NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 31 marzo 2018

E Carlo Alberto “liberò” gli ebrei


di ELENA LOEWENTHAL

170 anni fa il decreto che estendeva i diritti civili ai non cattolici 
Quest’anno la Pasqua avrà un sapore particolare per gli ebrei del Piemonte. Nei giorni intermedi della settimana di festa, se nella piccola sinagoga torinese dove un tempo c’era il forno per le azzime capiterà di rivolgere uno sguardo all’armadio santo - che contiene i rotoli della Torah - dipinto di nero in segno di lutto accorato per la morte di re Carlo Alberto, lo si farà con pizzico di malinconia tutta particolare e una gratitudine indimenticabile.  
 
Perché proprio cento e settant’anni fa - il 29 marzo 1848 - il sovrano piemontese firmò sul campo di battaglia di Voghera un decreto col quale concedeva tutti i diritti civili agli ebrei e agli altri «acattolici», aprendo quel processo di emancipazione che fu fondamentale non soltanto per i figli d’Israele - e fra gli altri anche per i Valdesi del Piemonte - ma prima ancora per la civiltà. Fino a quello storico momento e per quasi duemila anni, infatti, gli ebrei avevano vissuto rinchiusi dentro un’emarginazione fisica e teologica: erano i «perfidi giudei», cioè gli infedeli per eccellenza, erano l’unico «diverso» dentro una società europea perfettamente uniforme. Ma in quanto testimoni viventi della passione di Gesù e del messaggio cristiano andavano preservati come una sorta di reperto archeologico a vista. In questo equilibrio fra colpa e sopravvivenza a uso teologico gli ebrei erano stati sempre sottoposti a una ricca serie di divieti e privazioni e trattati non da cittadini ma da stranieri spregevoli, anche se come nel caso del nostro Paese potevano vantare una continuità e delle radici millenarie.  

Con la firma di Carlo Alberto, che da quel giorno in poi fu per gli ebrei piemontesi un vero e proprio idolo - con tutto il rispetto per il rigoroso monoteismo biblico - gli ebrei divennero «come gli altri» pur nella loro diversità. E se oggi la parità di diritti civili è giustamente un dogma della democrazia, bisogna pensare che a quel tempo rappresentò un passo sorprendente.  

E Carlo Alberto diede prova di una straordinaria lungimiranza, degna di un grande sovrano, pur senza derogare al rinomato (mai abbastanza rinomato, a dire il vero) understatement piemontese: «Sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari dell’Interno, abbiamo ordinato ed ordiniamo: Gli Israeliti regnicoli godranno, dalla data del presente, di tutti i diritti civili e della facoltà di conseguire i gradi accademici. Nulla è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette. Deroghiamo alle leggi contrarie al presente». In questo scarno frasario del Regio Decreto del 29 marzo del 1848 sta racchiusa quella rivoluzione epocale che ha reso gli ebrei dei veri italiani. Anche se esattamente novant’anni dopo di allora il regime fascista emanava quelle infami leggi razziali cui i figli d’Israele guardarono innanzitutto con sgomenta incredulità. 

La storia è molto spesso capace di stupire, nel male come allora. Nel bene di coincidenze che paiono costruite a tavolino, con mano sapiente e cuore partecipe. Proprio come la doppia ricorrenza di questi giorni, in cui i figli d’Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano nell’avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è il Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, dalla schiavitù d’Egitto all’autodeterminazione nel deserto, al di là del Mar Rosso. Non un mero transito bensì una vera e propria trasfigurazione, perché quando arriva dopo tanto tempo e tanta fatica e non meno sofferenza, la libertà ti cambia.  



venerdì 30 marzo 2018

FERT: il motto dei Savoia ancora oggi senza una spiegazione



Oggi la curiosità ci spinge fino al basso Medioevo, precisamente nella seconda metà del 1300, quando Amedeo VI di Savoia creò quello che sarebbe stato il motto della casata reale piemontese da quel momento in poi.
Un motto – un acronimo, per la precisione – di cui non lasciò spiegazione alcuna, e che ancora oggi affascina e confonde gli interpreti: FERT.
Nascita del motto
Amedeo VI di Savoia, il celebre Conte Verde, coniò il motto nel 1364 in occasione della creazione della massima onorificenza di casa Savoia, l’Ordine Supremo della Santissima Annunziata. L’appartenenza a tale ordine prevedeva il privilegio di poter indossare un collare (simile a quello dei levrieri, secondo le cronache del tempo), con inciso proprio il motto FERT e chiuso dai famosi nodi Savoia.
L’idea di Amedeo VI era quella di creare un gruppo unito, originariamente composto da 14 cavalieri, per evitare guerre interne ai nobili più importanti di quel periodo e, allo stesso tempo (si noti l’immagine del ‘collare’, che richiama fedeltà e obbedienza) tenerli sotto il proprio potere. L’investitura poteva infatti essere conferita esclusivamente dal sovrano motu proprio.
Nessuna spiegazione sul vero significato
Gli anni passarono, il motto continuò ad essere usato e nessuna spiegazione venne mai fornita sul suo significato. Preso atto, con il passare dei secoli, dell’impossibilità di risalire alle vere intenzioni del Conte, gli storici si sono sbizzarriti con interpretazioni più o meno fantasiose, ma plausibili.

