NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 24 febbraio 2018

Io difendo la Monarchia - Cap III - 3


Ma il socialismo, quello delle origini e quello del 1919-1922, non era insorto contro la democrazia? In un opuscolo: Fascismo e democrazia (Roma 1924) di un autore antifascista, S. Merlino, si legge: « La democrazia era morta da un pezzo quando il fascismo venne e la seppellì. Essa non era già più che una larva. Non dobbiamo tacere del contributo che alla decadenza della democrazia portò involontariamente una certa propaganda dei partiti sovversivi contro lo Stato additato all'avversione delle moltitudini come il braccio destro della borghesia, il gendarme messo a guardia della proprietà individuale. Lo Stato era questo, ma era anche altro. Il suo contenuto non è ristretto alla difesa de capitalismo, ma comprende interessi generali di prim’ordine e non soltanto materiali. I socialisti di tutte le scuole batterono furiosamente contro lo Stato e contro la democrazia, specialmente contro il regime parlamentare e rappresentativo denunciandone le deficienze, la corruzione e il tradimento. E non badavano che, fomentando sfiducia e il disgusto per il regime costituzionale favorivano le mene e le mire degli assolutisti che stavano in agguato e attendevano l’occasione per uscire a foraggiare.  Così il fascismo sorse dalla degenerazione della democrazia». Sviluppo fatale, quindi, anche se non benefico.
Sviluppo logico, quindi, di precedenti errori e su di un terreno, come quello italiano, particolarmente negato alla democrazia. Ecco, a conferma di ciò, quel che dice un altro scrittore antifascista: Mario Vinciguerra: «Il fascismo ha potuto sfruttare ampiamente uno di quegli stati di animo diffuso di sfiducia esasperata, da parte della borghesia e di aspettative deluse da parte del proletariato, prima ubbriacato di rivoluzionarismo e poi abbandonato barcollante a uno svolto di strada. Si era giunti a quel tale punto critico nel quale le classi che pesano di più sulla condotta di un paese arrivavano a dire, crollando le spalle, che, tutto sommato, meglio che la turbolenza intermittente e il marasma economico, in cui si era caduti, era ingolfarsi in una rivoluzione dalla quale qualche cosa di nuovo sarebbe venuto fuori. Era naturale che quando si è presentato il fascismo, rivoluzionario bensì, ma già con un programma di rinnovato ordine e rinnovata autorità nessuno — altro che qualche solitario — si è curato di rilevare e preoccuparsi delle contraddizioni fra i detti che passano e gli atti che fanno la storia di oggi e preparano la storia di domani. Il fatto sta che il fascismo ancora esso ha giocato d’azzardo su di un tavolo troppo uso ai giuochi di azzardo. Si parla di rinnovamento a ciascuno di questi movimenti tellurici, che scuotono il nostro terreno politico e ogni volta, ora rivoltati di qua, ora rivoltati di là, sono gli stessi elementi ancora grezzi e caotici, i quali — si dovrebbe vedere da tutti ormai — non sono sufficienti per costituire quell’amalgama che si chiama uno Stato. Il male originario della nostra improvvisata e rafforzata forma vedere da tutti ormai — non sono sufficienti per costituire quell’amalgama che si chiama uno Stato. Il male originario della nostra improvvisata e rafforzata formazione nazionale risale alla superficie di volta in volta più cancrenosa pel fatto stesso che negli anni che sono passati non hanno sollevata di un pollice, anzi hanno abbassata e abbruttita la mentalità, l'educazione politica del nostro paese » (1).
Dunque l'ultima crisi del Ministero Facta prolungata per oltre un mese senza alcuna conclusione (dimostrazione impressionante del dissolvimento parlamentare) stimolava Mussolini ad accelerare i tempi.  Esisteva ormai un governo di fatto, più forte e più attivo di quello legale. Ma ad esso mancava il Mezzogiorno. La penetrazione dei moti politici del Nord nelle provincie del Sud è sempre avvenuta lentamente e con difficoltà. Così fu con il movimento mazziniano, così per la penetrazione del Piemonte tra il 1860 ed il 1870; così ancora con il socialismo, così per il fascismo.
Il fondo del Mezzogiorno è più inerte e, in sostanza, più individualista di quello del Nord: ma la borghesia è più dotata di senso politico, di spirito critico e di senso del diritto. Mussolini sapeva che il Mezzogiorno era monarchico e che egli non poteva sperare di raggiungere il Governo con un atto di forza se non abbandonava la sua antica riserva verso la Monarchia. Il paese voleva l’ordine e la fine dei conflitti sociali, voleva la rivendicazione della vittoria e la difesa degli interessi nazionali, ma appunto, per questo non poteva accettare una crisi istituzionale provocata da Mussolini. Egli comprese e preparò la sua falsa conversione con il discorso di Udine: (20 settembre) poi annunciò che a Napoli avrebbe precisato ancora meglio la posizione del fascismo verso la Monarchia.
