NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 4 aprile 2017

Vita eroica di Amedeo di Savoia - terza parte

Cinque anni Egli passò, assegnato a Gorizia, e dimorante con Sua Altezza Reale Anna e le sue due figliuole nel malinconico castello di Miramare: cinque anni, quale comandante, prima di stormo, poi di brigata aerea, indi di divisione.
Le Sue squadriglie erano ragione di orgoglio per l’ala Italiana, per precisione di volo, per disciplina e coraggio ed allenamento di piloti.
Ma intanto si era svolta la conquista dell’Etiopia. In uno slancio concorde di volontà l’Italia aveva conquistato un Impero; ed Egli, andati via i due primi Vice-Re manifestò, per la prima volta nella vita, il desiderio di un comando.
Era un poco rischioso, specie dopo un ultimo e grave attentato al Governatore del tempo, ed il Re era titubante, ma Egli insistette, ed eccolo infine partire il 21 Dicembre 1937 da Napoli, Vice-Re dell’Etiopia.
Queste sono vicende recenti, ogni Italiano le conosce, ed io non ho che da riassumere solo qualche dato, qualche fatto saliente che aiuti a mettere in rilievo la figura del nostro Principe.
Egli sbarcò a Massaua, e la prima sosta fu al cimitero di Dogali, a salutare i cinquecento, i morti di De Cristoforis, ancora allineati in ordine di battaglia, sotto la terra arsa.
Arrivato ad Addis Abeba si accorse subito che tra i veri pionieri si era mescolato un piccolo mondo di profittatori, e non esitò a buttarsi a corpo perduto per eliminare le inframettenze, per punire le iniquità, per mettere ovunque ordine e pulizia; non esitò a dire ai Suoi funzionari: se non mi chiamassi Savoia vorrei fare a cazzotti con certa gente!
Memore degli insegnamenti dello Zio indimenticabile Egli cominciò subito a realizzare un vasto piano di sfruttamento agricolo e minerario del vastissimo Impero.
Spesso Egli diceva: gli Italiani non sanno quale immensa ricchezza essi hanno conquistato. Nell’Amara vi erano i giacimenti immensi di lignite e di torba, cave di marmo e di argilla, e c’era da sviluppare la industria del baco da seta. Nel Calla Sidama vi erano miniere di ematite e di limmite ed i grandi fiumi auriferi e le immense foreste ove già erano state catalogate 84 specie di legno pregiato. La foresta di Belleltà, non tutta ancora esplorata dall’uomo, poteva rivelare incredibili sorprese, sgominante quale era per la sua vastità, intersecata da fiumi torrenti e ruscelli, sbarrata da alberi secolari, intrecciata da liane, fauna favolosa di scimmie, di leopardi neri, di pitoni e bufali ed elefanti e rinoceronti. Nell’Harrarino le foreste degli Arussi, piene  di podacarpi ed eucalipti gonfi di cellulosa, e le piantagioni di caffè e le miniere di mica.
Nella Eritrea e nella Somalia il cotone, i semi oleosi, nella Migiurtinia l’incenso, la mirra, lo stagno.
Né aveva trascurato con sotterfugi ingegnosissimi che dalle Indie Olandesi Gli fossero inviati i semi del caucciù per svincolare la Patria da questo gravoso tributo allo straniero. Era un mondo favoloso che si apriva al lavoro degli Italiani, già da secoli dispersi per tutto l’orbe terraqueo in cerca di pane: colà milioni e milioni di lavoratori avrebbero trovato sfogo e ricchezza!
Questa era la Sua opera dunque, grandiosa opera, alla quale si accinse con tutto il fervore dell’anima.
Ogni domenica, libero dai fardelli burocratici, dagli incartamenti e dai ricevimenti, Egli la dedicava alle visite nei punti più lontani dell’Impero. Ed eccolo un giorno scendere col Suo apparecchio ad Elolo, su una pista di fortuna tra il Kenia Italiano e quello Inglese, ove c’era un presidio con un solo Tenente bianco ed una banda di Dubat.
Quel povero tenente non vedeva un bianco da sette mesi, rimase confuso e quasi singhiozzava quando riconobbe il Vice-Re che scendeva dall’aeroplano su quel campo di fortuna. In quell'angolo sperduto di mondo il Duca, sotto una tenda, divise con quell’ufficiale un piatto di pasta preparato dai Dubat.
In qualunque parte della terra, se è scampato al naufragio, si trovi oggi quell’ufficiale, noi sappiamo di certo che egli non ha potuto tradire la sua vecchia bandiera.
Amedeo, nel viaggio di ritorno, ricordando gli occhi umidi, la voce trepida di quel tenente, diceva ai Suoi compagni di volo: ci vuole tanto poco a fare contenti gli uomini!
Un’altra domenica, a Ricchiè, un vecchio centenario, saputo dell’arrivo del Vice-Re in quella sperduta località, si fece portare alla Sua presenza in barella da due servi. Si prosternò nella polvere, disse: io ho perduto un figlio in battaglia per l’Italia, io sono fiero di avere perduto mio figlio per te.