[...]

giovedì 29 marzo 2018

Gli italiani? Un popolo che rischia di dimenticare la propria storia


DINO COFRANCESCO
Gli eventi epocali e i grandi uomini che fondano una comunità politica - o la fanno assurgere al rango di “grande potenza” sotto il profilo militare, economico, culturale - alimentano i “miti collettivi”, matrici delle identità etico- politiche degli individui e dei gruppi sociali. A differenza delle ideologie - elaborate da una ragione tendenzialmente egualitaria e universalistica - i miti non sono una fedele registrazione del passato ma un racconto edificante, destinato a unire gli spiriti e a farli sentire parte di una grande famiglia - soprattutto quando Annibale è alle porte e la difesa della “patria” può comportare perdite di beni e di vite umane. Nel mito si rimuovono i lati oscuri della storia: il fatto, ad esempio, che la bandiera a stelle e strisce sventolava sui reggimenti che massacravano le tribù indiane - o le ricacciavano in riserve sempre più sterili - o che il tricolore era inalberato nei luoghi in cui il Maresciallo Rodolfo Graziani sterminava migliaia di etiopi, come rappresaglia al fallito attentato di Addis Abeba. È inevitabile che sia così giacché i legami comunitari - dalla famiglia alla nazione - riscaldano e danno vigore per ciò che hanno avuto di positivo: quando pensiamo con tenerezza alla nostra famiglia, ai parenti che non ci sono più, solo per un attimo ci vengono in mente i conflitti talora esasperati, i drammi, le incomprensioni, le ribellioni che abbiamo vissuto giacché tutto il dolore che la convivenza ha cagionato viene poi riscattato dai momenti idilliaci, dalle festività che hanno ricongiunto nonni, genitori, figli, zii, cugini, dalla solidarietà di cui talora abbiamo beneficiato nei giorni bui. Certo il “racconto della comunità” non è la “storia della comunità” ma la seconda non è neppure una sterile denuncia dei miti della prima. Come scriveva Benedetto Croce, in una stupenda pagina di Storiografia e idealità morale, «la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo». I francesi il 14 luglio celebrano la Bastiglia con una grande festa che fa incontrare per le strade cittadini di tutti i ceti ( e oggi di tutte le razze): sono gli storici, da Alexis de Tocqueville a François Furet, a dirci che cosa fu veramente la Rivoluzione francese e a illustrarne le tante luci e le non meno numerose ombre.
Nel nostro paese, forse anche per essere stata l’Italia un vuoto di potere che, nei secoli, le grandi monarchie europee hanno tentato di riempire manu militari - ingenerando nei popoli della penisola l’attitudine dell’arrangiarsi e al “si salvi chi può”, Franza o Spagna purché se magna.., e un tenace scetticismo nei confronti di uomini e di istituzioni - il mito politico di fondazione, il Risorgimento, ha sempre trovato, pronto a farlo a pezzi, lo spirito beffardo, che “non se la beve”: una figura patetica che, sotto la maschera dell’uomo superiore - dell’Übermensch - rivela solo la miseria spirituale di un popolo, almeno in una sua larga parte, rimasto suddito e, quindi, privo di identità e di dignità.
A queste considerazioni mi ha portato la lettura della prima pagina di Libero del 18 marzo che recava un titolo a caratteri cubitali “Ma quale festa per i 157 anni dell’Italia. Lutto nazionale e un sottotitolo “L’unità è un’invenzione politica e retorica…”. Nell’articolone di Renato Farina, si leggono frasi come queste: «Non esiste niente di più lontano dall’unità dell’Italia. Da quando in qua si brinda davanti a un fallimento?... questa unità non c’è mai stata... per gravissime colpe storiche delle nostre classi dirigenti, e starei per dire della tanto osannate crème piemontese e garibaldina... In realtà, per paradosso, la proclamazione del 17 marzo 1861 sancì sì lo Stato unitario, ma soprattutto consacrò la rottura di una unità spirituale della nazione» Stando all’apota Farina, «l’Italia intesa come nazione, come popolo, esisteva da secoli a dispetto delle mire unitarie dell’élite culturale illuminista e abbastanza imperialista». Ma in che senso ci si chiede? E qui spunta fuori il cattolico tradizionalista, dimentico che senza i cattolici liberali e i liberali cattolici il Risorgimento non si sarebbe mai realizzato. Per lui l’Italia, prima dell’infausto 1861, esisteva come «popolo cattolico unito non tanto dalla lingua italiana (parlata soltanto dalle classi colte) ma dal latino, che forse era compreso a senso ma di certo parlato in tutte le case» un’identità, peraltro, allargata a francesi, spagnoli austriaci, ungheresi che qualche dimestichezza col latino avevano anche loro. Farina, sicuramente uomo di destra, mostra, comunque, di non aver pregiudizi: toglie dalla soffitta della storia, per riproporlo in salsa veteroleghista, l’antirisorgimentismo della vecchia sinistra marxista quella della “conquista regia” e della colonizzazione del Sud: «l’unità imposta con le armi, seguita dalla brutale repressione del brigantaggio; l’imposizione di una burocrazia straniera; la rapina da parte dei Savoia - silente Garibaldi dell’oro conservato nei forzieri del Banco di Napoli... La leva obbligatoria, mai conosciuta prima nelle Due Sicilie, con l’imposizione della divisa e dell’obbedienza a ufficiali incomprensibili».
Forse è tempo perso ricordargli 1) che il Risorgimento, lungi dal costituire un repertorio retorico continuo e martellante, nell’Italia del secondo dopoguerra era così rimosso - a parte certe letture obbligate e certe cerimonie politiche - che a un liceale degli anni Cinquanta (come me) appariva un trascurabile evento della storia europea ( più tardi mi resi conto della sua rilevanza leggendo i grandi storici dell’Ottocento francesi, russi, inglesi e tedeschi); 2) che il Risorgimento, come la Rivoluzione francese, fu alle origini di una grande stagione di ricerche magistrali, promosse, soprattutto, da storici meridionali - il fior fiore della storiografia del Novecento: da Gaetano Salvemini a Gioacchino Volpe, da Benedetto Croce ad Adolfo Omodeo, da Rosario Romeo a Giuseppe Galasso; 3) che la “questione meridionale” (brigantaggio, emigrazione etc.) non può essere liquidata da qualche battuta di giornalisti tesi a épater les bourgeois, come Paolo Granzotto, Lorenzo del Boca, lo stesso Farina: ci sono studi fondamentali al riguardo - l’ultimo dei quali è l’aureo saggio di Guido Pescosolido, La questione meridionale in breve (ed. Donzelli) ma si veda anche Borbonia felix di Renata De Lorenzo ( ed. Salerno) - che fanno giustizia di tanti luoghi comuni.
Uno storico di fede repubblicana scomparso di recente, Giuseppe Galasso, commentando sul Corriere della Sera del 22 agosto 2016, un vecchio saggio di Luigi Salvatorelli, Casa Savoia nella storia d’Italia, scriveva: «In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento». “Questa è storia! ” e storia di un grande popolo. Articoli come quello di Renato Farina dimostrano, invece, che stiamo diventando “un popolo senza storia” anzi una plebe di dissacratori che riconosce il suo eroe solo in Tersite.

