NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 15 aprile 2017

Vita eroica di Amedeo di Savoia - quarta parte

Il 16 maggio, dopo 43 giorni di assedio e dopo avere reiterate volte respinto le intimazioni di resa le condizioni erano queste: gli uomini ridotti a 2500 perché 1300 erano morti, non esisteva più un solo colpo di cannone, vi erano ancora pochi caricatori per le armi leggere, i pochi muli erano stati già tutti sacrificati, la sete era allucinante, ma, dalle pendici del monte si vedeva avvicinare sempre più una marea di fute bianche, i 30.000 armati di Ras Seium. No, non vi era più scampo! Ed il Duca che aveva cercato più volte la morte su quell'Amba desolata, che aveva visto morire attorno a sé ì migliori Suoi fidi, pensò che aveva il dovere di risparmiare l'orrenda carneficina che attendeva i superstiti, adesso che era salvo l'onore della Bandiera. Mandò fuori il Suo Volpini a trattare con gli inglesi; ma gli armati di Ras Scium non rispettarono la guarentigia della bandiera bianca, una scarica di fucili uccise lui e gli altri parlamentari, così che furono gli inglesi a dover recarsi dal Duca; e due giorni dopo vi fu la discesa dell'Amba Alagi.

Amedeo di Savoia fu l'ultimo ad abbandonarla dopo avere diviso con i superstiti le poche cose ed il danaro che Gli restava; ma prima si recò nel forte Toselli dove due giorni prima era stato sepolto il generale Volpini, l'amico del Suo cuore, che per 15 anni aveva, ai Suoi ordini, diviso la gioia e le asprezze della Sua vita, ed aveva pagato l'estremo tributo alla Sua granitica fedeltà.

Vi è una fotografia di Amedeo, fatta dagli inglesi, mentre Egli saluta nel fortino Toselli il breve lembo di terra che copre la salma di Volpini: gli occhi infossati, il volto emaciato, irriconoscibile, è la statua del dolore e dà l'impressione di essere già al di là del tempo e della vita.

Venne portato ad Adi Ugri ove restò 15 giorni, chiuso in una piccola casa, in attesa della sistemazione definitiva, e fu ad Adì Ugri, nel chiuso di quattro pareti che seppe dalla radio della medaglia d'oro al valor militare assegnatagli da S. M. il Re: «ho seguito con viva affezione e con ammirata fierezza la Tua opera di comandante e di soldato. Ti ho conferito la medaglia d'oro al Valore Militare, desiderando premiare in Te anche coloro che, combattendo ai Tuoi ordini, hano bene meritato dalla Patria ».

Sì. Egli si sentiva di essere, Egli era il depositario dei mille e mille Caduti nella difesa dell'Impero; nel Suo cuore batteva il cuore di una moltitudine di Morti e di superstiti.
La Sua nuova dimora fu stabilita a Nairobi.
Gli fu assegnato il villino da caccia di Lady Me Millan, a 70 Km da Nairobi, villino abbandonato da anni, infestato da pulci da zecche e da topi, e dovette personalmente per una settimana intera, aiutato dai Suoi, provvedere a liberarsi, per quanto possibile, da questi ospiti indesiderabili.

Le gazzette inglesi farneticavano sulla libertà di cui godeva il Principe, che poteva recarsi ove volesse, ospite, dicevano, e non prigioniero di S.M. Britannica; che da Addis Abeba Gli erano stati portati i Suoi cavalli, che possedeva una ricca automobile per i Suoi spostamenti. La verità vera era un'altra: non poteva andare al di là di 380 m dalla casetta, vigilato da un bene attrezzato e numeroso corpo di guardia, ed invece dei cavalli e dell'auto, esisteva una carrozza di cui si servivano gli ufficiali inglesi, che dopo una settimana l'avevano resa inservibile.

Era un prigioniero, come gli altri, che ebbe la prima lettera dei Suoi dopo sette mesi di prigionia, e niente Lo feriva e Lo umiliava più delle letture delle riviste Sud Africane ed Inglesi che gli ufficiali di guardia Gli mostravano.
In una si diceva che, sull'impegno della Sua parola di onore, Gli sarebbe stato concesso di andare in Italia a rivedere la Sua famiglia.
Il rossore Gli salì al viso. Come si poteva pensare che Egli avrebbe accettato un simile privilegio? Un'altra volta lesse in una rivista Sud Africana che i Suoi magnifici soldati erano i « contemptible scavengings in the biways of the battle ».

