NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 30 ottobre 2017

Inaugurazione 70° ciclo conferenze del Circolo Rex

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA 


REX


“Il più antico Circolo Culturale della Capitale”

Inaugurazione 70° ciclo conferenze 2017-2018

Domenica 5 Novembre, ore 10.30


Sen. Prof. Domenico Fisichella

relatore sul tema

“Europa, Italia, sovranità”

Sala Italia, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,


via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B 


(ingresso con ascensore)


***

Ingresso libero

domenica 29 ottobre 2017

Barcellona

Quando una foto vale più di mille parole.


Foto presa dal gruppo Facebook Unión Monárquica de España

mercoledì 25 ottobre 2017

È scomparso l'onorevole Emilio D'Amore, deputato del PNM

Una vita nel Partito Nazionale Monarchico

Si è spento, all’età di 102 anni, nella sua abitazione di via Mazas, l'onorevole Emilio D’Amore, ultimo parlamentare del Partito Nazionale Monarchico. 
Avvocato dalla fluida eloquenza, per ben tre legislature ha servito in Parlamento la sua comunità ed il suo Paese. È stato un secolo di storia, vita, politica. Era nato a Montefalcione il 26 novembre 1915 e con il Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli fu eletto alla Camera nella I e II legislatura della Repubblica italiana. Nella IV legislatura fu eletto con il Partito Democratico di Unità Monarchica. Per complessivi 15 anni, dal 1948 al 1958 e dal 1963 al 1968, fu protagonista alla Camera dei deputati.

[...]



Alla Famiglia dell'illustre scomparso il sincero cordoglio dello Staff di Monarchici in Rete!

Il libro azzurro sul referendum - VII cap. - 8

 LOMBARDIA
... II momento in cui il «referendum» fu indetto, le forme che si predisposero, i modi in cui si svolse, le limitazioni che si attuarono, le imposizioni che si subirono, il clima politico che dominò in quell’occasione, tutto impone la rinnovazione di una consultazione popolare, che possa eliminare dubbi sulla legittimità della repubblica... (1).
Prof. G. M. De Francesco
Ordinario di diritto amministrativo - Rettore dell’Università di Milano
Edgardo Sogno del Vallino
medaglio d’oro al v.m.

EMILIA
«A Bologna e in tutta l’Emilia, dopo l’aprile 1945, fino al 2 giugno 1946, si è verificato uno stato di terrorismo rosso, culminante nel famoso «triangolo della morte » con uccisioni e minacce contro ogni elemento d’ordine e particolarmente contro i monarchici, con assoluta impossibilità di propaganda, di affissione, di stampa, tale da togliere agli elettori la libertà di voto con grave danno della parte monarchica».
2 Aprile 1953.
Giorgio Giorgi di Vistarino
Visto per conoscenza della firma del sig. Giorgi di Vistarino ing. Giorgio fu Ippolito di Bologna.
Alessandro Gallerani - Notaio - Tribunale civ. e pen. - Bologna
V. per la legalizzazione della firma del Dott. Alessandro Gallerani - Notaio.
Bologna, 2 aprile 1953.
Il Cancelliere Capo delegato
illeggibile
(1) Vedi. Cap. IlI Condizioni di legalità per il « referendum » istituzionale.



LIGURIA
Genova, 2 marzo 1953.
Unione Monarchica Italiana
Via Carlo Alberto 16 - Torino.
In relazione alla lettera n. 4871 Ris. del 2 gennaio u.s. si informa che la campagna elettorale per il «referendum» avvenne in un periodo arroventato dalle contrastanti  passioni. Un episodio assai grave è accaduto a Genova in quel periodo: trattasi dell’aggressione subita dal Sovrano mentre usciva in auto dalla Prefettura. E’ un episodio così noto che sembra superfluo avallarlo con testimonianze. Di tale episodio si conosce l’aggressore principale (avv. Macchiavelli) e vi sono testimoni sicuri. Il Prof. Maggi, esponente del P.N.M. locale, può fornire sul triste episodio tutte le precisazioni necessarie. Il grave fatto di violenza ha indubbiamente creato un clima di timore e di intimidazione per l’elettorato sia a Genova che in Liguria.
Circa l’andamento generale delle cose è opinione diffusa che brogli vi siano stati, ma da ricercarsi più a Roma che qui.
Con cordiali saluti.
Geom  Roberto Lerici



TOSCANA
Rep. N. 46286 Fase. 6541
DICHIARAZIONI
Repubblica Italiana.
L’Anno Millenovecentocinquantatrè 1953 il Venti - 20 - aprile in Firenze in via Roma 3.
Avanti a me Dottor Lapo Lapi Notaro residente a Firenze e Pistoia, iscritto al Collegio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze e Pistoia, non assistito dai testimoni per concorde e da me consentita renuncia dei Comparenti che hanno i requisiti di legge, sono presenti i signori:
Ruffo di Calabria Don Francesco fu Umberto nato e domiciliato a Firenze Borgo Pinti 68, dottore in legge. Prof.
Rodolico Niccolò fu Francesco, nato a Trapani, domiciliato a Firenze Viale Duca di Genova, 38, pensionato universitario.
Du Four Berte Elena fu Edoardo nei Boccetta Ducloz nata a Livorno, domiciliata a Firenze, Corso Tintori 23, atta a casa.
Avv. Ricci Dante di Carlo nato a Stia, domiciliato a Firenze Via Strozzi 2, legale.
Comparenti della cui identità personale sono certo.
I predetti mi rendono la seguente dichiarazione:
«Dichiariamo che durante la preparazione dei comizi per il Referendum Istituzionale si era creato in Firenze un’atmosfera di intimidazione per impedire, od ostacolare, la libera manifestazione della volontà popolare nei comizi a favore della Monarchia».
Richiesto io Notaro ho ricevuto questo atto che è stato da me letto ai Comparenti che lo hanno approvato. Scritto di mia mano in pagine quasi due di un foglio di carta bollata e sottoscritto dai Componenti e da me Notaro.
F.ti: Niccolò Rodolico - Francesco Ruffo di Calabria - Elena Dufour Berte nei Boccetta Ducloz - Dante Ricci –
Dr. Lapo Lapi Notaro.
Copia conforme all’originale.
Firenze, lì 24 aprile 1953.
Dottor Lapo Lapi