mercoledì 28 marzo 2018

Io difendo la Monarchia cap IV - 2


Dal momento in cui, per il veto di don Sturzo, cioè dei popolari, non aveva potuto far ritorno al potere Giolitti, la macchina parlamentare continuava a girare a vuoto. I popolari avevano motivato il loro veto con ragioni di moralità politica. Essi, infatti, avevano determinato, unendosi ai socialisti, la caduta di Giolitti alcuni mesi prima. Senza dubbio vi erano stati dei motivi per determinare allora la crisi, ma nel febbraio 1922 e, infine, nell’agosto dello stesso anno, si presentava l’occasione di tentare con Giolitti l'ultimo esperimento parlamentare fondato sulla collaborazione delle sinistre democratiche e dei popolari con il socialismo riformista e la Confederazione del lavoro. Ogni altra combinazione non poteva realizzare l'unione dei due maggiori partiti: socialisti e popolari. Doveva cadere quindi l'avversione  di don Sturzo al ritorno di Giolitti poiché nessuno era in socialisti e popolari. Doveva cadere quindi l’avversione di don Sturzo al ritorno di Giolitti poiché nessuno era in grado di offrire una soluzione migliore. I fascisti videro bene il pericolo di un ritorno di Giolitti. Nel resoconto di una seduta segreta del 16 ottobre 1922 della direzione del partito fascista a Milano, Farinacci esclamava: «Bisogna impedire a Giolitti di andare al Governo. Come ha fatto sparare su d’Annunzio, farebbe sparare sui fascisti».
Intanto appariva sempre più grave la situazione che si era determinata con il Congresso di Napoli e con la minaccia mussoliniana di calare su Roma. Il Re giungeva da San Rossore la sera del 27 ricevuto da Facta, Presidente del Consiglio, che gli aveva telegrafato.
Il Re appena disceso dal treno apparve molto preoccupato: qualcuno che era alla stazione ricorda il suo viso oscurato e pensoso. Sapeva che i fascisti avanzavano da nord e da sud verso la Capitale che egli non avrebbe voluto lasciare assalire, ma gli ripugnava l’urto, il probabile spargimento di sangue: bramava evitare delle giornate di lutto al paese. L’on. Facta disse la sua fiducia che tutto poteva volgersi in bene: era ancora fermo nell’idea e nella speranza della combinazione Giolitti-Mussolini, ormai tramontata come diciamo più oltre.
Credeva che con il capo del fascismo al Governo, le camicie nere non avrebbero ecceduto: intanto conveniva impedire che invadessero Roma. L’on. Facta si intrattenne con il Re un quarto d’ora e chiese di essere ricevuto più tardi — la sera stessa — per recare al Sovrano le ultime notizie. Infatti egli andò a Villa Savoia alle ore 22 e ne uscì dopo un’ora, dirigendosi al Palazzo Viminale ove era convocato il Consiglio dei Ministri che si può dire, sedeva in permanenza e seguiva di ora in ora la marcia fascista segnalata dai telegrammi dei Prefetti. Nel Governo contrastavano due tendenze, due opinioni: una parte credeva si dovesse ormai decretare lo stato di assedio per fermare le squadre fasciste: l’altra parte giudicava inopportuno tale provvedimento. Dopo lunga animata appassionata discussione, a notte tarda in seguito alle notizie che le camicie nere avanzavano sempre più ed erano ormai presso Roma, pronte all'assalto, prevalse la decisione dello stato di assedio: fu redatto, nella notte stessa, il manifesto col quale il comando e il controllo della città erano affidati all’autorità militare e furono diramati gli ordini in proposito in tutta Italia.
Alle dieci del mattino il Presidente del Consiglio ritornò dal Re per la firma del decreto che disponeva lo stato di assedio. Il Re aveva appreso dai giornali che già sui muri di Roma erano comparsi i manifesti ed espresse all’on. Facta la sua meraviglia. Rilevò che Roma non era difendibile giacché aveva solamente 8000 uomini armati compresi i carabinieri e la guardia regia, non sicura: invece i fascisti erano più di 100.000 secondo le informazioni pervenute al Governo, oppure 80.000 nei calcoli dei carabinieri (secondo Mussolini — colloqui con Ludwig — erano 50.000). « Fossero anche meno, concluse il Re, lo stato d'assedio opposto ai fascisti è la guerra civile con le sue gravissime conseguenze: e non è possibile, non è augurabile, soffocare nel sangue un movimento così forte nel paese e così sorretto dalla opinione nazionale». Vero. Tanto più che il Parlamento si era dimostrato incapace di costituire un governo solido e di risolvere nella legge, nella provvida legalità, desiderata, invocata dal Sovrano, un conflitto che si trascinava da quattro anni.
A distanza di 23 anni dagli avvenimenti ci troviamo dinanzi a una inaudita mistificazione e a una totale alterazione di essi.
Ristabiliamo dunque la verità. Le ultime crisi parlamentari, quelle del febbraio e dell'agosto, erano state lunghe, faticose, snervanti. 11 paese reclamava un Governo e il Parlamento non riusciva a darlo. La crisi aperta il 26 ottobre con le dimissioni del Ministero Facta si presentò ancora più difficile delle altre. Furono discussi dalla stampa gli stessi uomini e le stesse soluzioni delle crisi precedenti, ma tutti declinavano l'invito: Mussolini sicuro che, quale animatore di un vasto movimento, sarebbe stato chiamato comunque al Governo, già aveva aperto dopo il suo discorso di Napoli, trattative con Giolitti per fare un Ministero del quale offriva al vecchio e forte statista piemontese di essere presidente.