Umiliato, depresso, in quella solitudìne disperata rotta solamente dalle notizie sempre peggiori che giungevano dai lontani campi di battaglia europei, fu, punto un giorno da una zecca, e ne risultarono altissime febbri a tipo tifoideo, che Gli durarono settimane e Lo ridussero allo estremo, mentre il Suo medico, Dott. Borra, invano chiedeva di poter fare delle analisi e degli esami speciali, ed invano chiedeva medicinali.

Appena rimessosi chiese ed ottenne di poter recarsi al Comando del Campo da cui dipendeva, per avere la assicurazione che le donne ed i bambini internati nel Kenia sarebbero stati evacuati per primi, con precedenza su tutti.

Voleva entrare nel campo per salutare i Suoi soldati colà prigionieri, ma Gli fu vietato, ed allora girò attorno al filo spinato entro il quale eran rinchiusi, mentre i Suoi vecchi soldati Gli gridavano parole di amore. Fu visto pallido, diritto, con gli occhi gonfi di lagrime, e non si vergognò di dire a chi Lo accompagnava: «Talvolta piangere è una felicità!».

Ma la febbre riprese, gagliarda, e questa volta fu trovato il plasmodio della malaria.

In quell'organismo, debilitato dalla lunga sofferenza morale, dalle privazioni fisiche durate nelle lunghe settimane di assedio sull'Arnba Alagi, questì lunghi attacchi febbrili determinati dalla insalubrità del luogo, dovevano portare alla consuzione ed alla morte.

Quando si recò a trovarlo il Maggiore Ray Wittit, di cui cito il nome ad onore, unico tra gli ufficiali inglesi che, avendo in tempi felici conosciuto il Duca di Aosta, non aveva dimenticato l'omaggio che a Lui si doveva nella sventura, quando andò a trovarLo e Lo vide in quelle condizioni, su quel lettino di ferro ove non poteva allungare i piedi, con gli occhi lucidi di febbre, nella più grande desolazione, non potè contenere il suo sdegno, che esplose in sacro furore: questo era il modo di trattare un Principe Reale della più vecchia dinastia regnante di Europa? Questo era il modo di trattare un glorioso nemico, leale e cavalleresco, tenendolo lì, a 70 km dal consorzio umano, in quella casetta abbandonata al limite di una foresta?
Questa era la asserita, vantata ospitalità del Re di Inghilterra?

Così riuscì ad ottenere che, a spese del Duca, Egli fosse ricoverato in una casa di cura, La Maja Cumbery Nursing Home.

Ma oramai il destino era segnato, ed ecco allora, per salvare la faccia, il medico inglese che appare all'ultima ora, ecco anche affacciarsi quel Rennel Road, compagno di giuochi della Sua fanciullezza, quando il padre era ambasciatore in Italia nei tempi felici. Il padre che amava ed era riamato dagli italiani aveva scritto al figlio degenere: ricordati, ricordati di quanto dobbiamo ai Duchi di Aosta, e sii di conforto al prigioniero.
Ma il figlio era andato all'aeroporto, aveva salutato con ostentata indifferenza lasciando di ghiaccio il Duca che Gli era andato incontro per abbracciarlo; ed ora, eccolo lì, vicino al Suo letto di morte: « Che sei venuto a fare ora? - gli disse il Duca - ora è tardi, vattene ».
Si, oramai era tardi per le finzioni del mondo; adesso voleva essere solo con Dio e con i pochi fidi superstiti, per prepararsi a morire; oramai aveva gli occhi chiari della morte che guardano con distacco le cose vane e caduche.

A chi Gli propose di chiedere - e certo lo avrebbe ottenuto, che Sua Madre e la Sua Sposa accorressero al Suo capezzale, non rispose neppure: si limitò a guardarlo: come poteva Egli, il Capo, morire diversamente da quei soldatini che uno ad uno se ne scendevano ogni giorno nella terra nera dell'Impero perduto?