Visto per la legalizzazione della firma del Dottor Lapo Lapi Notaro in Firenze.
Firenze, lì 4-5-1953.
Il Cancelliere delegato
Dott. Angelo Vocino


Reperì. N. 46417
DICHIARAZIONE
Fase. N. 6552
Repubblica Italiana.
L’Anno Millenovecentocinquantatrè 1953 il Ventisette Aprile in Firenze in via Roma 3.
Avanti a me dottor Lapo Lapi Notaro residente a Firenze, iscritto al Collegio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze e Pistoia, non assistito dai testimoni per concorde e da me consentita renunzia dei Comparenti che hanno i requisiti di legge, sono presenti i signori:
S.E. Generale Corpo d’Armata, Gran Croce, Avvocato, Dottor Villa Santa Nino fu Giuseppe, nato a Cagliari, domiciliato a Firenze via Giusti 12, possidente, Avv. Comm. Franzini Umberto fu Carlo nato a Porretta Terme, domiciliato a Firenze Via Cavour 13, legale.
Comparenti della cui identità personale sono certo.
I predetti mi rendono la seguente dichiarazione:
«Dichiariamo che durante la preparazione dei Comizi per il Referendum Istituzionale del 2 giugno 1946 si era creata in Firenze un’atmosfera di intimidazione per impedire, od ostacolare, la libera manifestazione della volontà popolare nei comizi a favore della Monarchia».
Richiesto io Notaro ho ricevuto questo atto che è stato da me Ietto ai Comparenti che lo hanno approvato. Scritto di mia mano in pagine una e porzione della successiva di un foglio bollato e sottoscritto dai Comparenti e da me Notaro.
F° Nino Villa Santa
F° Umberto Franzini
F° Dottor Lapo Lapi Notaro.
Copia conforme all’originale.
Firenze, li 2 maggio 1953.
Dott. Lapo Lapi
Firenze per la legalizzazione della firma del Dott. Lapo Lapi Notaro in
Firenze, li 4-5-1953.
Il Cancelliere delegato

Dott. Angelo Vocino

venerdì 20 ottobre 2017

Caporetto, la disfatta che riscattò l’Italia

di Salvatore Sfrecola

Il 24 ottobre 1917 il nostro esercito subì una sconfitta di enormi proporzioni, tuttora al centro delle polemiche tra gli storici
Un evento da ricordare per le molte ombre ma anche per le luci che risvegliarono orgoglio nazionale e senso di appartenenza