Intermediari Camillo Corradini, che andò da Roma a Dronero, e il senatore Lusignoli Prefetto di Milano ove era Mussolini. Il quale aveva subdolamente altro scopo da quello che annunciava: mirava a guadagnare tempo per far arrivare fino a Roma le squadre fasciste e quindi imporre al Re, in pieno, la sua volontà, il suo vero disegno: che era un governo presieduto da lui stesso. Alla fine, fissò alte condizioni che credeva non sarebbero accolte da Giolitti: cioè 8 Dicasteri a deputati fascisti compresi l’Interno, gli Esteri, la Finanza, il Tesoro, la Guerra, la Marina. Fu riluttante il Giolitti, ma Corradini e Lusignoli si adoperarono a persuaderlo con tale calore che l'uomo di Dronero finì per consentire ad avere la presidenza sic et simpliciter, senza alcun portafoglio, senza quel Dicastero degli Interni che era la sua rocca tradizionale. Ma quando Mussolini seppe, con meraviglia, che tutte le sue condizioni erano accettate, dichiarò che non le... accettava più lui. Intanto aveva guadagnato, con la laboriosa discussione. 4 giorni, dal lunedì al giovedì. Ma le squadre fasciste non erano ancora a Roma: erano, al sud, a Capua e, al nord, a Civitavecchia: occorrevano altre 48 ore perché giungessero alle porte della capitale e impressionassero il Re. E Mussolini volse a Salandra Io stesso inganno teso a Giolitti, prolungato tinche gli era stato possibile: e riuscì. Non appena Mussolini fu informato a Milano, ove era rimasto, che la sua gente, più o meno armata era presso Roma, abbandonò Salandra come aveva abbandonato Giolitti. Più tardi si compiacque di aver “dupé” l'uno e l’altro.
La notizia del non corrispondeva alle correnti della Camera, ma poichéil Parlamento non era capace di altra designazione; ilRe, guidato dal suo rigoroso spirito costituzionale, dovè tener conto della chiara e irrompente volontà che mostrava la nazione. Del resto la Camera e il Senato non tardarono a confermare, a consacrare quella volontà a grandissima maggioranza. Vi fu più tardi la secessione dell’Aventino, ma essa fu sterile, fu un errore. E ne parleremo più avanti.
Il male è che da tempo si era creato un abisso tra il paese legale e il paese reale. Incaricando Mussolini la Corona andava incontro al paese. Senza dubbio il Sovrano si decideva ad un passo così grave con profondo rammarico. Le dichiarazioni di Mussolini erano state assai aspre e intimidatorie verso la Corona anche in quei giorni di lotta. Era la prima volta che si diventava Primi Ministri minacciando la rivoluzione e ricattando il Parlamento e il Re. Ma non vi era alternativa migliore: o aprire il fuoco con risultati imprevisti accendendo la guerra civile, o dare l’incarico a Mussolini con la speranza di riassorbire il movimento fascista nell’ordine costituzionale.

venerdì 23 marzo 2018

Il libro azzurro sul referendum - XI cap - 1

Una richiesta dell’on. Enzo Selvaggi alla Corte di Cassazione e alla Presidenza del Consiglio (7 giugno 1946)