I pensieri supremi oramai Lo dominavano, ed erano quasi allucinanti tra le accolimie della febbre: la Patria, la bandiera, l'onore, il Re, ed i Suoi soldati, i Suoi soldati.

Il 1° marzo il comando inglese, convinto ormai della fine imminente, consente alfine che gli amici del Duca si rechino al Suo capezzale.

«Scrivi, scrivi, io ti detto, ho paura di non fare in tempo, scrivi; giunga l'estremo saluto ai miei soldati di terra, del mare e del cielo, compagni di arme di tante campagne d'Italia e di Libia. Ai miei camerati di prigionia, ed a tutti quelli che con indomito valore mi hanno seguito in questa epopea Africana, lascio il retaggio di portare il tricolore sulle Ambe dove i nostri Morti montano la guardia».

«Scrivi, Verin, scrivi: riaffermo al mio Re, in questa ora suprema la fedeltà di tutta la vita».

Poi dice al Dottor Borra: «quante volte, caro Dottore, ho pensato che sarebbe stato meglio morire sull'Amba Alagi. Colà la morte non mi ha voluto. Ma ora, di fronte a Dio, penso che sarebbe stata vanità: bisogna saper morire anche in mano al nemico, anche in un povero ospedale».

Padre Boratto Gli somministra i Sacramenti la sera del 2 marzo. Mancano poche ore alla fine, ed il Duca dice a Padre Boratto: «come è bello morire in pace, con Dio, con gli uomini, con se stesso. Questo solo è quello che veramente conta».

Alle ore 3,56, prima dell'alba l'ultimo respiro si è fermato nel petto generoso.

Abbiamo letto or sono due anni sui giornali che un'opera di orfani di guerra intitolata alla memoria di Amedeo di Savoia Duca di Aosta cambiava nome, per chiamarsi Opera degli orfani della Banca d'Italia. Chi propose tale cambiamento, chi ci appose la firma sanzionatrice?

Meglio non dire.

Leggemmo anche sui giornali che qualche cittadino e non tra gli ultimi della Valle di Aosta, aveva proposto, a proposito di autonomie regionali che, in caso di guerra tra Oriente ed Occidente la regione autonoma dovesse proclamare la sua neutralità, chiedendo di unirsi alla Svizzera, e la proposta trovò presso parecchi favorevole accoglimento.

E noi abbiamo riveduto con gli occhi dell'anima il Duca di ferro sull'altissimo picco dell'Amba Alagi, all'ombra della vecchia Bandiera, mentre da l'estremo saluto al Suo vecchio compagno d'armi sotto una breve zolla di terra, ed ha gli occhi infossati, le guance scavate, già irriconoscibile, già votato alla morte; abbiamo veduto con gli occhi dell'anima quei magnifici battaglioni Alpini Aosta, superbi nella battaglia, ancora allineati sotto la terra del Montenero, dell'Ortigara, del Pasubio, di S. Michele, ed abbiamo pensato, ahime! abbiamo pensato che siamo caduti in una voragine di bassura, che abbiamo toccato il fondo della miseria; ma pure amiamo credere che forse appunto per questo, forse appunto perché non possiamo andare ancora più in basso, sia fatale che risaliamo alle alture.

Verità insopprimibile ed eterna è quella della Patria, e gli Italiani, se hanno potuto assistere impassibili allo strazio della loro terra tra contendenti stranieri, e se ancora cono divisi tra i fautori di oriente e di occidente, pur comprenderanno un giorno, e già cominciano ad aprir gli occhi, che né dagli uni né dagli altri possono attendersi grazia e salute, e che solamente se saranno uniti saranno ancora forti e rispettati nel mondo.

La bandiera della unità ci è stata portata via con la frode, anche essa imposta dallo straniero di dentro e di fuori, ma ogni giorno di più la nostalgia diventa cocente nel nostro cuore: ritornerà, ritornerà quel giorno benedetto nel quale gli Italiani si daranno ancora la mano: e quel giorno ritornerà anche l'ombra placata di Sua Altezza Reale Amedeo di Savoia, Duca di Aosta.

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