Alla vigilia di quel tragico 24
ottobre 1917 nessuno aveva previsto un attacco nell’area di Caporetto, la cittadina, oggi in Slovenia (Kobarid), nell’alta valle dell’lsonzo, sulla riva destra del fiume, tra Tolmino e Plezzo, dove si combattè fino al 27 novembre. In quei giorni le truppe italiane dovettero abbandonare migliaia di chilometri quadrati, il Friuli e parte del Veneto. A rischio la stessa Venezia che, infatti, si pensò di abbandonare. Una sconfitta grave, definita anche «rotta», «disfatta» o «catastrofe», con uno strascico di polemiche che ancora oggi impegnano molte pagine nei libri di storia.
L’attacco non l’aveva previsto Luigi Cadorna, il comandante generale, «molto scettico» sulla ipotesi di partecipazione germanica all’offensiva nemica che si immaginava in preparazione ma che, a suo giudizio, si sarebbe concretizzata solo in primavera, come disse al colonnello Angelo Gatti, che ne riferisce nel suo prezioso Diario di Guerra: «Passiamo così l’inverno».
Eppure i segnali di una imminente offensiva austrotedesca c erano stati, provenienti da varie fonti (non solodai disertori che potevano apparire inviati ad arte), ignorati dai servizi di informazione.
Li avevano percepiti sia il generale Luigi Capello sia Re Vittorio Emanuele e ne avevano informato Cadorna. Fu sottovalutato anche il significato dell’iniziale cannoneggiamento la mattina del 21, tiri isolati ma con obiettivi precisi, come osservò il Re che ritenne fossero destinati a saggiare la nostra capacità di reazione, preludio del bombardamento che sarebbe iniziato alle 2 del 24 ottobre, inizialmente con i gas. Durò cinque ore, «con grandissima intensità», scrive Gatti. Eppure non ne fu compresa la finalità. «Nulla di importante» commentò il generale Pietro Badoglio. I suoi cannoni, oltre 400, rimasero silenti. E gli fu sempre rimproverato.
Uno dei tanti errori di percezione delle intenzioni degli austrotedeschi i quali percorsero il fondovalle coperti dalla nebbia. Il fuoco delle batterie nemiche aveva creato una breccia che permise il passaggio degli alpini del Wuttemberg guidati da un giovane tenente destinato a una prestigiosa carriera militare. Erwin Rommel. Futura «Volpe del deserto».
Lo sbandamento fu generale. Nella confusione s'immaginava fosse necessario arretrare sempre di più, dall’Isonzo al Tagliamento al Piave e forse all’Adige, al Mincio o, se non fosse bastato, al Po. Una soluzione che avrebbe consegnato al nemico Venezia e Milano, un autentico disastro per la coalizione. Dalla Pianura padana sarebbe stata minacciata anche la Francia. Intanto nel Paese montano le polemiche, le accuse di tradimento e disfattismo, soprattutto contro socialisti e cattolici. Gli alleati, che s’incontrarono a Rapallo il 6 novembre in un clima di sfiducia nei confronti dell’Italia, chiedono la testa di Cadorna.
Ne riferisce Gatti che dà conto dell’umiliazione subita. Infatti francesi e inglesi «si riunirono fra loro, con esclusione dei nostri. Orlando, Sonnino. Alfieri e Porro attesero così, alla porta come servitori, che gli altri decidessero». Vittorio Emanuele Orlando era il presidente del Consiglio, Sidney Sonnino il ministro degli Esteri, Vittorio Alfieri il ministro della Guerra e Carlo Porro il sottocapo di Stato maggiore. Dovettero limitarsi ad ascoltare le decisioni assunte. E se fu riconosciuto «che la difesa dell’Italia era anche interesse alleato», con apporto di 4 divisioni francesi e di 4 inglesi (che poi diventeranno 6 e 5), il primo ministro i nglese Lloy d George impose come condizione «assoluta» la creazione di un Consiglio interalleato composto dai 3 presidenti dei Consigli dei ministri.
In questa condizione di aperta sfiducia degli alleati per il nostro esercito, il re «l’unico a non perdere la testa», come ha sottolineato Rai Storia, mai tenera nei suoi confronti - volle si resistesse sul Piave. A Peschiera sul Garda. L’8 novembre, dove aveva invitato i ministri ed i generali che si erano incontrati a Rapallo, presenti Paul Painlevé. primo ministro di Francia, i generali Ferdinand Foch e Henry Hugue Wilson e Lloyd George (che ce ne ha lasciato la cronaca), il Re,. parlando in inglese e francese, si guadagnò «il rispetto di tutti per la chiarezza e franchezza con cui fece il punto della situazione, realisticamen-te». Lloyd George «ne rimase impressionato» (M. Silvestri. Caporetto - Una battaglia e un enigma). Il suo ruolo fa determinante nel richiamare l’impegno di ciascuno, senza retorica, tanto che cancellò dal proclama, che Orlando gli aveva preparato, l’incipit enfatico che non era nel suo stile («Una immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re»). Invece esordì: «Italiani, siate un esercito solo!»