«II Ministro degli Interni ha comunicato le cifre relative al referendum istituzionale ed ha indicato la cifra di maggioranza che determinerebbe il mutamento della forma istituzionale dello Stato. Tale cifra è stata calcolata in rapporto al totale dei voti validi. Si è, cioè, in sostanza calcolato quale delle due forme istituzionali proposte alla scelta del Paese abbia avuto il maggior numero di voti validi, adottando lo stesso criterio che per la elezione dei deputati all'assemblea costituente.
E’ legittimo questo criterio di determinazione della maggioranza rispetto alla lettera e allo spirito della legge sul referendum istituzionale? Non è legittimo secondo la legge, perché la legge sul referendum all’art. 2 prevede che si formi maggioranza soltanto in rapporto al numero degli «elettori votanti», vale a dire in relazione a tutti coloro i quali abbiano esercitato il diritto di voto.
La formula dell’art. 2 è infatti questa : «Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della repubblica... » La stessa formula è ripetuta per il caso della monarchia.
Non v’è dubbio che alla espressione « elettori votanti » si debba dare il suo preciso significato tecnico. E il numero degli elettori votanti e costituito — secondo la legge — dai voti validi e da quelli che l’art. 15 del regolamento ritiene nulli. Lo stesso regolamento (art. 12) rinviando all’art. 53 comma terzo della legge sull’Assemblea costituente, per la determinazione che il presidente del seggio deve tare del numero dei votanti, include in essi anche i voti nulli e non attribuiti.
Se si determinasse la maggioranza soltanto sulla base della dita lutale dei voti validi, si avrebbe una interpretazione estensiva della norma in favore della parte che ha ottenuto soltanto la maggioranza dei voti validi ma non la maggioranza dei votanti. Ed è chiaro che nella materia in questione non è consentita alcuna interpretazione estensiva.
Ne è idoneo a fornire alcun diverso elemento di interpretazione l’art. 17 delle norme regolamentari dello svolgimento e la proclamazione del referendum istituzionale (Decreto Luogotenenziale 23 aprile 1946), Tale articolo infatti dispone che la Corte di Cassazione proceda alla somma dei voti attribuiti alla repubblica e di quelli attribuiti alla monarchia in tutti i collegi», il che è operazione ovviamente necessaria anche nel caso che la maggioranza assoluta debita essere calcolata (come in effetti si deve) in rapporto alla totalità degli elettori votanti ».


La norma di legge che determina in modo vincolante il criterio di determinazione della maggioranza è appunto e solo l art. 2 della legge ove tale criterio è tassativamente espresso, disposizione che consegue in ordine logico a quella contenuta nell’art. I che deferisce soltanto alla decisione del popolo la scelta della forma istituzionale. E nemmeno può ostacolare l’interpretazione, quale risulta dalla lettera della legge, l’asserto che non è prevista l’ipotesi di una mancata maggioranza in relazione al numero « degli elettori votanti » a prescindere dalla considerazione che l’asserto rivela solo un inconveniente (che non fu mai, per antica saggezza, argomento), non è prevista nemmeno l’ipotesi, in ogni caso possibile, di una parità di voti, ipotesi che solleverebbe un identico problema costituzionale.
Non è legittimo il criterio, secondo lo spirito della legge: il referendum infatti decide sulla scelta della forma istituzionale e la decisione valida, in tal caso, per l’enorme impegno che la soluzione comporta, è giusto che sia quella che esprime la maggioranza della manifestazione di volontà di tutti coloro che alla decisione hanno partecipato.
Non e legittimo il criterio, secondo lo spirito della legge: il referendum infatti decide sulla scelta della forma istituzionale e la decisione valida, in tal caso, per l’enorme impegno che la soluzione comporta, è giusto che sia quella che esprime la maggioranza della manifestazione di volontà di tutti coloro che alla decisione hanno partecipato.
Il semplice esercizio del diritto di voto (anche se poi il voto risulti nullo) è già una manifestazione della volontà dell’elettore di partecipare alla scelta stessa. La nullità infirma soltanto il contenuto della manifestazione stessa agli effetti di un’attribuzione all'una o all'altra forma istituzionale, ma non costituisce una manifestazione di volontà contraria all'una e all'altra forma, e perciò il voto nullo va computato per la costituzione della cifra totale in relazione alla quale la maggioranza deve essere stabilita.
E’ necessario dunque, perché sia chiaro se, nella votazione sul referendum vi sia stata una decisione valida, che venga determinata preliminarmente la cifra totale dei votanti. Ripetiamo: la maggioranza voluta dalla legge è costituita non dal raffronto fra i voti per la repubblica e voti per la monarchia, ma dal rapporto delle due cifre rispetto ad  un terzo, e precisamente a quella del numero di tutti coloro che hanno votato. Il Ministero degli Interni ha quindi il preciso dovere di comunicare al Paese tale numero».

giovedì 22 marzo 2018

Conferenza del Comandante D'Atri per il Circolo Rex


CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”




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Immigrazione, emigrazione, limiti, controlli, efficacia. Per l’Europa il problema è solo questo? Il problema, in realtà è ben più vasto e delicato e riguarda l’andamento demografico di tutto l’Occidente, specie se confrontato con lo sviluppo della popolazione dei paesi extraeuropei, particolarmente dell’Africa e dell’Asia. Su questo tema parlerà

Domenica 25 Marzo, ore 10.30

 Il Cap.Vasc. ( R ) dr. Ugo d’Atri - Presidente dell’Istituto Nazionale Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon - 

“La demografia costituirà la condanna dell’Occidente?”

Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), 
o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” 
ed autobus, “ 910”,” 223” e “ 52”

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Ingresso libero

mercoledì 21 marzo 2018

Repubbliche e presidenti


Arrivare alla massima carica dello Stato, rappresentare l’unità nazionale riteniamo debba essere un onore ed un onere per coloro che raggiungono questo traguardo dopo anni di vita integerrima, di esperienza politica o amministrativa che ne facciano l’espressione migliore del popolo che si accingono a governare. Queste ed altri nobili concetti sono stati alla base di tante scelte istituzionali per la forma repubblicana dello Stato, magnificata come un progresso democratico e civile rispetto ad altre forme istituzionali arretrate od obsolete secondo certe “vulgate” !
Purtroppo per coloro che si illudono, o si fecero illudere, la realtà è ben diversa. In primo luogo in moltissimi casi il raggiungimento della presidenza avviene con maggioranze minime del corpo elettorale, quando si tratti di elezioni dirette, che vedono molte nazioni quasi spaccate a metà, o addirittura con il voto di una minoranza nel caso di forti astensioni dal voto, o sono il frutto di compromessi partitici nel caso di elezioni indirette da parte di rappresentanti eletti nei locali parlamenti, per cui è difficile ritenere l’eletto espressione di tutto il popolo, che infatti, per la parte soccombente, vedi recente caso Trump, non si ritiene rappresentato, contestandone ogni decisione, pur ufficialmente e democraticamente valida.
Vi è poi un aspetto che vicende avvenute in numerosi paesi retti a repubblica in questi ultimi decenni va doverosamente ricordato: i casi in cui questi capi dello stato, o nel corso del loro mandato, o allo scadere dello stesso sono stati oggetto di azioni giudiziarie. Da Nixon, allo stesso Clinton, per poi passare a paesi non certo secondari come il Brasile, l’Argentina, il Cile ed il Perù, sempre a titolo indicativo e non esaustivo, per non parlare di paesi africani ed asiatici. 

Ma che ora queste vicende tocchino Sarkozy, un ex presidente della repubblica francese, la “madre” delle repubbliche, i cui “valori repubblicani” (quali?), vengono esaltati ogni 14 luglio, è una notizia che non può essere passata sotto silenzio, anche se essere indagato non significa essere automaticamente colpevole, come piace a molti giustizialisti, tra i quali non siamo noi. 
Ricevere contributi da un paese straniero per la propria campagna presidenziale, se vero, è ben diverso e grave rispetto a quel che disse un Re di Francia, Enrico IV, che “Parigi valeva bene una Messa”.

Domenico Giglio

lunedì 19 marzo 2018

Mola, Maria Gabriella ha ringraziato Mattarella

“La principessa Maria Gabriella ha ringraziato ancora una volta il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per avere agevolato la traslazione a Vicoforte delle salme del Re e della Regina”. 
E’ quanto ha affermato Aldo Alessandro Mola, presidente della Consulta dei senatori del Regno, commentando la visita “in forma di privata” di Maria Gabriella ieri al Santuario.
“Ha anche sottolineato – aggiunge Mola – come la collocazione a Vicoforte sia quanto mai giusta per raccogliere la memoria degli italiani e il ricordo dei suoi nonni”.

Mola oggi era presente alla visita della delegazione dal Montenegro. “Ne verranno altre – ha spiegato – dalla Bulgaria, perché la quarta figlia di Vittorio Emanuele III, Giovanna, ne diventò la Regina sposando re Boris III”.
Quanto alla permanenza delle tombe dei Reali a Vicoforte, Mola è convinto che “il discorso sia chiuso: è stato sottolineato, con un documento reso pubblico, che a suo tempo Vittorio Emanuele e Maria Gabriella avevano chiesto al Presidente della Repubblica la traslazione delle spoglie in Italia. Vicoforte è in Italia, ed è la sede giusta”.

Savoia a Vicoforte: a sorpresa ieri la visita di Maria Gabriella

Tornano al centro dell'attenzione, locale e nazionale, le tombe di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena di Savoia sepolte al Santuario di Vicoforte. E ancora una volta avviene nel segreto e nella riservatezza. Ieri, sabato 17 marzo, a sorpresa è arrivata anche Maria Gabriella di Savoia per rendere omaggio alle tombe dei nonni. La principessa Maria Gabriella, sorella dell'ultimo Vittorio Emanuele di Savoia (e con cui spesso è in contrasto) era attesa solo ad aprile. Era invece a Vicoforte in basilica durante la messa.
Se salme del Re e della Regina riposano nella cappella di San Bernardo dallo scorso dicembre. Prima quella della Regina Elena, avvenuta nel silenzio più totale, poi quella del Re, circondata invece da tutti i crismi tipici di un cerimoniale da memorial sabaudo. L’iniziativa di un rientro delle spoglie della stessa Regina Elena e del Re Vittorio Emanuele III (sepolto ad Alessandria d’Egitto), presa dai familiari di casa Savoia, risale come prima istanza al 2011, reiterata nel 2013 proprio da Maria Gabriella. Una richiesta fatta al vescovo di Vicoforte e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

«Niente Pantheon: sento che qua sono nel posto giusto»

Maria Gabriella si è recata a visitare le due tombe al termine della messa mattutina, alla presenza del solo vicario generale, don Meo Bessone, e del prof Aldo Mola, storico di casa Savoia: «Sento che il Re e la Regina sono finalmente nel posto giusto - ha dichiarato a "La Stampa" -, sono di nuovo insieme e nel loro Paese». Era già stata a Vicoforte nel 2013, quando ci fu l'ultima e risolutiva richiesta ufficiale per il trasferimento delle salme. «Mio fratello Vittorio Emanuele IV sapeva del trasferimento. Non c'è stato segreto, ma prudenza. Non era possibile seppellirli a Superga. Il Pantheon non è mai neppure stato preso in considerazione. Grazie al presidente Mattarella per la mediazione che ha consentito questo risultato».


