NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 13 agosto 2017

Agosto 1917: al bivio tra materialismo e umanesimo


di Aldo A. Mola

Mentre tempestosi venti di guerra sferzano l'Estremo Oriente come altre volte in agosto (1914, 1939...), ricorre il centenario del mese cruciale della Grande Guerra. In poche settimane si consumò l'estremo tentativo di fermare l'Europa sull'orlo della catastrofe. Dopo tre anni di conflitto tutte le potenze erano al collasso. A marzo lo zar Nicola II fu spazzato via. I tedeschi propiziarono l'arrivo di Lenin in Russia: una mina ai danni del governo provvisorio e di Kerenskij, che a fine luglio represse duramente la sollevazione armata a Pietrogrado e ogni opposizione alla prosecuzione della guerra, alimentata da pressioni anglo-francesi e da un cospicuo prestito da parte degli USA, scesi in lotta il 6 aprile ma ancora lontanissimi da incidere direttamente sul suo esito. In aprile-maggio la Francia fu sconvolta da ammutinamenti al fronte e da scioperi a Parigi. La protesta dilagò in Ungheria. Il 19 luglio il Parlamento tedesco propose la “pace sulla base di accordi”. Il 3 agosto si registrarono ammutinamenti anche nella marina germanica.
In quel quadro di crisi papa Benedetto XV (il genovese Giacomo della Chiesa, 1854-1922, asceso al Sacro Soglio a conflitto appena iniziato) pubblicò l'appello a fermare con trattative diplomatiche l'“inutile strage”. Non era solo la parola di un “capo di Stato”, qual era riconosciuto, con o senza “scettro”, ma anche l'estremo sforzo per bloccare la deriva verso l'“ateismo materialistico” ormai incombente. Atee non erano solo le “tesi di aprile” di Lenin. Lo erano anche la conduzione della guerra come annientamento reciproco dei contendenti e la riduzione dei popoli in macchine belliche lanciate in un fratricidio planetario privo di prospettive politiche.
Dopo un anno di forzato silenzio, trascorso nella solitudine a Cavour, il 13 agosto 1917 Giovanni Giolitti parlò dall'unica tribuna rimastagli dopo il forzato allontanamento da Roma, sotto la minaccia di attentato mortale alla sua vita. Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo (che avrebbe dovuto ricordarlo), si associò al premier inglese Lloyd George: la guerra era “la più grave catastrofe dopo il diluvio universale”, con la differenza che essa era opera dell'uomo, non di una volontà imperscrutabile per punire gli uomini della loro malvagità (Genesi, 6, 5-8) o della “invidia degli Dei” evocata da Erodoto per spiegare la caduta degli imperi. Convinto che fosse ormai chiusa l'età della “politica estera a base di trattati segreti”, Giolitti ammonì: i reduci (“milioni di lavoratori delle città e delle campagne, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi sopportati per la patria”) al rientro dal fronte avrebbero reclamato “ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale, che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Monarchico e liberale, fautore di riforme per salvaguardare le istituzioni, propose il riconoscimento universale delle nazionalità, libere di darsi il proprio governo: Pax in iure gentium... “L'Italia, sorta in nome di quei principi, ne sarà certamente efficace sostenitrice nel consesso delle nazioni”. Lo statista italiano precorse di sei mesi i “quattordici punti” enunciati dal presidente americano Woodrow Wilson l'8 gennaio 1918. Far leva sulle nazionalità era anche il concetto-guida del Comandante Supremo, Luigi Cadorna, il cui piano strategico originario era infatti l'irruzione nell'impero austro-ungarico per suscitarvi la sollevazione contro Vienna: un progetto che aveva radici nel Risorgimento italiano e nel Quarantotto, “primavera dei popoli”. Malgrado incomprensioni e lontananze, all'opposto di quanto asserito dal liberalofago Angelo d'Orsi in “1917: l'anno della rivoluzione” (ed. Laterza), l'insieme della dirigenza politico-militare italiana rimaneva ancorata all'umanesimo e contraria alla riduzione del conflitto a “guerra dei materiali”.