Da allora «Caporetto», nel linguaggio comune, evoca un fatto negativo gravissimo, una sconfitta senza rimedi, la «disfatta per antonomasia», scrive Stefano Lucchini in un libro, A Caporetto abbiamo vinto, che ricostruisce, «attraverso la viva voce di protagonisti e testimoni, la drammatica successione dei fatti e il loro impatto sull’opinione pubblica». Eppure, dopo le polemiche di quei giorni e all’indomani della vittoria, si volle in qualche
modo archiviare la sconfitta, rimuoverla dalla narrazione dell’Italia di Vittorio Veneto». Ne è prova l’attribuzione del grado di Maresciallo d’Italia contemporaneamente al generale sconfitto. Luigi Cadorna, ed al vincitore, Armando Diaz.
E se è vero che «a Caporetto non abbiamo vinto» è altrettanto vero che quella battaglia ha segnato una svolta fondamentale, che ha posto le basi della ripresa delle operazioni militari e della vittoria. Immediato fu il risveglio delle migliori energie, della politica, delle forze armate e dell’intero popolo italiano. Fu «uno scatto di orgoglio nazionale» (Pierre Milza, Storia d’Italia). Cambiarono molte cose. Tutto quello che doveva cambiare da tempo. Dai rapporti tra il governo e i vertici dell’esercito che, con il nuovo comandante generale, Armando Diaz, divenne più moderno nell’organizzazione e credibile nelle modalità d’impiego, anche agli occhi dei governi e degli Stati maggiori alleati.
Le cause della disfatta, come denuncia la conta dei caduti e dei prigionieri, la vastità delle terre perdute e il numero dei profughi, furono essenzialmente militari, come fu evidente di lì a breve anche dalle prime risultanze della commissione d’inchiesta.
Cause individuate nella inadeguatezza della cultura di guerra dei comandi, ancorati a concezioni superate, come l’attacco allarma bianca. L’aveva codificato il comandante generale Cadorna: attacco frontale e intervento aggirante della cavalleria, nonostante fosse ormai acquisito il ruolo residuale di questa Arma dopo che l’invenzione della mitragliatrice aveva reso improponibili le cariche di lancieri e dragoni che con tanto onore avevano combattuto nelle guerre dell’8oo.
Non che i comandanti degli altri eserciti fossero più moderni. Esclusi i tedeschi, che
avevano maturato la consapevolezza delle nuove tecniche di guerra, i francesi avevano subito perdite molto superiori alle nostre in assurdi, inutili assalti a posizioni fortificate, come quelli al famoso «formicaio» nel film Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, magistralmente interpretato da Kirk Douglas, un valoroso colonnello alle prese con un generale idiota.
Giocarono un ruolo essenziale negli eventi tragici di Caporetto non solamente la mancata previsione dell’attacco e di misure adeguate in caso di ritirata, l’accertata confusione nella catena di comando, la disorganizzazione di molti settori dell’esercito, la sottovalutazione del previsto dispiegamento di divisioni tedesche tratte dal fronte russo. Le comandava un valoroso generale prussiano Otto von Below, reduce da molte vittorie e con provata capacità strategica. Con un piano di guerra originale che rompe con la dottrina e le consuetudini dello sfondamento in orizzontale e che farà meraviglie anche l’anno dopo contro gli anglofrancesi, sul fronte di Arras - LaFère, nelle Fiandre.
Con lui generali di prim’ordine, con carriere brillanti, come Albert von Berrer, Herman von Stein e Konrad Krafft von Dellmesingen, che di quegli eventi ci ha lasciato una descrizione particolarmente accreditata tra gli storici.
Il resto è noto. Si contarono 35.000 tra morti e feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati; la perdita di un’ingente quantità di armi, cannoni, mortai e mitragliatrici, depositi di munizioni, automezzi e strutture del l’apparato logistico. Senza contare il dramma delle popolazioni civili, un milione circa di profughi, l’abbandono delle case, delle aziende, degli animali. Solamente la III Armata comandata da Emanuele Filiberto duca d’Aosta si sganciò con ordine dal nemico. Fu così pronta alla controffensiva di primavera tanto da meritare, nel bollettino della Vittoria, il 4 novembre 1918,l’aggettivo di «invitta».