Vicoforte, visite illustri alle tombe dei Reali

La Principessa Maria Gabriella e una delegazione del Montenegro 

La Principessa si è recata nel Monregalese ieri mattina senza preavviso e ha sostato in preghiera dinnanzi ai sepolcri: "Questa basilica è il luogo idoneo ad ospitare i miei nonni in eterno", ha dichiarato. Questa mattina, invece, una rappresentanza montenegrina è venuta a rendere omaggio alla Regina Elena e a Vittorio Emanuele III

Il suo arrivo a Vicoforte era previsto per il prossimo 17 aprile in occasione di un convegno organizzato dal "Rotary Club" di Cuneo, ma lei ha deciso di anticipare i tempo di un mese e concedersi un "blitz" in solitaria per salutare i suoi nonni in un contesto di massimo riserbo: nella mattinata di ieri, sabato 17 marzo, la principessa Maria Gabriella di Savoia si è recata presso il Santuario di Vicoforte per visitare dal vivo per la prima volta le tombe dei suoi nonni, la regina Elena e il re Vittorio Emanuele III, al termine della funzione officiata dal rettore della basilica, don Meo Bessone.
Accompagnata dal professor Aldo Alessandro Mola, presidente della Consulta dei Senatori del Regno, la principessa ha riferito di aver provato "una forte emozione" e ribadito di essere convinta che "il Re e la Regina riposano finalmente nel posto giusto. Divergenze con mio fratello Vittorio Emanuele? No, sapeva anche lui del trasferimento. Non è mai stato preso in considerazione il Pantheon di Roma. Ringrazio il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per aver consentito il rimpatrio delle salme".

