NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 14 novembre 2017

Da Peschiera a Peschiera - II parte

Almeno quattro volte, durante il suo Regno, gli piombò addosso
l’Italia tutta:
— nel 1915, per l’intervento nella prima guerra mondiale;
— nel 1917, dopo Caporetto;
—- nel 1922, con la Marcia su Roma;
— nel 1943, al colmo del dramma della seconda guerra mondiale.
Nel 1915, l’intervento a fianco dell’Intesa, imposto da una violenta campagna nazionalista, fu in definitiva avallato dal Parlamento dopo pesanti alternative. Il Re, pur conscio dei lutti e dei sacrifici cui il Paese andava incontro, non potè sottrarsi all’onda emotiva del patriottismo, ed accettò la guerra, assumendo subito su di sé il compito ingrato di parteciparvi con l’oscura ma costante presenza sui campi di battaglia; il Re soldato, appunto.
E mentre questo faceva, arrivò, nell’autunno 1917, la sconfitta militare, contro la quale si aderse, da solo, mentre tutto pareva crollare. Vedremo fra poco questo suo momento, vissuto da protagonista, qui a Peschiera.
Nel torbido dopoguerra, tra bagliori di conflitto civile che stavano travolgendo gli incerti governi liberali, anticipò il volere del Parlamento con il sofferto incarico a Benito Mussolini (cui la Camera, subito dopo, concesse a larga maggioranza addirittura i pieni poteri), e precorse il consenso popolare per il governo monocolore fascista (che infatti nel 1924, in libere elezioni parlamentari, ottenne il 65% dei voti).
E infine, nell’ora tremenda dell’estate 1943, salvò l’Italia dall’annientamento, consentendole di riprendere, sia pure dopo prove dolorose, un cammino dignitoso e civile. Troviamo, ancora, in questa circostanza, un nome simile a quello dì Peschiera; Pescara, che i detrattori contrappongono al primo, ed io invece collego strettamente, perché il Re di Pescara è sempre quello di Peschiera, che compie un sacrificio ancora più grande, proprio perché misconosciuto ed intriso di atroci sofferenze morali e materiali.
Da Peschiera a Pescara, dunque? No, da Pescara (vedrete) torneremo, alla fine, un’altra volta a Peschiera, qui/adesso. Ma dobbiamo illustrare questi tre passaggi.
Peschiera 1917, ottantuno anni or sono. Incombeva un nome: Caporetto, un piccolo paese attualmente in Slovenia. Tutta Italia inorridiva, recriminava, malediceva. Sotto accusa i generali, gli ufficiali, i soldati, mentre il nemico avanzava. Noi, cari amici, non siamo capaci di perdere con la dignità degli antichi Romani o degli Inglesi. Se vinciamo, tutto è sanato, anche l’imbroglio; se perdiamo, non servono neppure la buona ragione o l’eroismo di un silenzioso olocausto.
Ancora adesso, la verità su quella sconfitta viene messa da parte, perché non fa comodo.
Non fu colpa né di Cadorna, né di Badoglio, né di Capello, né dell’ultimo soldatino sbandato. Fu colpa esclusiva di un clamoroso errore di valutazione del governo italiano, a ciò indotto da identico errore dei governi alleati, francese ed inglese.
Bisogna risalire all’inverno 1916-17. Alla fine del 1916, nessuno dei belligeranti pareva ormai in condizione di potere vincere. I popoli, dissanguati da spaventose carneficine, neppure ricordavano più quali fossero gli scopi di guerra iniziali, ed aspiravano tutti alla pace. Il grido “il prossimo inverno non più in trincea” risuonava clandestino, ma poderoso. Il Papa Benedetto XV° invocava la fine della “inutile strage”.
Due Capi di Stato, Carlo l di Asburgo e Guglielmo II di Germania, captarono per primi l’esigenza di mettere fine al conflitto, e, con nota ufficiale del 16 dicembre 1916, trasmessa agli Stati nemici per le vie diplomatiche, proposero una immediata Conferenza di Pace.
Contro questa proposta si scagliarono però i francesi e gli inglesi, decisi a distruggere per sempre gli Imperi centrali. Essi speravano in un imminente intervento degli Stati Uniti, propiziato dal Presidente Wilson; questi aveva appena vinto, in novembre, le elezioni presidenziali (di strettissima misura), ed era nemico giurato del principio monarchico, che voleva abbattere non soltanto in Germania ed Austria-Ungheria, ma altresì in Russia. E proprio all'eliminazione preventiva dello zarismo (benché alleato dell’Intesa) Wilson aveva subordinato il proprio intervento.
Così, Francia e Inghilterra, sia per questo motivo, sia per il timore che in Russia prevalessero forze pacifiste e sensibili alla proposta austro-tedesca, organizzarono, con la collaborazione della destra nazionalista russa (che dominava la duma eletta nel 1912), il colpo di Stato del marzo 1917. Agli idi di marzo, lo Zar Nicola, il fedele alleato che aveva salvato la Francia nel 1914 e l’Italia nel 1916, fu pugnalato alla schiena dai suoi amici, e da coloro che gli avevano giurato fedeltà; un colpo di Stato instaurò la repubblica e fece prigioniera la famiglia imperiale.
La notizia fu accolta in Occidente con travolgente entusiasmo; andate a sfogliare i giornali del tempo, e troverete inni di gioia. La caduta della Monarchia fu considerata l’alba della vittoria militare contro i tedeschi. Si credette che la nuova repubblica avrebbe intensificato la guerra; e poiché si sapeva anche che l’avvenimento apriva il cammino all'intervento americano, le prospettive militari si dipinsero di rosa.
Per tutto il 1917, sui fronti francese ed italiano, ci si comportò come se queste previsioni fossero fondate. Gli eserciti dell’Intesa attaccarono a testa bassa, dappertutto, subendo perdite umane incalcolabili, e cozzando contro valida resistenza nemica. In Italia, a carissimo prezzo, si fecero alcuni progressi, e, soprattutto, si riuscì a superare l’Isonzo, in agosto, sull’altopiano della Bainsizza, in direzione di Lubiana.
A questo punto, però, il tracciato del fronte italo-austriaco si presentava enormemente sbilanciato in avanti, lunghissimo, tortuoso, non difendibile nel caso di inversione di tendenza (per il caso, cioè, di dovere passare alla difensiva).
Intanto, le cose in Russia andavano esattamente all’opposto di quanto si era creduto dai governi inglese, francese e italiano.
Alla destra nazionalista si era subito contrapposta una sinistra eversiva, risvegliata dagli accenti repubblicani. E proprio questa sinistra si era gettata, abilmente, sul grande argomento che allo Zar ed alla Zarina era stato proibito: la pace. Le conseguenze sull’esercito, che fino a tutto il 1916 aveva tenuto eroicamente nel nome dello Zar, furono catastrofiche; esso si dissolse come neveal sole. E gli Imperi Centrali si trovarono d’un tratto liberati dall’incubo della guerra sui due fronti occidentale e orientale. Divisioni tedesche affluirono sul fronte italiano, e l’iniziativa passò di mano.
Qui mancò, nel governo, l’elasticità necessaria per comprendere che bisognava trarre le conclusioni dell’accaduto. Nessuno pensò di imporre una ritirata strategica preventiva, che accorciasse il fronte e permettesse una difesa più organica. Anzi, una siffatta idea fu demonizzata, perché avrebbe comportato l’abbandono di alcuni territori, ed avrebbe abbassato il morale del Paese, già basso.
Fu, dicevamo, errore gravissimo, nel quale il governo italiano fu coinvolto da quei medesimi francesi ed inglesi che, quando i nodi vennero al pettine, seppero soltanto insultare e deridere l’Italia; come se loro non avessero subito ben altre clamorose disfatte, tranquillamente snobbate!
Occorre rilevare che, nella sventura, l’Italia fu ancora fortunata.
L’offensiva nemica fu lanciata sull’lsonzo, all’estremità più lontana del fronte, il che permise di salvare una parte dell’esercito, e di arretrare con un minimo di gradualità, prima al Tagliamento e poi al Piave. Se, invece, l'attacco fosse partito dal saliente trentino, verso gli Altipiani, come nel 1916, non solo sarebbe andato perduto tutto il Veneto, ma, peggio, l’intero gruppo di armate all'est del saliente sarebbe rimasto accerchiato senza scampo.
Caporetto, allora. Facile ironizzare. Tuttavia, perché non ricordare che ci fu, subito dopo, una battaglia di arresto sulla nuova linea del Piave? E che qualcuno, al vertice dello Stato, mentre il governo Boselli si dimetteva in preda al panico, prese le redini, rianimò il Paese, chiamò alla guida delle Forze Armate uomini nuovi e più vicini ai soldati, volle che non si parlasse di Adige e di Mincio bensì soltanto di Piave e di Grappa?
Questo qualcuno, il piccolo coraggioso Re di Peschiera, inm uniforme disadorna ma deciso, chiaro, energico, parlò agli alleati scettici, e disse loro che l’Italia teneva duro. Tanto duro che, giusto 80 anni fa, lo sforzo fu coronato dalla vittoria finale. Fu dunque il Re ad imprimere la svolta. Tutto il resto, sono chiacchiere, polemiche vuote, maldicenze sciocche. La verità, signori, non si cancella.
Pescara, adesso. Pescara è come Peschiera. Un governo, quello di Mussolini, aveva condotto l’Italia in un vicolo cieco, senza uscita. Le vicende della politica internazionale e delia guerra avevano creato circostanze imprevedibili: da un lato un nemico apparentemente irresistibile e determinato ad occupare il nostro territorio, dall'altro un alleato intenzionato ad usare proprio quel territorio come campo di battaglia per coprirsi il fianco meridionale.
Incapace di prendere una qualsiasi decisione, il pentito che esprimeva quel governo si rivolse al Re, con voto a maggioranza del suo organo supremo, perché assumesse tutti i poteri. E il Re fu costretto ad esporsi in prima persona. Ma cosa poteva fare?
Nella morsa dei due nemici, fece tutto il suo dovere. Andò a Pescara, e poi a Brindisi, per una sola, insuperabile ragione: salvare il salvabile dell’Italia, a rischio della propria vita, del proprio onore, del proprio trono. Il salvabile era la continuità dello Stato, la validità dell'armistizio firmato, l’incolumità di Roma città aperta, del Vaticano, delle masse di profughi rifugiate nella capitale.
Adesso non preoccupatevi. Non ho intenzione di affrontare in questa sede la questione dell’8 settembre 1943. Non la si potrebbe trattare in estrema sintesi, data l’enorme ampiezza dell’argomento; solo vi dirò, come il Manzoni a proposito della storia della  peste sul Bergamasco, che, per chi volesse, la storia “la c’è”, anzive ne sono moltissime, forse troppe, e che personalmente ho cercato di approfondirla nel libro che troverete in vendita.

Però ho il dovere di segnalare (e questo è importante, perché è un fatto nuovo), l’emergere, nell’attuale quadro storico-politico, di un fenomeno tanto aberrante quanto autorevolmente diffuso, ad opera di alte personalità, come il Presidente della Camera on. Violante, e di noti opinionisti quali il Montanelli, il Buscaroli e il Bertoldi: la tendenza ad unificare in un unico calderone le diverse ed opposte accuse al Re, sia di provenienza nazi-fascista che di provenienza dei vincitori anglo-americani.

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