martedì 17 ottobre 2017

Una politica per i giovani


Premessa.
Nel  novembre  1954  a  Napoli, nel teatro  San Ferdinando  si  tenne  il  congresso nazionale  del  Movimento Giovanile del  PNM  che  vide  la  vittoria  della  segreteria  uscente, mentre  l'opposizione  che  aveva  nel  gruppo  romano il suo fulcro, di  cui  era  leader  Carlo  Alberto D'Elia, fu  sconfitta. 
Poco  dopo  due  anni  la  segreteria  gettò  la  spugna ed  indicò  il  successore  proprio  in  un  esponente  della  opposizione  e  la  storia  del Movimento Giovanile, almeno  per  alcuni anni  cambiò.






(Precisazione storica dell'Ingegnere Domenico Giglio, letteralmente ed affettuosamente obbligato a scriverla dallo Staff ).



Un problema tuttora insoluto dal PNM

Per una politica interclassista, bisogna rendersi conto che il moto risorgimentale passa dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione proletaria – Ci occorre non più la nostalgia del Re sul cavallo bianco, ma la fiduciosa speranza del Re pensoso e operante fra i concreti problemi del Suo popolo.


Enunciare e perseguire una politica giovanile, una politica per i giovani, è postulato comune a tutti i movimenti che si pongano, sia pure democraticamente, su posizioni rivoluzionarie rispetto allo Stato.
Il Partito Nazionale Monarchico è certo un movimento rivoluzionario, in quanto propugna un mutamento istituzionale ed una revisione costituzionale unitamente al rinnovamento dei valori, oggi obliterali, tradizionali della Nazione.
Il P.N.M., però, è forse l’unico partito che non svolga una politica giovanile, né questo deve  sorprendere, se si tengano presenti alcune sue manchevolezze, di cui dovremo emendarlo.
Il giovani vivono di grandi ideali, e la Monarchia è un ideale altissimo, in verità; ma gli ideali che muovono le grandi masse ed, alla loro testa, la gioventù sia lavoratrice che intellettuale non appartengono mai alla specie delle nostalgie, perché i popoli camminano sempre avanti, col progresso e con la Storia.
E, dunque, in senso decisamente avveniristico va impostata ogni politica del
genere, tenendo a tal fine presente la necessità di guardare le azioni contingenti da un più elevato piano speculativo e teorico.
Si tratta di comprendere che, in nome dello stesso ideale liberale, la rivoluzione borghese di ieri diventa la rivoluzione proletaria, e che l’amore per la libertà non subisce arresti, ed oggi scopre nuovi orizzonti per dare tuia dignità ed un volto alle masse popolari, solo teoricamente libere ed in parità di diritti.
Bisogna credere in una Monarchia che - seguendo ed, anzi, favorendo, questa evoluzione del Risorgimento - assuma compiti nuovi (ma analoghi a quelli del
passato) nella vita del popolo italiano, e garantisca non solo le libertà spirituali, ma anche quella fondamentale dal bisogno, inserendosi moderatrice ed arbitra nel processo di chiarificazione politico-sociale, così come sempre assolse tale compito fra gli italiani, repubblicani e monarchici, in una Italia giovane ed in formazione.
Proiettiamo nel futuro la funzione della Monarchia, richiamando dai nostalgici sospiri, la figura del Re, non più sui cavalli bianchi ma fra i concreti problemi del suo popolo; avremo affermato la vitalità dei nostri principi, e non per l’anno 1954, ma per la Storia.
Questa è l’impostazione di cui difettiamo. ..
A questo punto ci si potrà rispondere: E cosa ha fatto il Movimento Giovanile del P.N.M., che di queste ansie e di questi interessi dovrebbe essere l’interprete più entusiasta e fedele, per sensibilizzare gli esponenti del Partito in questo campo, o per farsi propugnatore esso stesso di una efficace azione politica nel senso desiderato?
Il Movimento Giovanile o, meglio, i suoi eterni dirigenti non ha fatto mai nulla è vero, ed hanno dimostrato, al Congresso Nazionale Giovanile, un tale disinteresse in materia da non autorizzare previsioni rosee per il futuro.
Ma il discorso, iniziato in clima non idoneo a Napoli, lo proseguiremo fintantoché le nostre idee e le nostre concezioni non avranno avuto ragione dei personalismi e del loro intollerabile nullismo politico.
Questa situazione, però, non può e non deve arrestare l’opera di chiarificazione ideologica e sociale del nostro Partito, al quale quindi, s’impone una svolta anche per quanto concerne i problemi della gioventù.
In particolare riteniamo che si debba affermare l’estensione dei fini educatori dello Stato, il quale deve provvedere anche all’istruzione dei giovani operai ed artigiani, giacché gli oneri derivanti ai privati dalle vigenti norme sull’apprendistato sono eccessivamente gravi, ed a tutto danno dei lavoratori che non vengono assunti per il peso antieconomico di cui finiscono per gravare l’azienda.
La mano d’opera italiana è in preoccupante invecchiamento, mentre l’artigianato è in piena crisi per mancanza assoluta di giovani apprendisti. Questi sono problemi non solo delle classi popolari, non solo dei giovani: sono problemi dell’industria e dell’artigianato italiani, sono problemi nazionali.
Ed il nostro Partito — così come per la sua qualifica nazionale non può più esimersi dal prendere posizione — è per le medesime ragioni il più qualificato a coalizzare datori e lavoratori, categorie opposte e singoli, nell’interesse del Paese.
Ma questa particolare funzione va assunta non solo nel campo del lavoro, ma anche in quello dello studio.
La scuola italiana, infatti, indirizza ogni anno falangi di giovani alle Università, inasprendo vieppiù la paurosa situazione di disagio che nel Paese determina un numero elevatissimo di laureati disoccupati e senza speranza d’assorbimento, cui vanno sommati gli innumerevoli laureati soggetti per fame a forme di sottoccupazione.
La rivalutazione dei titoli di istruzione tecnica s’impone come spontaneo calmiere al sovraffollamento degli Atenei, e così la limitazione dei concorsi cui partecipare col titolo di laurea. E’ necessario educare gli italiani a considerare cosa non disonorevole la mancanza della laurea e, insieme, cosa molto onorevole un titolo tecnico che qualifichi per un brillante avvenire. Le Università, dal canto loro, non si dovrebbero limitare a sfornare dottori, ma dovrebbero offrire anche un minimo di pratica professionale, della quale spesso i giovani nella vita si mostrano così sprovvisti.
Ed è in questo campo, ancora ima volta, che la nostra azione politica e propagandistica può aprire gli occhi alla cecità dei nostri alti capitalisti, per far loro comprendere l’utilità per tutti e l’interesse proprio per poter contare su una classe dirigente più preparata e selezionata, conscia dei propri doveri verso una società che ha saputo educarli. Questo all’estero non è una favola, è la realtà di grandi fondazioni scientifiche comprendenti intere Università.
Anche per la gioventù delle campagne, infine, sarebbe doveroso che lo Stato propagandasse e diffondesse l’istruzione agraria, sia per il conseguimento di licenze inferiori che per corsi d’istruzione più, diciamo così, elementari: oggi l’agricoltura è impostata scientificamente, ed i contadini devono sapere ciò che occorre alla terra e conoscere le loro macchine.
Troppo dovremmo dire, e lo spazio ci manca.
Ma a Milano siamo certi di smuovere le acque fattesi stagnanti, siamo certi di segnare un nuovo indirizzo. E per questo ci batteremo senza esitazioni, certi come siamo di essere gli interpreti delle aspirazioni, consce od inconsce, degli italiani e, soprattutto, dei giovani italiani.

Credono per loro Patria e per il Re, sì; ma anche per il loro avvenire e per un domani di giustizia e di libertà.

sabato 14 ottobre 2017

Torino, ecco la fortezza sotterranea "ritrovata" 400 anni dopo

[...]
Dal prossimo 26 ottobre potrete "riappropriarvi" del Pastiss, la storica fortezza sotterranea costruita nel XVI secolo per volontà di Emanuele Filiberto di Savoia. La casamatta, pensata all'esterno del fossato della Cittadella di Torino per consentire di colpire alle spalle il nemico, si trova sotto via Papacino, all'angolo con corso Matteotti. In parte distrutta a cavallo tra Ottocento e Novecento, è stata riscoperta nel 1958 dall'allora colonnello Guido Amoretti e dallo speleologo Cesare Volante. In questi anni è stata presa in consegna dall'Associazione Amici del Museo Pietro Micca, che ha scavato per riportarla alla luce.
[...]