All'opposto, nei due incontri di San Giovanni di Moriana (aprile-giugno 1917) i governi di Londra e di Parigi ribadirono il programma originario dell'Intesa: nessuna pace separata sino all'annientamento degli Imperi Centrali. L'Italia andò al traino. Non aveva scelte.
Il colonnello Angelo Gatti, chiamato da Cadorna a organizzare la “memoria storica” del conflitto, tra il 21 e il 23 giugno 1917 stese un “Promemoria” e lo consegnò al generale Roberto Bencivenga (massone) per il Comandante Supremo in partenza per l'incontro con il francese Ferdinand Foch e con il generale inglese Radcliffe. Segretamente Gatti ne dette copia anche al comandante della II^ Armata, Luigi Capello, che non faceva mistero della sua affiliazione al Grande Oriente d'Italia. Secondo Gatti, dopo 26 mesi di guerra e di perdite altissime bisognava “ricominciare da capo. è necessario inculcare uno spirito nuovo; fare nuova organizzazione; trasformarci col tempo (…); non bisogna credere che sia tutta insipienza dei capi, o cattiva tattica, o cattivo spirito (…); è tutto l'insieme che non va, c'è qualcosa di intimo, di profondo, che si rompe”. Soprattutto occorreva “guardare in faccia le compagini (militari) come composte d'uomini, non come materia”. Cinque giorni dopo si fece iniziare nella loggia “Propaganda massonica”. Tornato da San Giovanni di Moriana, Cadorna non gli disse una parola del “Promemoria”. Oltralpe era prevalsa la visione materiale del conflitto.
Il 17 agosto 1917 la II Armata iniziò l'XI battaglia dell'Isonzo. In due settimane avanzò di circa 8 chilometri sull'altipiano della Bainsizza, ma non riuscì a sfondare. Cadorna percepì che l'Impero austro-ungarico, duramente provato, era al collasso. Lo confermarono le memorie postbelliche dei generali avversari. Però in agosto mancò il successo finale. Alle strette, Vienna chiese il soccorso massiccio della Germania, facilitato dalla ormai ampia smobilitazione del fronte russo. Le perdite dell'Esercito italiano nella battaglia sommarono a 40.000 morti,108.000 feriti e 18.500 dispersi. Come ricorda lo storico militare gen. Oreste Bovio, nelle trincee circolava un motto amaro: “massimo sforzo col minimo di risultati”. Cadorna reagì con quattro severe lettere al presidente del Consiglio, Paolo Boselli: il Comando Supremo teneva in pugno lo strumento militare (enormemente cresciuto) con ferrea disciplina. Toccava però al governo coprirgli le spalle. Boselli non rispose. Due mesi dopo fu messo in minoranza alla Camera, prima ancora che a Roma arrivasse notizia dell'avanzata austro-germanica nella conca di Caporetto. Malgrado tutto l'Italia tenne, proprio perché la sua guerra aveva radici in quel Risorgimento che aveva forgiato lo Stato nazionale. Lo ricordò Gioacchino Volpe in “La guerra 1915-1918” (ed. Pagine, concorrente al Premio Acqui Storia 2017). L'insigne storico evocò le parole di Vittorio Emanuele III agli italiani, soldati e civili, dopo la ritirata dall'Isonzo al Piave (non una “rotta”, né una catastrofe, ma una lunga “battaglia di arresto”): “Siate un esercito solo”. Ma dopo la Vittoria italiana dell'ottobre-novembre 1918, risolutiva dell'intero conflitto come documentò Luigi Gratton nella bella biografia di Armando Diaz (ed. Bastogi), venne il diktat della “pace” di Versailles. Questa gettò le premesse per il ritorno alle armi. La Grande Guerra risultò solo l'inizio della nuova Guerra dei trent'anni (1914-1945), che ha segnato l'eclissi d'Europa e il primato del materialismo sull'umanesimo, del “mercato” sullo “spirito”, il lungo predominio dei profanatori del Tempio.


Aldo A. Mola

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