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domenica 18 marzo 2018

Sono passati trentacinque anni dalla morte di Re Umberto II


 di Emilio Del Bel Belluz 

Il tempo della vita scorre e ci si accorge d’aver vissuto abbastanza quando troppi sono i ricordi che riemergono, ricordi che forse non scompariranno mai. Allo stesso tempo ognuno di noi possiede delle date che non dimenticherà mai. Ci sono persone che ci entrano nel cuore, perché le abbiamo incontrate nella vita.  
Ho conosciuto la figura di Re Umberto II dai racconti di mio zio e della mia maestra. Non ho mai compreso come si possa mandare in esilio un Re come Umberto II, che si è sacrificato per il bene della sua Italia, lasciando il suo Paese per evitare una guerra civile. 
Allo stesso tempo, non ho mai capito come i nostri politici possano aver lasciato in esilio il Re per ben 37 anni, non permettendogli nemmeno di chiudere gli occhi nella terra dove era nato.  
Il 18 marzo 1983 rimarrà come uno dei giorni più tristi della mia vita, il dolore che provai era davvero tanto. Tanto odio verso il Re non l’ho mai capito, anche perché non ho mai compreso cosa avesse fatto di tanto male. Una cosa era certa: il Re aveva messo al primo posto della sua vita la patria, il sacro suolo che lo aveva accolto alla nascita e che avrebbe voluto che l’abbraciasse alla morte. 
Penso a quel galantuomo di Guareschi che amava il suo Re, che tanto si era speso per scrivere di lui con il cuore. Credo che se il Signore avesse dato molti anni di vita a Guareschi, si sarebbe battuto anima e corpo per perorare la causa del rientro in Italia. La sua penna nobile e gentile avrebbe fatto miracoli, ma il destino volle che morisse cinquant’ anni fa. 
Dopo la sua morte non sono stati molti gli scrittori che si sono battuti per la stessa causa. Le salme di Re Umberto e della regina Maria Josè sono ancora sepolte in esilio, e questo la dice lunga. Lo stesso Umberto II si chiedeva come mai certi giornalisti si esprimessero contro di lui con offese ed insulti. Era andato a vivere in Portogallo, una terra lontana, ma dove è sempre stato amato dalla gente del posto. Il Re era l’amico umile dei pescatori, quelli cantati da grandi scrittori che avevano visto nella loro lotta alla sopravvivenza, la semplicità degna di grandi uomini. Il Re andava a messa ogni mattina, nella chiesa di Cascais, dove faceva sempre la comunione. C’è un episodio che vorrei raccontare. 
Mentre scrivo questo articolo è il nove marzo 2018, una giornata speciale per la mia città. Nel 1510, era comparsa la Madonna a un povero contadino che si era fermato davanti a un capitello a recitare il Santo Rosario, cosa che faceva ogni mattina. A questo vecchio la Madonna diede dei suggerimenti, tra cui quello di costruire un Santuario che ancora esiste. Collego questa cosa al fatto che quest’ anno, il 2 gennaio, è arrivata una Madonna che ho fatto benedire dai frati di Motta di Livenza, a Cascais. Questa Madonna è stata collocata nella chiesa dove il Re Umberto II si recava a pregare. Si tratta della chiesa Igreja Matriz Senhora da Assuncao di Cascais. La Madonna è giunta nella parrocchia di padre Nuno Filipe Fernandes Coelho, che ha permesso che questo avvenisse. Mi onora sapere che in quella chiesa che il Re frequentava ci sia un ricordo dell’Italia, di quell’Italia che non ha mai dimenticato il suo Re. Un piccolo pensiero per ringraziare quello che i portoghesi hanno fatto per il Re. 
La fede era la sola certezza che lo potesse aiutare a superare le tremende prove a cui fu sottoposto. Gli uomini non lo avevano capito. Il Re  leggeva tanti quotidiani dal suo esilio, gli piaceva essere informato su tutto quello che accadeva nel suo Paese. 
La nostalgia lo opprimeva, ma amava la sua patria con il cuore. Rimaneva ferito nel leggere certi commenti negativi ed intrisi d’odio nei suoi confronti. Nel suo cuore aveva una citazione che spesso lo aiutava a superare quella bruna malinconia. Per questo citava uno scrittore americano, James Baldwin, che così scriveva: “Una delle ragioni per cui la gente si aggrappa così tenacemente all’odio è che sembrano avere la sensazione che una volta svanito l’odio gli resterà solo il vuoto e la pena”.  
Una frase che non ha bisogno di commento, che in qualche modo dava conforto al Re. Ogni persona cerca di trovare delle particolari frasi che possano abituarci a portare la croce con maggior forza. Re Umberto II conosceva bene la croce di Cristo. Ha vissuto tante ore di solitudine a osservare quel mare che con l’infrangersi delle onde lo accompagnava. Lo scrittore Thomas Paine scriveva : “ Quanto più aspra è la lotta, tanto più glorioso è il trionfo. Valutiamo poco ciò che otteniamo troppo facilmente : è l’alto prezzo da pagare che dà a ogni cosa il suo valore. Amo l’essere umano capace di sorridere nelle difficoltà, di trarre forza dalle angustie e coraggio dalla riflessione. Sono gli uomini meschini che si perdono d’animo. Ma chi ha un cuore saldo e una coscienza tranquilla perseguirà i propri principi fino alla morte”. La figura di questo sovrano è sempre stata quello di una persona che ha vissuto nel bene, che ha lottato per il bene, che si è sempre messa nelle mani del Signore. 
La Chiesa non ha mai fatto nulla per aiutare questo pellegrino nel mondo che tanto desiderava essere confortato. Ha fatto molto per la Chiesa, come il dono della Sacra Sindone. La solitudine di una persona buona è sempre difficile da comprendere e da sopportare. Tante sere d’inverso davanti al fuoco ho immaginato il mio sovrano intento a leggere un buon libro con il caminetto acceso. Diceva un poeta che dove c’è il fuoco si trova la famiglia. “ Non c’è sulla terra un suono più dolce del crepitio di un caminetto: aggiungetegli qualche ramo di pesco e di fico e il fuoco canterà il potere della terra e la triste nostalgia del vento”. 
Il Sovrano nella sua casa avrà sentito il vento che fischiava dalla finestra e la nostalgia della sua terra.  Gli uomini sono per loro natura capaci di mutare il pensiero con un’ estrema facilità, come spira il vento, ma nessuno di quelli che siedono oggi in comodi scranni potrà mai dire male del Re. Anni di sofferenza affrontati con cristiana fede, quella dell’esule che spera. Ha sempre manifestato il dolore per l’assenza della sua terra e l’incomprensione delle tante colpe attribuitegli, ma non commesse. Immagino il Re che cercava di dimenticare il dolore tra i suoi libri, in quella biblioteca dove riposavano tanti volumi che recuperò in giro per il mondo. In quel posto silenzioso, tra le sue adorabili  edizioni che raccontavano l’Italia, cercava conforto. 
Lo penso sempre seduto alla sua scrivania con un libro in mano, a cercare di viaggiare con la mente. Ogni tanto il suo cuore cerca dalla finestra un raggio di sole, e vorrebbe essere un uccello per raggiungere la sua patria, quei luoghi il cui respiro è ancora intenso. Magari ascoltando una canzone, la canzone dell’esule: 
“Viaggiare. Lasciarsi Paesi alle spalle/ Cambiare d’anima tutti i giorni .. / Io viaggio senza altro scopo / che sognare di andare. / Che mi resta se non la terra e il cielo .. ”  Sono passati trentacinque anni e lo ricordo con immutato affetto, perché se gli uomini non hanno compreso il suo cuore, Dio lo ha accolto nel regno dei giusti.


sabato 17 marzo 2018

17 Marzo





Nel giorno anniversario della proclamazione del Regno d'italia apprendiamo con sdegno che il governo italiano scaduto starebbe per cedere mare italiano alla Francia senza nulla in cambio.
Speriamo che non sia vero e se mai lo fosse che i responsabili vengano fucilati alla schiena.

giovedì 15 marzo 2018

La città di Fiume dopo la Grande Guerra: conferenza per il Circolo Rex



CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

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Nel trentacinquesimo anniversario della scomparsa 

di S.M. il Re Umberto II 

ricorderemo la Sua figura ed il suo costante interesse e partecipazione alle tristi vicende delle nostre popolazioni giuliane-fiumane-dalmate. In questo quadro i problemi di Fiume saranno oggetto della conversazione che terrà

Domenica 18 Marzo, ore 10.30

 Il Prof. Giovanni STELLI

Presidente della Società di Studi Fiumani

“La città di FIUME dopo la prima guerra mondiale 
ed il compimento della Unità Nazionale”

Sala Roma presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale),
o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19”
ed autobus, “ 910” ,” 223” e “ 52”
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Ingresso libero