venerdì 13 ottobre 2017

Io difendo la Monarchia I cap - II parte

La prima crisi del parlamento

La gioventù universitaria fu unanime per l’intervento. Con tutto ciò la crisi parlamentare con le dimissioni di Salandra, si mantenne nella più rigorosa costituzionalità. Il Re consultò Boselli, Sonnino, Carcano, Marcora e Giolitti. Quasi tutti, meno il Giolitti (1), ritennero che la Corona dovesse confermare l'incarico a Salandra.
E non si poteva, infatti, dati i recenti impegni internazionali, battere altra via.
L'episodio è però significativo. Per la prima volta, dal 1861, il Parlamento italiano è costretto a subire la iniziativa politica della piazza. Le regole del giuoco sono rispettate, ma la sostanza è profondamente vulnerata.
Né conta se questo fu un bene o non fu un male. Verrà giorno in cui un giuoco simile sarà assai nocivo.
Nella grande generalità, la stampa esaltò le manifestazioni popolari e la decisione sovrana di confermare all'on. Salandra l’incarico di costituire il Gabinetto, nel quale entrò Sonnino, Ministro degli Esteri rimasto a quell’ufficio per tutta la durata della guerra. Ma non mancò neppure allora chi parlò delle agitazioni popolari nelle città, come dimostrazioni di « quaranta o cinquantamila dementi e malfattori » (2).
Si ebbe allora per la prima volta nella storia del nuovo Regno, una intimazione alla Corona che del restoera favorevole alla guerra : la prima intimazione di Mussolini. Era costui un agitatore violento del socialismo rivoluzionario che dal 1908 si era fatto luce, con atteggiamenti di tribuno giacobino, in quel partito, conquistandone il giornale e la direzione politica. In occasione dell'attentato di Alba a Re Vittorio aveva scritto un aspro e villano articolo contro la monarchia; nel 1911-12 aveva capeggiato movimenti e disordini per impedire la partenza dei soldati per la Libia; nel 1914 aveva scatenato il moto della settimana rossa con l'esperienza delle effimere repubblichette marchigiane.
Espulso dal socialismo, alla fine del 1914, abbandonava la direzione dell’Avanti! e fondava II Popolo d’Italia ove iniziava, con la stessa violenza di linguaggio adoperata fino al giorno prima contro la borghesia, un’aspra campagna contro gli antichi compagni socialisti.
 Apriva pure, sin dal primo articolo, una vivace campagna per l’intervento. Il brusco trapasso dall’estremo neutralismo all’interventismo venne da più parti attribuito a segreti e non confessabili motivi. A noi pare che in tempi così agitati come quelli che andiamo descrivendo, uomini della natura di Mussolini, bramosi solo di primeggiare e di raggiungere il potere, siano condotti a mutare di bandiera e di compagni, per unaspinta dell’istinto e per un segreto avvertimento del loro spirito.
Poco attaccati alle idee, ai sistemi e alle dottrine che non conoscono, lontani dallo studio come da ogni serio lavoro, essi non sono che degli agitatori e dei tribuni. Dinnanzi alle folle si valgono dell’uno o dell’altro motivo: la patria o l’internazionale; Garibaldi o Marx; la guerra o la diserzione, Dio o il diavolo, con uguale indifferenza e con uguale calore. Si tratta di scegliere il momento, l’ambiente e il luogo. L’interessante e sfruttare il quarto d’ora favorevole per ottenere il successo, per capeggiare un movimento, per appaltare un attimo della volubile opinione generale e farsene esponente ed araldo. La pronta facoltà di assimilazione e di imptovvisazione degli italiani, così di frequente scambiata con la cultura, giova ad uomini cosi fatti. Le folle danno loro credito e vi è sempre qualche illuso o qualche speculatore che mette i fondi per un giornale.
La cultura dei Mussolini è fondata sugli opuscoli di propaganda. Essi vi aggiungono il fuoco dell’estroso temperamento e il gusto del paradosso; ma soprattutto l’acre piacere dell’invettiva e dell'attacco sanguinoso nella polemica personale. È una corrida brutale e selvaggia. da arene messicane, ma in Italia continua ad avere successo e piace alle folle.
In qualunque altro paese uomini così fatti sarebbero tenuti al bando: potrebbero, sì, agitarsi per proprio conto, ma non commuoverebbero nessuno e sarebbero considerati dei vagabondi, degli epilettici o dei maniaci.
Nella miseria del nostro paese e nel suo clima particolare trovano credito; folle sempre nuove di illusi si fanno loro d'attorno; i salotti si aprono alla novità; i letterati e gli intellettuali temono di non parere aggiornati e si affrettano a far loro credito; gli industriali subiscono l'inevitabile ricatto, le autorità fanno loro dei sorrisi. Per alcuni anni Mussolini ha tenuto in Svizzera durante la sua emigrazione, gli stessi discorsi ripresi poi a Forlì nel 1908. Ma in quella Confederazione è stato espulso dall'uno all'altro Cantone ed è stato considerato nulla più che un vagabondo, un mendicante o un maniaco pericoloso: a Forlì è diventato un uomo politico e un organizzatore; a Milano un capo partito; a Roma un fondatore di Impero. Poi le terribili vicende, venute di fuori, hanno ridato agli uomini e alle cose le loro esatte proporzioni.