Ed Amedeo concludeva, nel viaggio di ritorno: la poesia è la sola regola della vita.
Un’altra domenica a Debra Sina, davanti ad una banda di 600 uomini ve n’era uno, alto quasi come Lui, Basciai Uoldié, che era stato il più acre nemico degli Italiani, che aveva tagliato a suo tempo il ponte di Termaber per ritardare la marcia nostra su Addis Abeba, che era considerato, ed a giusto titolo, un eroe nazionale Abissino. Basciai Uoldié aveva dichiarato che non avrebbe fatto atto di sottomissione ad altri clic al Vice-Re in persona, ed il Vice-Re non aveva atteso che andasse da Lui ; volle Egli stesso andare davanti al Suo valoroso avversario, e, pur tra la perplessità di molti, stabilì che tutti gli uomini della banda e non solo il capo avrebbero conservato le armi. Ecco Amedeo che avanza, alto e diritto, davanti alla banda armata, in attesa, fino a raggiungere Basciai Uoldié. Questi pose un ginocchio in terra e disse: giuro di servirti, fino alla morte. E mantenne la parola, perchè tre anni dopo morì da prode, combattendo per l’Italia.
Alla inaugurazione della strada Dancala tra Dessié ed Assab lunga 1000 chilometri, un’opera romana costruita sotto il sole ardente dai nostri operai.
Egli vide ogni tanto lungo la strada stessa dei tumuli con delle croci, e talvolta dei piccoli, semplici, ingenui monumenti: erano le tombe degli operai morti sul lavoro e sepolti dai compagni là dove erano caduti. Egli si fermò davanti a ciascuno di essi, con un senso di raccoglimento religioso che commosse fino alle lagrime tutti gli operai lungo la grande arteria nata dal loro sangue e dal loro sudore: «Questi tumuli», disse Amedeo, «che si snodano lungo questa strada grandiosa sono come gli acini di un rosario, il rosario del lavoratore Italiano ».
L’ultima o una delle ultime Sue visite, sulla fine del 1939 fu a Bonga, nel Galla Sidamo, tra i pigmei. Tutta la popolazione dei pigmei era schierata lungo la strada, tutti nudi, uomini e donne, sì e no coperti da poche foglie verdi, quei pigmei che ancora accendevano il fuoco fregando due pezzi di legno, e le cui armi erano ancora fatte di pietra, quei popoli che noi avremmo portato alla civiltà ed ora sono ricaduti nella barbarie.
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Ma oramai oscure nuvole si addensavano sull’orizzonte di Europa. La Germania aveva invaso la Polonia, la guerra Europea era scoppiata, ma noi eravamo ancora fuori. Dovevamo rimanere fuori! Il Vice-Re partì per l’Italia, voleva parlare con Mussolini, ma non riuscì a farlo da solo. Però disse egualmente il Suo pensiero, e ne troviamo traccia nel diario di Ciano, nelle affermazioni dei sopravvissuti, nonché nella risposta scritta che Egli inviò alle precise domande che Gli furono rivolte al principio del 1940 e delle quali non si tenne, purtroppo, alcun conto: le condizioni militari dell’Impero erano tali che non solo un’offensiva non sarebbe stata possibile, ma neppure una difensiva. Avrebbe potuto, sì, esserci una resistenza più o meno lunga, avrebbe potuto l’esiguo corpo di spedizione, sprovvisto di armi per una guerra moderna, sacrificarsi, scrivendo pagine ardenti di gloria militare, ma l’Impero sarebbe stato perduto!
Che vale riepilogare avvenimenti di cui siamo stati testimoni angosciati ed ansiosi! Il primo anno si chiuse all’attivo con la spedizione del Somaliland, ma quando cominciarono ad affluire le armi, le munizioni, i viveri del Commonwealth e le truppe inglesi passarono alla offensiva mentre che le nostre poche armi si deterioravano e le munizioni diminuivano ogni giorno, altro non poterono fare le truppe del Vice-Re che sacrificarsi.
In questi tempi amari, pagine che farebbero l’onore e la gloria di ogni popolo del mondo sono pressoché ignorate dagli Italiani quando non sono calpestate ed irrise. Le pagine di Cheren, fulgide, non meno di quelle delle Termopili, le pagine di Culquabert che vide ad ondate sacrificarsi i Carabinieri del Re, sono oggi come in un libro chiuso. Chiuso sembra il libro immortale di Amba Alagi, ma ben si riaprirà un giorno se è vero che la Patria è una verità eterna e che, nel nostro breve cammino mortale, la gloria illumina il cuore degli uomini.
L’ultimo consiglio di governo al ghebì di Addis Abeba fu tenuto il 3 aprile del 1941. Con 3800 uomini (e non i 30.000 di cui farneticarono le gazzette inglesi per rendere più lucente la loro facile vittoria e più ingloriosa la nostra inevitabile sconfitta) con 3800 uomini e con la Sua bandiera il Vice Re salì i 3400 metri dell’Amba Alagi.

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