmo Pepe portò i volontari napoletani a difendere Venezia, D’Azeglio fu ferito a una gamba sotto le mura di Vicenza assediata, gli studenti toscani guidati da Giuseppe Montanelli — ferito alla spalla sinistra — si fecero massacrare a Curtatone. Non andavano tutti d’accordo, spesso si odiarono, come Cavour e Garibaldi, eppure il conte scrisse del generale: «Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi che un uomo potesse rendergli: ha dato agli italiani fiducia in se stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria». Purtroppo, questa epopea è quasi del tutto assente dalla memoria nazionale. Oggi vanno di moda i briganti.

http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/09-03-2017/index.shtml

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