Ma intanto l'Italia è andata distrutta. Un agitatore non ha bisogno di un passato e neppure di titoli di studio o di speciali referenze. È sufficiente che egli abbia il gesto, la parola, Io sguardo, il fisico del suo ruolo. A un applicato di un Ministero si domanda la licenza liceale, ma ad un capo politico nessuno può domandare che cosa ha fatto, quali studi ha compiuto, di quale lavoro è capace. Tanto meglio se ha qualche precedente penale: esso testimonia di un forte temperamento. Ora non si domanda neppure se un capo partito ha la cittadinanza italiana. Per un paese invaso da tutte le parti è chiaro che una simile domanda sarebbe del tutto indiscreta.
Nessuno può domandare che si acceda ai partiti e alle cariche direttive con regolari concorsi, ma solo sarebbe desiderabile un livello di educazione morale e politica che scartasse dai gradini del potere politico i parolai, i fannulloni, gli istrioni, i violenti, i profittatori.
Questa pretesa sembra assurda in Italia ove la carriera politica sta per confondersi con il brigantaggio.
Mussolini, passato, come abbiamo detto, all’interventismo, fondò, nel gennaio 1915, i «fasci di azione rivoluzionaria per l’intervento» e lanciò un manifesto nel quale si affrettò, puntando grosso, a prendere a partito la Monarchia con l'intimazione: «Guerra o rivoluzione ». Queste sono le origini più genuine del fascismo: origini sempre rivendicate da Mussolini. La Monarchia nel suo pensiero era accettata, anzi tollerata, purché l’aiutasse a realizzare un programma di partito e poi si sottomettesse al suo arbitro di dittatore. In caso contrario la Monarchia doveva essere rovesciata dalla rivoluzione dei fasci.
Ventotto anni più tardi Mussolini, tornando alle origini, farà con l’aiuto tedesco la sua rivoluzione antimonarchica e si proclamerà capo della repubblica di Salò.
Lo sviluppo del fenomeno ha una sua logica e una sua coerenza, ma qui preme di rilevare che questo torbido fermento tirannico e rivoluzionario, sanguinario e intollerante nasce in Italia dal socialismo e dal popolo e non dalla «reazione monarchica». Il metodo della intimidazione, nella vita politica italiana, sui massimi poteri dello Stato incominciò allora : esso si esercitò contemporaneamente sulla Corona e sul Parlamento.
I parlamentari nel 1915 si arresero subito e si trassero in disparte. Dal 1861 sino a quel momento erano stati segnalati vari difetti del sistema parlamentare: troppo frequenti le crisi di Governo, troppo numerosi e frazionati i partiti e mal definiti i loro programmi; troppo generici e troppo accesi i dibattiti, quasi sempre ed esclusivamente politici in una età tutta economica e tutta tecnica: facile, quindi, il distacco del paese legale dal paese reale con conseguenze gravi per il prestigio e per l'influenza del Parlamento.
Tutti questi difetti e altri ancora si erano a mano a mano rilevati, ma la sovranità della rappresentanza popolare non era stata mai discussa e tanto meno minacciata.
Nel 1915 questa tradizione fu rotta, ma le regole del giuoco furono rispettate e il dissidio fu sopito almeno temporaneamente. Con tutto ciò il Parlamento, nota G. Volpe nel suo libro Il popolo italiano tra la pace e la guerra, si considerò ferito e con lui tutte le persone che lo componevano e lo stesso sistema di cui esso era centro. La svalutazione del Parlamento era cominciata dopo le elezioni del 1913 per iniziativa dell'estrema sinistra. Si affermava da quella parte che Giolitti aveva frodato il suffragio universale e che la rappresentanza, nata dalle elezioni, era falsa. Un ordine del giorno del gruppo parlamentare socialista aveva, a fine novembre 1913, detto che « bisognava chiedere conto al Governo della sua condotta e che bisognava impedire il funzionamento di una Camera così fatta». La minaccia era stata pronunciata a sinistra, ma essa veniva effettuata diciotto mesi dopo, dalle correnti interventiste. Anche la stampa fu, con i suoi organi più diffusi e autorevoli, nel maggio 1915, per l’intervento e contro il Parlamento.
L’opinione pubblica venne quindi in contrasto con la rappresentanza nazionale e a un certo momento il Re dove scegliere tra l’una e l’altra. Il Sovrano confermò Salandra al potere, ma dal punto di vista costituzionale tutto si svolse con la massima correttezza avendo poi. gli esponenti della maggioranza giolittiana accettato unanimemente Salandra e approvata la sua politica.
Votarono, infatti, a favore del Governo Salandra, sia i giolittiani che i cattolici. La rinunzia di Giolitti a costituire un Gabinetto in una atmosfera così infiammata fu il segno della rinuncia del neutralismo alla lotta.
Tutti giudicarono saggia e illuminata la scelta del Re e il suo prestigio se ne giovò. Ma questo avvenne, naturalmente, perché la guerra fu vinta. Se la guerra fosse stata perduta la corrente neutralista, sconfitta nella primavera del 1915, avrebbe accusato la Corona di avere risolto a proprio vantaggio e a favore dei «circoli militari e reazionari» la crisi parlamentare del maggio.
L’equilibrio dei poteri costituzionali dello Stato rimase scosso e alle manifestazioni politiche per l’intervento se ne aggiunsero altre più propriamente teppistiche. Esse trovarono anche allora a Milano la sede più adatta.
Si tendeva colà a sostituire l’azione popolare all’iniziativa. del Governo rispetto ai sudditi nemici ritenuti spie e traditori. Vi furono più giorni di disordini e due notti di incendi e di rapine: infine il Governo dovette sostituire il Prefetto, il Questore e il Comandante del Corpo d’Armata. «Scene sinistre — scrive uno storico pur fautore acceso dell’intervento — che ripugnarono agli italiani migliori, anche caldissimi della guerra» (3).