Il 13 agosto a Milano Michele Bianchi aveva già enunciato con chiarezza il programma del partito per l'immediato futuro. «O il fascismo potrà permeare legalmente della sua linfa vitale lo Stato o esso prenderà il potere con la forza». Si cominciava così a parlare della «marcia su Roma» e si costituiva per iniziativa di Balbo un consiglio militare delle squadre presso la Direzione del Partito. In seguito Balbo divenuto Maresciallo Ministro e Governatore sarà uno degli elementi più frondisti del Partito : contrario al razzismo, contrario all’Asse e contrario alla guerra. Nel 1920-1922 era stato però l'elemento più estremista. Era stato contrario alla pacificazione con i socialisti e aveva capeggiato il movimento squadrista con il netto proposito di costituire un esercito volontario per la conquista dello Stato.
A Udine il 20 settembre Mussolini fece il gran gesto per guadagnare le simpatie del Mezzogiorno e per non
trovare sui suoi passi l’Esercito nel momento decisivo. Egli disse : «Credo si possa rinnovare il regime lasciando la Monarchia. In caso contrario gran parte dell’Italia non ci seguirebbe. E poi avremmo dei casi di separatismo regionale». Conclusione: «Dobbiamo avere il coraggio di essere monarchici». Si vede dal tenore di queste dichiarazioni che egli faceva un grande sacrificio. Roma valeva più di una abiura e più di una messa.
È un discorso interessante quello di Udine perché il romagnolo anche fingendo, per opportunismo, aveva scatti preoccupanti di sincerità. A un certo punto nelparlare di Roma e della democrazia romana ha un curioso inciso. Da Roma — egli dice — «dove si stampano troppi giornali, molti dei quali non rappresentano nessuno o niente». E pensare che nella grande maggioranza furono favorevoli alla «marcia su Roma». E in un altro punto: «l’Inghilterra a mio avviso dimostra di nonavere più una classe politica all’altezza della situazione.
Infatti voi vedete che fin qui, da quindici anni, un solo uomo impersonò la politica inglese. Non è stato ancora possibile di sostituirlo. Lloyd George che a detta di coloro che lo conoscono intimamente è un mediocre avvocato, rappresenta la politica dell’Impero da tre lustri. L’Inghilterra, anche in questa occasione, rivela la mentalità mercantile di un impero che vive sulle sue renditee che abborre da qualsiasi sforzo che sia suo proprio, che gli costi del sangue».
Dove si vede che Mussolini non era un genio nel 1922 e un povero uomo frusto e stanco nel 1939, ma era demagogo, rozzo, inesperto ed incolto nel 1922, come nel 1935, come nel 1940. Non sarebbe bastato un simile giudizio sul mondo inglese (giudizio rimasto in lui invariato, nonostante il lungo periodo di governo, e che lo ha portato a considerare finita la guerra dopo la sconfitta francese nel 1940 e a precipitare nella lotta l’Italia per non perdere la sua parte di bottino), per impedirgli di assumere un mese dopo il governo dello Stato?
E infine ecco quel che disse sul tema della Monarchia: egli ricordò le polemiche sulla sua tendenzialità repubblicana che erano appena di un anno prima e disse che avevano la loro ragione d’essere e rispondevano a un determinato e meditato pensiero. E poi si domandava: «è possibile una profonda trasformazione del nostro regime politico senza toccare l’istituto monarchico?... ».
«Il nostro atteggiamento di fronte alle istituzioni politiche non è impegnativo in nessun senso... (una voce grida: Viva Mazzini!)... ora io penso che si possa rinnovare profondamente il regime lasciando da parte la istituzione monarchica. Noi dunque lasceremo in disparte, fuori dal nostro giuoco che avrà altri bersagli, l’istituto monarchico anche perché pensiamo che gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto. Avremmo forse del separatismo regionale perché succede sempre così... In fondo io penso che la Monarchia non ha alcun interesse a osteggiare quella che ormai bisogna chiamare rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse perché se lo facesse diventerebbe subito bersaglio e se diventasse bersaglio è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita e di morte... Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile » (2).
Vale la pena di esaminare questo discorso perché esso torna attuale quando Mussolini fonda, dopo 21 anno,
con l'aiuto dell'odiato tedesco la repubblica sociale italiana. Si vede che il romagnolo compie un grande sacrificio  perché, probabilmente, dopo avere sperato di divenire il capo dello Stato, si accorge che avrebbe incontrato
l’ostacolo dell'Esercito e del Mezzogiorno. Decide allora di cominciare a ricattare la Monarchia. O il Re darà il potere al fascismo o diventerà bersaglio del fascismo. Noi fascisti siamo e rimaniamo repubblicani, ma non bisogna  mettere tutto in giuoco in un solo istante. Lasciamo per ora fuori del nostro giuoco la Monarchia. Ecco la chiara anticipazione di quella funesta diarchia che il romagnolo confesserà di avere attuato per ben ventuno anno nel suo libro: Storia di un anno. 


(1) M. Vinciguerra: Il fascismo, Torino, 1923, pag. 6.
(2)  Benito Mussolini: I discorsi della rivoluzione. Edizioni Alpes, Milano 1929

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