NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 1 novembre 2017

L’Italia verrà presa sul serio solo continuando a restare unita

Le richieste autonomiste sono giuste, ma se ci dividiamo diventeremo l’anello debole

di SALVATORE SFRECOLA

L'anello debole dell'Europa rischia di diventare debolissimo. L’Italia, cui spesso è associato quell’aggettivo per la scarsa incisività nel contesto europeo e l’insufficiente Pii,appare ancor più precaria alla vigilia di elezioni che potrebbero aprire una stagione di incertezze per le difficoltà di produrre una maggioranza forte e coesa. Si rafforzano le ipotesi di accordi strumentali alla conquista del potere con finalità di tutela di interessi non esplicitati agli elettori.
«Inciuci», nella migliore delle ipotesi, anche per evitare una stagione «alla spagnola», con ripetute consultazioni alla ricerca di una maggioranza sempre sfiorata, per cui il governo di Mariano Rajoy si regge sull'astensione del Partito socialista. Di maggioranze impossibili si sente dire nel contesto tripolare in cui centrodestra, Pd e Mss nei sondaggi condividono percentuali simili.
Ma questa è anche la stagione dell’insufficienza di identità nazionale, componente essenziale della forza morale e politica di un popolo che si sente tale proprio perché nazione. Anche nella patria dei 1.000 campanili, che richiamano storie diverse dal Nord al Sud e all’interno di quelle aree. Se si pensa ai «convenuti dal monte e dal piano (...) cittadini di 20 città» che si ritrovarono a Pontida per schierarsi in difesa della autonomia dei loro Comuni contro Federico I, il Barbarossa, all’esperienza dei Comuni toscani o alle «città libere» della Puglia. Mentre altrove, dinastie locali non guardavano oltre l’orizzonte pur di mantenere il potere e si facevano vassalle di potenze  straniere, dalla Francia all’Austria alla Spagna, nell’assoluta indifferenza dei popoli. Per cui il noto adagio «Franza o Spagna purché se magna».
Eppure, a oltre 150 anni dall’unità, insorgono a minarne le fondamenta e il futuro polemiche localistiche, dalla contestazione dei plebisciti che decretarono le annessioni al Regno d’Italia, al riconteggio dei Sì all’annessione, dimenticando che il senso della Patria seguiva il pensiero di pochi intellettuali. Tra i primi i cattolici,
da Vincenzo Gioberti ad Antonio Rosmini, e i laici come il genovese Giuseppe Mazzini, il lombardo Carlo Cattaneo, e il siciliano Francesco Ferrara, esule in Piemonte. E poi Camillo Benso conte di Cavour, Massimo d'Azeglio e Luigi Carlo
Farmi, dalmata, un elenco infinito di cuori e di intelligenze che da ogni parte d’Italia, come il «grido di dolore» che percepiva Vittorio Emanuele II, si levarono a propugnare l'unità.
Cosa non ha funzionato se c’è chi rivendica la propria storia e la propria cultura, le proprie tradizioni? Fa bene a farlo: questa è la nostra ricchezza. Ma perché demonizzare l’unità cambiando nomi a strade e piazze, eliminando statue? Per alimentare divisioni che minano la coesione e l’immagine del Paese e la capacità di essere patria comune dalle Alpi al Lilibeo nell’Europa che tante patrie vuole rappresentare consapevole delle comuni radici che la Convenzione europea, chiamata a scrivere la prima Costituzione, non ha voluto incastonare nel preambolo, e definire «cristiane».
Nonostante la consapevolezza diffusa che quelle radici, nate sulle sponde del mar Egeo alimentate dal diritto di Roma, hanno permeato l’Europa.
Cosa non ha funzionato? Tanto, molto in una repubblica che nella Carta «riconosce e promuove le autonomie locai» ma non riesce a dare corpo al principio di responsabilità che esalta la politica nelle periferie operose, senza che venga meno la solidarietà per le aree svantaggiate in forme assistenzialistiche. Autonomia, dunque, e responsabilità verso la comunità locale e nazionale.
In forza di un nuovo modo di governare, di un nuovo patto tra gli italiani. E allora ecco che Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti parlano di nuovo risorgimento, e Matteo Salvini scende al Sud per una Lega che vuol essere nazionale che porti le esperienze virtuose delle aree più ricche del Paese. Un nuovo risorgimento perché siamo in tanti a sentire fastidio nella definizione di «anello debole» e non risorsa preziosa dell’Europa attribuita all’Italia, che vorremmo porta aperta sull’Oriente come avevano
immaginato uomini di pensiero e azione, da Federico II, che alle soglie del Medioevo immaginò rapporti diplomatici e commerciali con quei mondi ma con assoluta fermezza nella difesa dell’identità, a Cavour che volle unificare l’Italia per renderla prospera e protesa verso l’Europa e l’Oriente.

 La verità 1/11/2017

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