(1) Giolitti consigliò al Re Marcora o Carcano o Boselli o — disse proprio così — uno qualunque.
(2) Il Mattino di Napoli, 14 maggio 1915.
(3) Questo fenomeno non è sfuggito a scrittori dichiaratamente antifascisti. Sinibaldo Tino nel suo libro: Il trentennio fascista dà rilievo alla campagna contro il Parlamento nella primavera del 1915 e scrive (pag. 29) : « La insistente, ostinata e baldanzosa predicazione di accuse e condanne contro l’idea, le funzioni e gli scopi dell’istituto se. dai poteri responsabili, fu più che tollerata, favorita e secondata, dal paese fu accolta senza controllo e senza soverchio approfondimento. Ma si rivelò la più fertile quanto funesta seminagione di quella messe di contumelie e vituperii dalla quale il fascismo attinse i mezzi e l’efficacia per procedere alla distruzione completa del diritto elettorale.....   .............

« L’aperta violazione delle norme statutarie e dei diritti dei supremi organi dello Stato fu la prima sopraffazione, un irrimediabile arbitrio, dai quali e per i quali il programma iconoclasta del fascismo, che tenne a rivendicare come iniziali successi la preparazione e lo svolgimento di quelle ”radiose giornate di maggio”, trasse poi una delittuosa Influenza e attinse come da un saggio e da una prova, le prospettive di ulteriori conquiste e la visione delle successive esperienze ».

giovedì 12 ottobre 2017

A Palazzo Cisterna il libro di Dino Ramella su Amedeo di Savoia

In mostra anche cimeli librari della biblioteca storica


Si presenta a Palazzo Cisterna, giovedì 19 ottobre alle ore 17, all’interno del programma degli incontri organizzati nelle sale auliche della sede della Città metropolitana di Torino dall’Associazione Amici della Cultura, l’ultimo libro di Dino Ramella edito da Daniela Piazza dal titolo “Il Duca d’Aosta e gli Italiani in Africa Orientale”. 
La pubblicazione presenta la nobile figura di Amedeo di Savoia d’Aosta rivisitata a ottant’anni dalla nomina a Viceré d’Etiopia nel suo periodo di governo in Africa Orientale Italiana. Un autentico spaccato di vita dell’Impero, vissuto attraverso testimonianze dirette, stralci di lettere, opinioni e immagini fotografiche legate ai protagonisti che si stabilirono in Eritrea, Somalia ed Etiopia tra l’occupazione italiana e i drammatici eventi che ne seguirono con lo scoppio della seconda guerra mondiale, dal 1937 al 1943.
“Il Duca d’Aosta e gli Italiani in Africa Orientale” ripercorre i fatti storici nei quali le memorie legate al principe si uniscono a quelle degli Italiani e delle Italiane che decisero di aprire un nuovo capitolo della propria vita in terra d’Africa. La scelta della sede della presentazione non è casuale. Palazzo Cisterna è stato dal 1867 (anno in cui Maria Vittoria, ultima discendente della famiglia dal pozzo della Cisterna, sposa Amedeo di Savoia) al 1940 (anno in cui i Savoia vendono il palazzo alla Deputazione Provinciale) dimora di casa SavoiaIl 21 ottobre 1898 negli appartamenti privati del palazzo di via Maria Vittoria nasce Amedeo, il protagonista del libro di Ramella,  figlio di Emanuele Filiberto e Elena d’Orléans.
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mercoledì 11 ottobre 2017

Catalogna: i monarchici italiani in sostegno di Re Felipe VI di Spagna

Le parole del presidente dell'UMI Alessandro Sacchi.


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'Partiamo da un esempio: Immaginiamoci che la Sicilia (regione autonoma a statuto speciale), domani mattina l'assemblea regionale siciliana, votasse a maggioranza, di celebrare un referendum #monarchia - repubblica in Sicilia, fissa una data (che lo potrebbe fare), sennonché questa legge che è stata emanata in una regione sicché a statuto speciale appartenente alla repubblica italiana, sarebbe sindacabile dalla corte costituzionale. Quest'ultima dunque dovrebbe dire: fermi tutti! Questo referendum non si può fare, perché l'articolo 139 della costituzione afferma che: l'Italia è unica e indivisibile e poi che la forma istituzionale non può essere oggetto di revisione, pertanto questo referendum non si può fare'.

Cosa accadrebbe in caso contrario?

'Nel momento in cui la regione siciliana lo facesse comunque, si mette fuori dalla costituzione, diventa una rivoluzione ed è chiaro che le rivoluzioni si reprimono (per adoperare un termine che contiene tutto), cioè vanno fermate in un modo o in un altro.

L'auspicio è dunque quello che i rivoltosi, vengano messi sotto processo per attentato alla costituzione, perché quest'ultima (quella spagnola) che è una delle costituzioni più recenti in Europa, fu condivisa dopo la vicenda franchista e l'ascesa al trono di Re Juan Carlos. La rivolta catalana è dunque un atto rivoluzionario, soprattutto perché messo in atto da poteri dello stato. Puigdemont ad esempio sta giocando con il fuoco, andrà sicuramente sotto processo perché si parla di un vero e proprio alto tradimento'.

Cosa rappresenta dunque la costituzione ?

La costituzione è un fatto che appartiene a tutti ed essa dice proprio che si la Spagna è una, e quindi che il Re è il capo di tutto lo stato spagnolo e pertanto lo ha portato a dire: Io parlo in nome degli spagnoli e soprattutto in nome dei catalani che della Spagna fanno parte.

Quale il ruolo del Re in questo caso ?

Il Re, non poteva far altro che dire: Io sono il custode della costituzione e la difenderemo. Perché la regola del gioco non si può violare. Noi monarchici lottiamo perché la repubblica riconosca che l'articolo 139 della nostra costituzione non funziona, ma è da quello che si parte! Sempre nel rispetto delle regole! Esiste un potere costituente e un potere costituito e solo il potere costituente può cambiare le regole del gioco. Le regole si rispettano e le rivoluzioni si sedano, possibilmente evitando di fare vittime. Non dimentichiamoci comunque che quando c'è stato l'attentato a Barcellona, il primo a correre è stato il Re, mostrando proprio l'espressione dell'unità nazionale che il Re incarna, ma purtroppo questo gesto è stato dimenticato con molta facilità dagli stessi catalani. 


Intero articolo consultabile al link che segue: